Reato di minaccia: quanto conta la potenzialità intimidatoria?

Con sentenza del maggio 2020, il Tribunale di Reggio Emilia dichiarava la colpevolezza dell'imputata, accusata del reato di minaccia ai danni di un agente addetto al pubblico servizio, scaturito da un commento offensivo a sfondo sessuale.

Contro la pronuncia del Tribunale, l'imputata si affida ad un solo motivo per Cassazione, adducendo la carenza di potenzialità intimidatoria della minaccia e pertanto l'impossibilità di realizzarla, sostenendo l'inoffensività della condotta per le circostanze di fatto. Chiede inoltre l'applicazione della discriminante della legittima difesa, in virtù della grave offesa subita. Ella sostiene che i giudici di merito avrebbero deciso di non tenere conto delle regole interpretative, secondo le quali «l'astratta capacità intimidatoria del male prefigurato non è sufficiente al fine di ritenere integrato il delitto di minaccia di cui all' articolo 612 c.p.p. essendo altresì necessario accertare la sua concreta realizzabilità, avuto riguardo al complessivo contesto oggettivo e soggettivo, in cui la frase pronunciata, dovendosi in altri termini verificare se il reo per età, caratteristiche fisiche e mezzi a disposizione abbia o meno la possibilità di tradurla in atto. Ne consegue che una frase che in astratto può rappresentare una minaccia può non essere ritenuta tale in riferimento al complessivo contesto in cui in concreto è stata pronunciata, la privi di effettiva idoneità intimidatoria» Cass. numero 40354/2013 . Il ricorso proposto dall'imputata non è inammissibile. Il Collegio ha già avuto modo di specificare che «in presenza di una causa di estinzione del reato, il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell'articolo 129, secondo comma, c.p.p., nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di “contestazione”, ossia di percezione “ictu oculi”, che a quello di “apprezzamento” e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o approfondimento». Cass numero 35490/2009 . Nel caso di specie, le frasi minacciose furono dette come conseguenza a frasi umilianti e allusive, costituendo un modo di reagire dialetticamente dell'imputata e pertanto per la Corte di Cassazione la minaccia non sussiste. Ne consegue che «sebbene non sia necessario, ai fini dell'integrazione del reato di minaccia, che uno stato di intimidazione si verifichi concretamente nel destinatario, costituendo elemento essenziale l'attitudine della condotta ad intimorire, tale attitudine non può dirsi integrata nella fattispecie in scrutinio dalle frasi pronunciate dall'imputata il cui tenore suona come una minaccia solo se ci si ferma al significato letterale delle espressioni adoperate queste, correlate alla vicenda cui ineriscono, palesano, invece, la loro reale natura, qualificandosi, piuttosto, come una mera reazione, caratterizzata da comprensibile rabbia, ad un altrui deplorevole comportamento». Viene pertanto annullata senza rinvio la sentenza impugnata in quanto il fatto non sussiste.

Presidente Miccoli – Relatore Sessa Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 14 maggio 2020 il Tribunale di Reggio Emilia ha confermato la pronuncia emessa dal Giudice di Pace della medesima città nei confronti di B.L.           , dichiarata colpevole del reato di minaccia ai danni di S.P.        e condannata alla pena di giustizia, oltre che al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile. 2. Avverso la predetta sentenza, a mezzo del difensore di fiducia, ricorre per cassazione l'imputata, articolando un unico e composito motivo, col quale deduce violazione di legge sostanziale e processuale e vizio argomentativo, assumendo la carenza di potenzialità intimidatoria e la concreta irrealizzabilità della minaccia in relazione al contesto oggettivo e soggettivo nel quale la frase di cui all'imputazione Io la gente come te l'ammazzerei. Ti ammazzo, ti ammazzerò, se avessi una pistola ti ammazzerei fu pronunciata deduce, altresì, l'inoffensività della condotta per le concrete circostanze del fatto invoca in subordine l'applicazione della scriminante della legittima difesa a fronte della grave offesa alla reputazione e all'onore conseguita alla condotta della parte civile. La frase scaturì unicamente dal commento umiliante e diffamatorio pronunciato dallo S.    la media sensibilità a cui si appellano i giudici di merito per ritenere la frase obbiettivamente idonea a creare spavento è un concetto evanescente ed elastico non previsto dalla norma, che di per sé comunque non consente di valutare la idoneità della minaccia in scrutinio ad incutere timore, considerato, peraltro, che l'imputata non aveva di certo a disposizione una pistola per sparare alla persona offesa. In ogni caso, i giudici di merito non tengono conto delle chiare regole interpretative dettate dalle Sezioni Unite di questa Corte Sez. Unite numero 40354 del 18.7.13 , secondo cui l'astratta capacità intimidatoria del male prefigurato non è sufficiente al fine di ritenere integrato il delitto di minaccia di cui all'articolo 612 c.p. essendo altresì necessario accertare la sua concreta realizzabilità, avuto riguardo al complessivo contesto oggettivo e soggettivo, in cui la frase è pronunciata, dovendosi in altri termini verificare se il reo per età, caratteristiche fisiche e mezzi a disposizione abbia o meno la possibilità di tradurla in atto. Ne consegue che una frase che in astratto può rappresentare una minaccia può non essere ritenuta tale in riferimento al complessivo contesto in cui in concreto è stata pronunciata, che la privi di effettiva idoneità intimidatoria. Indi si insta per l'annullamento della sentenza impugnata, ritenendosi in buona sostanza nel caso di specie non sussistere alcuna minaccia. 3. Il ricorso è stato trattato, ai sensi del D.L. numero 137 del 2020, articolo 23, comma 8, convertito dalla L. 18 dicembre 2020, numero 176, senza l'intervento delle parti che hanno così concluso per iscritto - il Sostituto Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso chiedendo l'annullamento senza rinvio del provvedimento impugnato perché il fatto non costituisce reato - il difensore della parte civile ha chiesto rigettarsi il ricorso. Considerato in diritto 1. Il ricorso non è inammissibile, prospettando aspetti che, come si dirà, non sono ininfluenti ai fini della decisione, con la conseguenza che essendo maturato il termine di prescrizione - il 6.7.2020 tenuto conto delle sospensioni intervenute - andrebbe dichiarata l'estinzione del reato per tale causa. Tuttavia, attesa l'evidenza dell'insussistenza del fatto di reato contestato all'imputata, s'impone l'annullamento della sentenza impugnata perché il fatto non sussiste invero, in presenza di una causa di estinzione del reato il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell'articolo 129 c.p.p., comma 2, nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di constatazione , ossia di percezione ictu oculi , che a quello di apprezzamento e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento Sez. U, Sentenza numero 35490 del 28/05/2009 Rv. 244274 . Nel caso di specie la insussistenza della minaccia emerge chiaramente alla stregua degli elementi di fatto già accertati dai giudici di merito. Costituisce, invero, jus receptum, secondo consolidata interpretazione di questa Corte, che, ai fini dell'integrazione del delitto di cui all'articolo 612 c.p. - reato di pericolo - è necessario che la minaccia - da valutarsi con criterio medio ed in relazione alle concrete circostanze del fatto - sia idonea a cagionare effetti intimidatori sul soggetto passivo, ancorché il turbamento psichico non si verifichi in concreto Sez. 5, numero 644 del 06/11/2013 - dep. 10/01/2014, P.C. in proc. B, Rv. 257951 Sez. 5, numero 21601 del 12/05/2010, Pmt in proc. Pagano, Rv. 247762 Sez. 1, numero 47739 del 06/11/2008, Giuliani, Rv. 242484 . Nel caso in esame, l'imputata ha profferito delle frasi che, al di là del contenuto specifico ad esse attribuito in maniera parzialmente differente da alcuni testi, esprimono il concetto di voler ammazzare la persona offesa Ti ammazzerei. Se avessi una pistola ti ammazzerei , ma che, calate nel contesto in cui furono pronunciate, perdono evidentemente la carica intimidatrice apparentemente derivante dal significato semantico delle parole. In altri termini, sebbene non sia necessario, ai fini dell'integrazione del reato di minaccia, che uno stato di intimidazione si verifichi concretamente nel destinatario, costituendo elemento essenziale l'attitudine della condotta ad intimorire, tale attitudine non può dirsi integrata nella fattispecie in scrutinio dalle frasi pronunciate dall'imputata il cui tenore suona come una minaccia solo se ci si ferma al significato letterale delle espressioni adoperate queste, correlate alla vicenda cui ineriscono, palesano, invece, la loro reale natura, qualificandosi, piuttosto, come una mera reazione, caratterizzata da comprensibile rabbia, ad un altrui deplorevole comportamento. Esse sono, invero, scaturite da un commento offensivo, a sfondo sessuale, profferito da S.P.       , agente di Polizia Municipale presso il Comune di Reggio Emilia, nei confronti dell'imputata, assistente sociale, i quali occupavano, all'epoca del fatto, uffici limitrofi presso la sede comunale. In particolare, la stessa persona offesa - secondo quanto ricostruito nella sentenza impugnata - ammette che, mentre si trovava alla presenza della B.       , il collega Ugoletti gli aveva detto P.   guarda la L.    che è brava perché non la sposi ? alla risposta della B.       , io e P.   siamo diametralmente opposti non andremo mai d'accordo, poi lui ha altre mire e ha altri interessi , la parte civile aveva informato il collega del fatto che la B.        era già fidanzata con un terzo collega, poi rivelatosi essere Su.Gi.        e al commento della B.       , che affermava di essere innamorata del fidanzato e che questi fosse un bravo ragazzo, S.     aveva replicato dicendo Senti Ugo, l'importante è che lo inzuppo il biscotto . A seguito di tale commento, evidentemente e prosaicamente riferito a rapporti intimi intercorsi tra i due, la B.        si era adirata e aveva rivolto, urlando, all'indirizzo di S.    , le frasi suindicate, unitamente ad altre con cui lo aveva apostrofato come “idiota” e “demente” secondo quanto riferito dalla stessa persona offesa, la B.        aveva per l'esattezza profferito le seguenti parole Io non so se sei stupido, se lo fai, secondo me lo fai sei un idiota, sei un demente, vai via o ti ammazzo , e successivamente Sei un deficiente, ti ammazzerei se avessi una pistola Fu, dunque, in conseguenza delle affermazioni della persona offesa, che non aveva esitato a umiliare la B.        davanti ad altre persone, anche con allusioni offensive della sua reputazione, che la B.        pronunciò le frasi incriminate esse costituirono quindi solo un modo per reagire, dialetticamente, rispetto a un commento sconveniente e sessista da parte dello S.    . La stessa imputata, peraltro, non ha negato di aver pronunciato frasi minacciose all'indirizzo di S.     e ha anzi affermato di avergliene dette di tutti i colori anche che non ricordo cosa , allo scopo di fargli capire che non si può umiliare una persona così . Le frasi pronunciate dalla B.        si inseriscono, dunque, in un profluvio di giudizi negativi sullo S.    , che aveva nello stesso contesto commentato il rapporto con la donna con una frase sessista, umiliandola innanzi ai colleghi. Proprio tale umiliazione ha determinato la reazione della B.       reazione improntata da mero disprezzo e che, in ragione del contesto nel quale si è verificata, appare obiettivamente inidonea a restringere la libertà psichica del minacciato. D'altro canto, lo stesso Tribunale, pur facendone conseguire le implicazioni qui poste in discussione, evidenzia come sia stata la stessa B.        a chiarire il senso delle frasi proferite specificando Volevo che capisse che non si può umiliare una persona così per di più per mero dileggio. Doveva, dunque, apparire evidente che ci si trovasse in presenza di una persona ragionevolmente scossa, umiliata per ragioni non certo commendevoli e che aveva reagito a un fatto altrui ingiusto e del tutto gratuito, con parole ad effetto che volevano piuttosto far comprendere il disappunto provato per il volgare dileggio di cui era stata vittima. 2. Ne discende pertanto l'annullamento della sentenza impugnata senza rinvio perché il fatto di minaccia non sussiste, giacché il tenore complessivo delle frasi e il contesto in cui si sono inserite depongono univocamente per la loro inidoneità a cagionare effetti intimidatori sul soggetto passivo. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il fatto non sussiste.