Ottiene prestiti a ripetizione: condannato per estorsione

Rilevante il contesto in cui si sono concretizzati i diversi episodi. Il soggetto ritrovatosi forzatamente nei panni di creditore è stato obbligato con reiterate minacce a prestare soldi al conoscente.

Prestiti ottenuti con le buone e, soprattutto, con le cattive. Legittima la condanna per estorsione. A finire sotto processo è un uomo – Pasquale, nome di fantasia –, trovato dai Carabinieri a farsi consegnare denaro – in prestito – da un suo conoscente – Nicola, nome di fantasia –. Il quadro probatorio, poggiato sulle dichiarazioni della persona ritrovatasi forzatamente nei panni del creditore e sul resoconto fornito dai militari dell'Arma, è ritenuto cristallino dai giudici di merito, i quali sanciscono, sia in primo che in secondo grado, la condanna di Pasquale, ritenendolo colpevole del reato di estorsione e sanzionandolo con tre anni e sei mesi di reclusione e 1.200 euro di multa. Col ricorso in Cassazione, però, Pasquale fornisce una versione opposta della vicenda, mettendo in dubbio le dichiarazioni di Nicola, che, aggiunge, «ha in qualche modo escluso la pronuncia di minacce» nei suoi confronti e «ha riferito come il debitore avesse sempre mostrato la volontà di restituire le somme ricevute in prestito». In questa ottica, poi, Pasquale aggiunge che dallo stesso racconto fatto da Nicola «è risultato che le minacce erano state espresse non per ottenere i prestiti ma per resistere alle sollecitazioni a restituire il denaro» già ottenuto. Ciò consente, sempre secondo Pasquale, di «escludere l'ingiusto profitto» e ricondurre il fatto al paradigma del reato di violenza privata, anche perché vi era, sostiene, «la mancanza di consapevolezza dell'ingiustizia del profitto, avendo egli sempre rappresentato la volontà di restituire quanto prestato» da Nicola. In prima battuta, però, i Giudici della Cassazione ritengono palese l'attendibilità della persona offesa, che «non ha inteso costituirsi parte civile» e che «ha raccontato del contesto in cui aveva conosciuto Pasquale, degli iniziali prestiti effettuati, delle ulteriori richieste di incontri con il pretesto di restituire le somme di denaro e, viceversa, le reiterate minacce, in un'occasione anche con un coltello, che lo avevano indotto a consegnare a Pasquale, in più occasioni, la complessiva somma di 1.890 euro» fino a quando «a seguito dei consigli del suo datore di lavoro che lo vedeva turbato e a cui aveva confidato i fatti, in occasione dell'ultima richiesta economica con le medesime modalità intimidatorie, si era presentato all'appuntamento con Pasquale, per dargli la somma di 700 euro, in compagnia dei carabinieri che avevano tratto in arresto Pasquale nella fragranza del reato di estorsione». Sacrosanto, quindi, il giudizio di attendibilità della vittima, viste «la intrinseca linearità delle dichiarazioni e l'assenza di qualsiasi intento rivendicativo» e visto che «la vittima è pervenuta alla presentazione della denuncia solo sulla base dei suggerimenti del datore di lavoro». Senza dimenticare, poi, i riscontri esterni individuati «nelle testimonianze del datore di lavoro del creditore nonché dei militari che erano intervenuti all'atto dell'arresto». Per chiudere il cerchio, infine, i magistrati della Cassazione ribadiscono che «ai fini della configurabilità del delitto di estorsione risultano indifferenti la forma o il modo della minaccia, purché essa sia idonea, in relazione alle circostanze concrete, ad incutere timore e a coartare la volontà del soggetto passivo, potendo la minaccia concernere qualsiasi bene e non necessariamente un'offesa alla persona, al suo onore o ai propri averi». E, sempre in questa ottica, «la connotazione di una condotta come minacciosa e la sua idoneità ad integrare l'elemento strutturale del delitto di estorsione debbono essere valutate in relazione a concrete circostanze oggettive, quali la personalità sopraffattrice della persona, le circostanze ambientali in cui essa opera, l'ingiustizia della pretesa, le particolari condizioni soggettive della vittima, vista come persona di normale impressionabilità, a nulla rilevando che si verifichi una effettiva intimidazione del soggetto passivo». E nella vicenda presa in esame sono palesi le connotazioni della minaccia messa in atto da Pasquale e «chiaramente protesa a procurargli un ingiusto profitto» ai danni di Nicola. Impossibile, quindi, ridimensionare tutto a mera violenza privata, vista e considerata «la natura economica della pretesa, anche avuto riguardo all'assenza di qualsiasi causale delle dazioni ottenute e all'esternata volontà contraria a quella di restituire i prestiti».

Presidente Imperiali – Relatore Pellegrino Ritenuto in fatto 1. Con sentenza in data 31/10/2016, la Corte di appello di Ancona confermava la pronuncia resa in primo grado dal Tribunale di Macerata in data 24/03/2015 con la quale S.V. era stato dichiarato responsabile dei reati di estorsione aggravata capo a e di estorsione aggravata continuata capo b e condannato alla pena finale complessiva di anni tre, mesi sei di reclusione ed Euro 1.200 di multa, con interdizione temporanea dai pubblici uffici. 2. Nei confronti di detta sentenza, nell'interesse di S.V. , viene proposto ricorso per cassazione, per lamentare quanto segue Primo motivo si denuncia la contraddittorietà della motivazione in punto di giudizio di responsabilità. La Corte territoriale si sarebbe basata sulle sole dichiarazioni della persona offesa M.L. senza un attento vaglio e nonostante egli stesso avesse in qualche modo escluso la pronuncia di minacce da parte dell'imputato e riferito come questi avesse sempre mostrato la volontà di restituire le somme ricevute in prestito. Secondo motivo si denuncia la violazione dell'articolo 629 c.p Assume il ricorrente che, dallo stesso racconto della persona offesa lesa, sarebbe risultato che le minacce erano state espresse non per ottenere i prestiti ma per resistere alle sollecitazioni a restituire il denaro, sì da escludere l'ingiusto profitto e da ricondurre il fatto al paradigma dell'articolo 610 cod. pen o, in ogni caso, da rivelare la mancanza di consapevolezza dell'ingiustizia del profitto avendo l'imputato sempre rappresentato la volontà di restituire quanto prestato dalla persona lesa. Terzo motivo si denuncia violazione dell'articolo 27 Cost., ribadendosi la carenza del quadro probatorio non in grado di superare il canone dell'oltre ragionevole dubbio . Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile. Va evidenziato in premessa come, nella fattispecie, si sia in presenza di un'ipotesi di c.d. doppia conforme , con la conseguenza che le due sentenze di merito possono essere lette congiuntamente costituendo un unico corpo decisionale, essendo stati rispettati i parametri del richiamo della pronuncia di appello a quella di primo grado e dell'adozione - da parte di entrambe le sentenze - dei medesimi criteri nella valutazione delle prove cfr., Sez. 3, numero 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595 Sez. 2, numero 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218 . 2. Manifestamente infondato è il primo motivo. 2.1. Il profilo dell'attendibilità della persona offesa M.L. , oggetto di censura difensiva, risulta essere stato attentamente vagliato dalla Corte territoriale, mettendo a confronto e critica il contenuto del testimoniale con gli altri elementi di prova raccolti anche alla luce delle sollecitazioni in tal senso da parte della difesa. 2.1.1. Come evidenziato dalla Procura generale, la Corte territoriale ha ripercorso la deposizione dibattimentale del M. , soggetto che non ha inteso costituirsi parte civile, che aveva raccontato del contesto in cui aveva conosciuto l'imputato, degli iniziali prestiti effettuati all'amico, delle ulteriori richieste di incontri con il pretesto di restituire le somme di denaro e, viceversa, le reiterate minacce, in un'occasione anche con un coltello, che lo avevano indotto a consegnargli in più occasioni la complessiva somma di Euro 1.890,00 fino a che, a seguito dei consigli del suo datore di lavoro che lo vedeva turbato e a cui aveva confidato i fatti, in occasione dell'ultima richiesta economica con le medesime modalità intimidatorie, si era presentato all'appuntamento con l'imputato per dargli la somma di Euro 700,00 in compagnia dei carabinieri che avevano tratto in arresto lo scialo nella fragranza reato di estorsione. Al riguardo, i giudici di merito hanno formulato un ragionato giudizio di attendibilità della vittima sottolineando la intrinseca linearità delle dichiarazioni, l'assenza di qualsiasi intento rivendicativo scrivono i giudici di appello che . nessun movente calunnioso è stato . dedotto nell'atto di appello, le cui argomentazioni appaiono inconsistenti, in quanto basate solo sulle dichiarazioni dell'imputato, che ha ammesso le dazioni, ma ha negato che fossero state effettuate a seguito di minacce . , essendo la vittima pervenuta alla presentazione della denuncia solo sulla base dei suggerimenti del datore di lavoro, la presenza di riscontri esterni individuati nelle testimonianze dello stesso datore di lavoro e della fidanzata nonché dei militari che erano intervenuti all'atto dell'arresto. Prive di qualsiasi supporto probatorio appaiono, pertanto, le doglianze sulla superficialità delle valutazioni dei giudici distrettuali ovvero sull'assenza di minacce da parte dell'imputato funzionali alla ricezione dei prestiti ovvero ancora sulla presenza di incongruenze e contraddizioni nel narrato della vittima. 2.1.2. Invero, la giurisprudenza afferma che, tema di valutazione della prova, e con specifico riguardo alla prova testimoniale, il giudice, pur essendo indubbiamente tenuto a valutare criticamente, verificandone l'attendibilità, il contenuto della testimonianza, non è però certamente tenuto ad assumere come base del proprio ragionamento l'ipotesi che il teste dica scientemente il falso o si inganni su ciò che forma l'oggetto essenziale della propria deposizione, salvo che sussistano specifici e riconoscibili elementi atti a rendere fondato un sospetto di tal genere. Ciò significa che, in assenza di siffatti elementi, il giudice deve partire, invece, dal presupposto che il teste, fino a prova contraria, riferisca correttamente quanto a sua effettiva conoscenza e deve perciò limitarsi a verificare se sussista o meno incompatibilità fra quello che il teste riporta come certamente vero, per sua diretta conoscenza, e quello che emerge da altre eventuali fonti probatorie di pari valenza. La detta incompatibilità, inoltre, deve essere ravvisata solo quando essa incida sull'elemento essenziale della deposizione, e non su elementi di contorno relativamente ai quali appaia ragionevolmente prospettabile l'ipotesi che il teste sia caduto in errore di percezione o di ricordo, senza per ciò perdere di obiettiva credibilità per ciò che attiene l'elemento centrale. 2.2. Fermo quanto precede, evidenzia conclusivamente il Collegio come non rientri nei poteri del giudice di legittimità quello di effettuare una rilettura degli elementi storico-fattuali posti a fondamento del motivato apprezzamento al riguardo svolto nell'impugnata decisione di merito, essendo il relativo sindacato circoscritto alla verifica dell'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari aspetti o segmenti del percorso motivazionale ivi tracciato verifica il cui esito non può che dirsi positivamente raggiunto nel caso in esame. Le doglianze difensive contenute nel primo motivo di ricorso non sono, infatti, idonee ad infirmare la ragionevolezza del complessivo risultato probatorio tratto dalla ricostruzione della vicenda operata nell'ultima decisione di merito, per la semplice ragione che esse tendono a nuovamente prospettare un'alternativa, e come tale non consentita nella presente sede, rivisitazione del fatto oggetto del correlativo tema d'accusa, ovvero ad invalidarne elementi di dettaglio o di contorno, lasciando inalterata la consistenza delle ragioni giustificative a sostegno della pronuncia di responsabilità. 3. Aspecifico, perché reiterativo di doglianze già proposte e sulle quali la Corte territoriale ha reso ampia ed argomentata risposta, e comunque manifestamente infondato è il secondo motivo. La Corte territoriale, dopo aver premesso che, ai fini della configurabilità del delitto di estorsione, risultano indifferenti la forma o il modo della minaccia, purché la stessa sia idonea, in relazione alle circostanze concrete, ad incutere timore e a coartare la volontà del soggetto passivo potendo la minaccia concernere qualsiasi bene e non necessariamente un'offesa alla persona, al suo onore o ai propri averi , ha evidenziato - evocando il consolidato insegnamento giurisprudenziale - come la connotazione di una condotta come minacciosa e la sua idoneità ad integrare l'elemento strutturale del delitto di estorsione debbano essere valutate in relazione a concrete circostanze oggettive, quali la personalità sopraffattrice dell'agente, le circostanze ambientali in cui lo stesso opera, l'ingiustizia della pretesa, le particolari condizioni soggettive della vittima, vista come persona di normale impressionabilità, a nulla rilevando che si verifichi una effettiva intimidazione del soggetto passivo Sez. 6, numero 3298 del 12/03/1999, Savian, Rv. 212945 . Nella fattispecie, le connotazioni della minaccia, chiaramente protesa a procurare all'imputato un ingiusto profitto di tal che l'invocato reato di violenza privata appare contrastare con la natura economica della pretesa, anche avuto riguardo all'assenza di qualsiasi causale delle dazioni ottenute dalla parte lesa nonché l'esternata volontà contraria a quella di restituire i prestiti sono state valutate in modo del tutto esauriente dai giudici di merito. 4. Del tutto generico e comunque manifestamente infondato è il terzo motivo. La motivazione del provvedimento d'appello impugnato si rivela del tutto coerente al canone dell'oltre ogni ragionevole dubbio, previsto dall'articolo 533 c.p.p., sia sostanzialmente che nel lessico utilizzato, non essendovi spazio alcuno per ritenere che la condanna si fondi su parametri di incerta interpretazione o di semplice mera verosimiglianza, unici capaci di contraddire il canone normativo di indispensabile valutazione della colpevolezza. Ciò considerato, va altresì ricordato che il dubbio ragionevole, idoneo ad introdurre un'ipotesi alternativa di ricostruzione dei fatti è solo quello che trova conforto nella logica, di tal che, in caso di prospettazioni alternative, occorre comunque individuare gli elementi di conferma dell'ipotesi ricostruttiva accolta, non potendo il dubbio fondarsi su un'ipotesi del tutto congetturale, seppure plausibile v., da ultimo, Sez. 3, numero 5602 del 21/01/2021, P., Rv. 281647-04 . Nella fattispecie, proprio la logica consente ampiamente di escludere o quantomeno di superare l'interpretazione alternativa introdotta dalla difesa. 5. Alla pronuncia consegue, per il disposto dell'articolo 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro tremila P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.