Al fine di comprendere la portata dell’ordinanza in commento occorre analizzare la disciplina relativa al versamento della caparra confirmatoria nel contratto preliminare di compravendita immobiliare.
Il presupposto l'inadempimento contrattuale. Al momento della firma del contratto la parte promissaria acquirente può versare una caparra alla parte promittente venditrice. In caso di buon esito del contratto, poi, la caparra viene imputata ad anticipo sul pagamento del prezzo, che deve quindi solo essere saldato in sede di rogito. Se però il contratto definitivo non viene sottoscritto, allora vi sono due possibilità se la colpa della mancata sottoscrizione è del compratore, allora la parte venditrice può trattenere la caparra. Diversamente, se l'affare non si conclude per ragioni imputabili al venditore, allora il compratore ha il diritto a richiedere il versamento del doppio della caparra. Tali disposizioni sono ricomprese nell'articolo 1385 c.c. che prevede anche una via alternativa per ottenere il ristoro del danno per la parte non inadempiente, ossia “Se però la parte che non è inadempiente preferisce domandare l'esecuzione o la risoluzione del contratto, il risarcimento del danno è regolato dalle norme generali”. Il caso. Nel caso in oggetto una parte si rivolgeva ad una società edile al fine di acquistare un immobile in costruzione. A tal fine le parti redigevano un contratto preliminare che prevedeva un termine massimo per la stipulazione del contratto definitivo e il versamento di una caparra confirmatoria pari a € 200.000,00. Il termine per la conclusione dell'affare trascorreva poi inutilmente e la promissaria acquirente agiva in giudizio chiedendo la risoluzione del contratto e la restituzione della caparra versata in misura doppia. Si costituiva in giudizio la società convenuta la quale, contestando tutti gli assunti dell'attrice, chiedeva il rigetto della domanda principale, la risoluzione del contratto e la dichiarazione del suo diritto di trattenere la caparra confirmatoria della controparte. Il giudizio di prime cure vedeva l'accoglimento della domanda della parte attrice e la condanna della società al rimborso della caparra raddoppiata. La società soccombente agiva quindi in sede di appello contestando la prima decisione. La Corte d'Appello, in riforma del giudizio di prime cure, dichiarava illegittimo il recesso della parte acquirente e conseguentemente accoglieva la domanda della società di trattenere la caparra anzitempo versata. La questione approdava in Cassazione a seguito di ricorso della promissaria acquirente. La parte, in particolare, contestava la sentenza di appello nella parte in cui non aveva dichiarato la novità della domanda della società edile. Secondo la ricorrente, infatti, la società edile aveva in primo grado domandato la risoluzione per inadempimento e il risarcimento del danno ai sensi dell'articolo 1385 comma III c.c. , mentre solo in grado di appello essa aveva fatto specifica richiesta di recesso contrattuale e trattenimento della caparra. Le questioni non erano identiche e la seconda domanda doveva essere considerata inammissibile in quanto illegittimamente proposta per la prima volta in grado d'appello. La Cassazione, con la sentenza numero 7554 del 23 marzo 2017, accoglieva il ricorso e rinviava il giudizio per una nuova valutazione in grado d'appello con l'indicazione di attenersi a seguente principio di diritto “in caso di pattuizione di caparra confirmatoria, ai sensi dell'articolo 1385 c.c., la parte adempiente, per il risarcimento dei danni derivanti dall'inadempimento della controparte, può scegliere tra due rimedi, alternativi e non cumulabili tra loro o recedere dal contratto e trattenere la caparra […] ovvero chiedere, con pronuncia costitutiva, la risoluzione giudiziale del contratto ed il risarcimento del dei conseguenti danni da provare a norma dell'articolo 1223 c.c.”. Il giudizio veniva riassunto quindi dalla competente Corte d'Appello la quale, in applicazione del principio indicato dalla Corte di Legittimità. La decisione d'Appello, tuttavia, all'esito del secondo giudizio pronunciava la seguente sentenza dichiarava inammissibile la domanda della società di recesso con diritto a trattenere la caparra e dichiarava parimenti inammissibile la domanda della acquirente volta a ottenere la restituzione della caparra, con l'effetto di lasciare la somma in mano alla società. La Cassazione specifica l'effetto della duplice domanda di risoluzione delle parti. La sentenza sopra riportata veniva nuovamente impugnata dalla promissaria acquirente in sede di Cassazione. La Suprema Corte, con l'ordinanza numero 34611 del 26 ottobre 2021 accoglieva il ricorso proposto e rinviava il giudizio alla Corte d'Appello per una nuova valutazione sul merito. Il ragionamento degli ermellini era il seguente. La sussistenza nel giudizio di due domande di recesso dal contratto preliminare di compravendita, pur non avendo la qualità di un accordo negoziale risolutivo del vincolo, mirano all'identico scopo della risoluzione del contratto e resta quindi assorbita l'eventuale successiva domanda di adempimento da parte di una delle parti. Il giudice, in tale situazione, deve quindi dichiarare comunque la risoluzione contrattuale. Nel caso in questione, non avendo la società riproposto la domanda di risoluzione per inadempimento in sede di appello sede nella quale aveva unicamente proposto la domanda di recesso ella aveva perso il diritto di dolersi in grado di appello dell'eventuale inadempimento della parte promissaria acquirente e, conseguentemente, la sentenza di appello avrebbe dovuto valutare tale circostanza e – dichiarato lo scioglimento del contratto non per inadempimento della parte acquirente – disporre la restituzione della caparra alla stessa. In caso di scioglimento del contratto, infatti, la parte promittente venditrice che non provi l'inadempimento della compratrice non ha più alcun diritto di trattenere la caparra e deve provvedere alla restituzione della stessa alla parte che l'ha versata.
Presidente Lombardo – Relatore Criscuolo Motivi in fatto ed in diritto della decisione Con atto del OMISSIS S.E., promissaria acquirente di un immobile da realizzare, convenne davanti al Tribunale di Pescara la promittente venditrice, Progetto Abitare sas, chiedendo che fosse dichiarata la legittimità del proprio recesso dal preliminare di vendita del OMISSIS e il trattenimento del doppio della caparra confirmatoria in precedenza versata, essendosi la società convenuta sottratta all'obbligo di ultimare i lavori e di concludere il contratto definitivo nel termine essenziale del OMISSIS fissato dalle parti. La convenuta contestò la pretesa e in via riconvenzionale propose domanda di risoluzione del contratto e risarcimento danni per inadempimento della promissaria acquirente, chiedendo altresì di essere autorizzata alla ritenzione della caparra. Il Tribunale accolse la domanda dell'attrice, ma la Corte d'Appello di L'Aquila, adita dalla soccombente società, con sentenza depositata il 21.11.2011 ribaltò l'esito del giudizio, accertando, in parziale riforma della sentenza di primo grado, l'illegittimità del recesso operato dalla promissaria acquirente e, per l'effetto, autorizzò la società appellante a trattenere i 200,000 Euro di caparra. La Corte di merito ha rilevato - che il termine per l'adempimento del contratto non poteva essere ritenuto essenziale, nonostante le parti avessero contrattualmente stabilito che tutti i termini previsti dal contratto fossero da considerare perentori - che in ogni caso il ritardo non superava il ragionevole limite di tolleranza, mentre il comportamento della promissaria acquirente era in ogni caso sintomatico di una rinunzia implicita, avendo essa richiesto, fino a pochi giorni prima della proposizione della domanda, una serie di modifiche e migliorie alle unità immobiliari promesse in vendita - che appariva illegittimo il recesso della S. senza neppure la previa comunicazione del nome del notaio incaricato della stipula secondo la previsione del contratto preliminare, articolo 7 - che pertanto si giustificava il rigetto della domanda dell'attrice, mentre andava affermato il diritto della società di incamerare definitivamente la caparra. Contro tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la S. sulla base di tre motivi a cui ha resistito con controricorso la società Progetto Abitare. La Corte di Cassazione con la sentenza numero 7554 del 23 marzo 2017 ha accolto il primo motivo di ricorso, e rigettati i restanti ha cassato con rinvio alla Corte d'Appello di L'Aquila in diversa composizione. In relazione al primo motivo, che deduceva la violazione degli articolo 1385 e 1453 c.c., nonché degli articolo 183,345 e 112 c.p.c., rimproverando alla Corte d'Appello di avere omesso di pronunciarsi sull'eccezione, ritualmente riproposta in appello, di inammissibilità della domanda nuova di recesso e ritenzione della caparra avanzata dalla società in corso di causa, posto che in via riconvenzionale era stata domandata invece la risoluzione per inadempimento ed il risarcimento dei danni, questa Corte rilevava che con la comparsa di costituzione nel giudizio di primo grado la società convenuta aveva proposto una domanda riconvenzionale di risoluzione e risarcimento danni. Risultava altresì che a tale richiesta risolutoria ne era stata affiancata un'altra, tendente al trattenimento della caparra ai sensi dell'articolo 1385 c.c Nel giudizio di appello, la società aveva invece avanzato una domanda di recesso con trattenimento di caparra e la S. ne aveva eccepito la novità. Secondo la giurisprudenza di legittimità in caso di pattuizione di caparra confirmatoria, ai sensi dell'articolo 1385 c.c., la parte adempiente, per il risarcimento dei danni derivati dall'inadempimento della controparte, può scegliere tra due rimedi, alternativi e non cumulabili tra loro o recedere dal contratto e trattenere la caparra ricevuta o esigere il doppio di essa , avvalendosi della funzione tipica dell'istituto, che è quella di liquidare i danni preventivamente e convenzionalmente, così determinando l'estinzione ope legis di tutti gli effetti giuridici del contratto e dell'inadempimento ad esso ovvero chiedere, con pronuncia costitutiva, la risoluzione giudiziale del contratto, ai sensi degli articolo 1453 e 1455 c.c., ed il risarcimento dei conseguenti danni, da provare a norma dell'articolo 1223 c.c. così Cass. numero 18850 del 2004 . Tuttavia, doveva accedersi alla soluzione dell'inammissibilità in appello di una domanda di recesso, qualora in primo grado si fosse agito per la risoluzione e i danni, avendo le sezioni unite risolto il contrasto di giurisprudenza sorti sul punto Cass. S.U. numero 553 del 2009 . Nel caso in esame, la Corte d'Appello di L'Aquila avrebbe dovuto innanzitutto interpretare il contenuto della domanda riconvenzionale verificando esattamente il tipo di azione che la società convenuta aveva inteso proporre alla luce del citato principio della alternatività e non cumulabilità tra i due rimedi e, qualora avesse ritenuto proposta in primo grado una domanda di risoluzione e danni, avrebbe allora dovuto porsi il problema della ammissibilità della domanda di recesso in appello, dando in ogni caso, adeguata risposta. Erano infine rigettati il secondo motivo con il quale si lamentava la violazione delle norme sull'interpretazione dei contratti articolo 1362 e ss. , per avere la decisione impugnata escluso la natura essenziale del termine del OMISSIS fissato dalle parti per la stipula del definitivo e per avere erroneamente ravvisato, nel suo comportamento, una rinunzia al termine, nonché il terzo motivo che deduceva l'omessa motivazione su fatti controversi e decisivi per il giudizio. Riassunto il giudizio, la Corte d'Appello di L'Aquila, con la sentenza numero 1711 del 19/9/2018, ha dichiarato inammissibile la domanda riconvenzionale di recesso con diritto a trattenere la caparra proposta dalla società in appello nonché tutte le altre domande avanzate in sede di rinvio, dichiarando altresì inammissibile la domanda della S. volta ad ottenere la restituzione della caparra. Nell'esaminare l'eccezione di novità della domanda di recesso avanzata in appello dalla convenuta, la Corte distrettuale riteneva che fosse fondata. In primo grado era stata infatti avanzata solo una domanda di risoluzione per inadempimento della controparte, ancorché indebitamente cumulata con quella di trattenimento della caparra dovendo quindi ritenersi che solo in appello la domanda fosse stata mutata in quella di recesso ex articolo 1385 c.c Inoltre, la richiesta di risarcimento del danno era stata correlata all'inadempimento del diverso contratto di appalto, domanda quest'ultima già dichiarata inammissibile dalla Corte d'Appello con la prima sentenza unitamente alla domanda di risarcimento del danno da abusiva occupazione del bene , con efficacia ormai di giudicato. La diversa domanda di recesso con diritto a trattenere la caparra doveva quindi essere dichiarata inammissibile. Per l'effetto non poteva nemmeno trovare accoglimento la domanda dell'attrice volta ad ottenere la restituzione della caparra, atteso che il principio affermato da Cass. numero 11012 del 2018 non era applicabile al caso in esame, nel quale la S. non aveva avanzato domanda di risoluzione del contratto, ma aveva visto anche rigettata la domanda di accertamento della legittimità del recesso. Quanto alle spese, la sentenza le compensava integralmente in ragione della reciproca soccombenza, disponendo la condanna della società alla restituzione delle somme versate a titolo di rimborso delle spese, come liquidate nella precedente sentenza della stessa Corte d'Appello, con gli interessi legali a far data dai singoli esborsi al saldo. Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso S.E. sulla base di due motivi, illustrati da memorie. La società intimata resiste con controricorso. Il primo motivo di ricorso denunzia la violazione e falsa applicazione dell'articolo 1385 c.c., comma 2, nonché la nullità della sentenza per insanabile contraddizione della motivazione. Si denuncia l'erroneo rigetto della richiesta di restituzione della somma a suo tempo versata a titolo di caparra. Tuttavia, una volta rigettata la domanda della ricorrente di conseguire il doppio della caparra e ritenuta inammissibile la domanda ex articolo 1385 c.c., della società in quanto avanzata per la prima volta in appello, non sussisteva più alcun titolo per la convenuta per trattenere la somma a suo tempo ricevuta quale caparra. Il motivo è fondato. Rileva il Collegio che effettivamente sia parte ricorrente che la controparte nel corso del giudizio di merito avevano inteso recedere dal contrato ex articolo 1385 c.c., essendosi però ritenuto infondata la richiesta della S. ed inammissibile quella della società atteso che aveva avanzato in primo grado domanda di risoluzione, che non è poi stata coltivata nel prosieguo del giudizio a seguito di rinvio . Questa Corte ha in numerose occasioni affermato che Cass. numero 6675 del 2018 non sussiste violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato allorché il giudice, qualificando giuridicamente in modo diverso rispetto alla prospettazione della parte i fatti da questa posti a fondamento della domanda, le attribuisca un bene della vita omogeneo, ma ridimensionato, rispetto a quello richiesto, sicché, proposte reciproche domande di risoluzione per inadempimento contrattuale, non pronunzia ultra petita il giudice che dichiari risolto il contratto per impossibilità sopravvenuta di esecuzione derivante dalle scelte risolutorie di entrambe le parti ex articolo 1453 c.c., comma 2, ancorché le due contrapposte manifestazioni di volontà non configurino un mutuo consenso negoziale risolutorio. In particolare, si è affermato Cass. numero 2435 del 1988 che qualora un contraente comunichi la dichiarazione di recesso con contestuale richiesta di restituzione della somma versata a titolo di anticipo o caparra e di rimborso delle spese sostenute ed il contraente asserito inadempiente comunichi anch'esso la volontà di recedere - pur attribuendo l'inadempimento all'altra parte - e la disponibilità alla restituzione delle somme richieste, si verifica la risoluzione del contratto atteso che le due dichiarazioni di recesso - pur non determinando un accordo negoziale risolutorio, come nell'ipotesi del mutuo consenso, in quanto muovono da premesse contrastanti - sono tuttavia dirette all'identico scopo dello scioglimento del contratto e della restituzione delle somme versate, con la conseguenza che resta preclusa la domanda di adempimento successivamente proposta da uno dei contraenti conf. Cass. numero 16317 del 2011, nonché Cass. numero 26907 del 2014, secondo cui quando i contraenti richiedano reciprocamente la risoluzione del contratto, ciascuno attribuendo all'altro la condotta inadempiente, il giudice deve comunque dichiarare la risoluzione del contratto, atteso che le due contrapposte manifestazioni di volontà, pur estranee ad un mutuo consenso negoziale risolutorio, in considerazione delle premesse contrastanti, sono tuttavia dirette all'identico scopo dello scioglimento del rapporto negoziale . Non avendo la società convenuta riproposto la originaria domanda di risoluzione per inadempimento, né dolendosi in questa sede del fatto che la Corte d'Appello non si sia pronunciata sulla stessa, attesa la reciproca manifestazione di volontà di recedere dal contratto ex articolo 1385 c.c. sebbene quella della società fosse stata tardivamente avanzata in appello , la sentenza gravata avrebbe dovuto prendere atto dell'avvenuta risoluzione del contratto ed avrebbe quindi dovuto disporre la restituzione della caparra. In tal senso rileva quanto affermato da questa Corte in Cass. numero 23490 del 2009, laddove si è ritenuto che non sussista violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato allorché il giudice, qualificando giuridicamente in modo diverso rispetto alla prospettazione della parte i fatti da questa posti a fondamento della domanda, le attribuisca un bene della vita omogeneo, ma ridimensionato, rispetto a quello richiesto. Ne consegue che, proposta in primo grado una domanda di risoluzione per inadempimento di contratto preliminare, e di conseguente condanna del promittente venditore alla restituzione del doppio della caparra ricevuta, non pronunzia ultra patita il giudice il quale ritenga che il contratto si sia risolto non già per inadempimento del convenuto, ma per impossibilità sopravvenuta di esecuzione derivante dalle scelte risolutorie di entrambe le parti ex articolo 1453 c.c., comma 2 e condanni il promittente venditore alla restituzione della sola caparra la cui ritenzione è divenuta sine titulo e non del doppio di essa. Trattasi di principio che ha poi ricevuto conferma nella successiva giurisprudenza di questa Corte. Infatti, non ignora il Collegio che secondo la pacifica opinione della giurisprudenza cfr. ex multis Cass. numero 10953 del 2012 , in tema di caparra confirmatoria, qualora la parte non inadempiente, invece di recedere dal contratto, preferisca domandarne la risoluzione, ai sensi dell'articolo 1385 c.c., comma 3, la restituzione di quanto versato a titolo di caparra è dovuta dalla parte inadempiente quale effetto della risoluzione stessa, in conseguenza della caducazione della sua causa giustificativa, trattandosi di statuizione così Cass. numero 8881 del 2000 ricollegabile agli effetti restitutori propri della risoluzione negoziale come conseguenza del venir meno della causa della corresponsione conf. Cass. numero 8630 del 1998 Cass. numero 11356 del 2006 . Tuttavia non appare possibile sostenere che, laddove la richiesta di pagamento del doppio della caparra sia stata comunque avanzata dalla parte, sebbene erroneamente cumulata con la domanda di risarcimento del danno e con la pronuncia della risoluzione del contratto, la condanna presupponga la specifica proposizione di una domanda di indebito che sia supportata dal richiamo alle obbligazioni restitutorie scaturenti dall'intervenuta declaratoria di inefficacia del contratto, occorrendo valorizzare la verifica in punto di omogeneità della richiesta della parte rispetto a quanto in concreto accordato. In tal senso oltre quanto puntualizzato da Cass. numero 23490 del 2009, va considerato che la restituzione della caparra, costituisce un effetto inevitabile della risoluzione, comunque motivata, del contratto, essendo venute meno le finalità alle quali assolveva v., tra le altre, Cass. numero 8310 del 2003, Cass. numero 13828 del 2000, Cass. numero 8630 del 1998, Cass. numero 10217 del 1994 , sicché la sua pronuncia costituisce un minus rispetto alla domanda di restituzione del doppio, significando in ogni caso che non sussisteva più alcun titolo per la controparte per trattenere la caparra già versata. In termini analoghi si è poi di recente pronunciata Cass. numero 19502 del 2015 che ha, infatti, affermato che non sussiste violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato allorché il giudice, qualificando giuridicamente in modo diverso rispetto alla prospettazione della parte i fatti da questa posti a fondamento della domanda, le attribuisca un bene della vita omogeneo, ma ridimensionato, rispetto a quello richiesto, sicché, proposta azione di risoluzione per inadempimento di contratto preliminare e di conseguente condanna del promittente venditore alla restituzione del doppio della caparra ricevuta, non pronunzia ultra petita il giudice che accerti la nullità del contratto e condanni il promittente venditore alla restituzione della caparra stessa, producendo, del resto, la risoluzione e la nullità effetti diversi quanto alle obbligazioni risarcitorie, ma identici quanto agli obblighi restitutori delle prestazioni in termini analoghi Cass. numero 11012/2018, citata nella sentenza impugnata . Facendo applicazione di tali principi al caso di specie appare quindi possibile affermare che, una volta manifestate le reciproche richieste di risoluzione del rapporto, sebbene con le modalità di cui all'articolo 1385 c.c., ancorché non sia meritevole di accoglimento la pretesa di ottenere il doppio della caparra, tuttavia deve essere disposta la restituzione della caparra versata, trattandosi del riconoscimento di un bene della vita omogeneo rispetto a quanto ab initio richiesto, essendo peraltro pacifico che non sussista più alcun diritto della controparte a trattenerla. Il secondo motivo denuncia la violazione dell'articolo 1284 c.c., nonché degli articolo 112 e 115 c.p.c., quanto al riconoscimento degli interessi sulle somme versate dalla ricorrente a titolo di spese legali, in esecuzione della sentenza d'appello cassata. La sentenza oggi impugnata ha sì disposto la ripetizione di tali somme, ma ha attribuito sulle stesse i soli interessi legali e non anche quelli di cui all'articolo 1284 c.c., comma 4 e cioè in misura pari a quella prevista dalla legislazione speciale in materia di ritardo di pagamento nelle transazioni commerciali . Il motivo è infondato, attesa l'inapplicabilità ratione temporis della norma invocata che è stata introdotta dal D.L. numero 132 del 2014, articolo 17, comma 1, conv. nella L. numero 162 del 2014, ma è applicabile solo ai procedimenti iniziati a decorrere dal trentesimo giorno dall'entrata in vigore della legge di conversione, il che ne esclude l'applicazione nel caso in esame, risalendo la pendenza del giudizio al OMISSIS . Ne' può sostenersi, come dedotto in ricorso che occorrerebbe guardare a tal fine alla data della richiesta di cui al giudizio di rinvio, atteso che la domanda, sebbene reiterata in sede di rinvio, è da ricollegare agli atti introduttivi del giudizio in primo grado, non potendosi postdatare ai fini dell'applicazione della orma in esame, la domanda al diverso momento della instaurazione del giudizio di rinvio che costituisce un giudizio chiuso, nel quale è preclusa la proponibilità di domande nuove, se non nei limiti, che qui non ricorrono, dell'articolo 392 c.p.c., u.c Ne' appare pertinente, sempre in relazione al secondo motivo di ricorso il riferimento alla incertezza circa l'imposto delle somme di cui sarebbe stata disposta la restituzione, avendo la Corte d'Appello fatto riferimento alle spese come liquidate nel precedente grado, e come corrispondentemente pagate dalla ricorrente, senza che rilevi l'assenza di un esplicito riferimento alla spese di registrazione, atteso che secondo questa Corte le spese di registrazione della sentenza, in quanto conseguenti alla pronuncia, devono ritenersi rientranti tra le spese di lite, senza che nel provvedimento di condanna della parte soccombente sia necessaria un'espressa statuizione al riguardo così Cass. numero 25680 del 2018 Cass. numero 17698 del 2010 . Deve quindi reputarsi che l'obbligazione restitutoria in esame investa anche le eventuali somme spese per la registrazione della sentenza, sempre che ne risulti documentato l'effettivo esborso. Non risultano in ogni caso i presupposti per la l'accoglimento della richiesta di condanna ex articolo 96 c.p.c., anche alla luce del rigetto del secondo motivo di ricorso La sentenza impugnata deve quindi essere cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d'Appello di L'Aquila in diversa composizione P.Q.M. La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e, rigettato il secondo, cassa la sentenza impugnata, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d'Appello di L'Aquila in diversa composizione.