Alla donna, dipendente di un ospedale, dovranno essere versati quasi 73mila euro. Evidenti le colpe dell’azienda ospedaliera per il pessimo trattamento ricevuto dalla lavoratrice al rientro dopo la maternità. Irrilevante che la donna sia in cura da anni presso il Dipartimento di salute mentale.
Condannata l'azienda – un ospedale, per la precisione – che non ha salvaguardato la salute psichica della dipendente ritornata al lavoro dopo una gravidanza, e seguita da diversi anni dal Dipartimento di salute mentale, ma anzi l'ha sottoposta a mobbing e dequalificazione professionale, facendola cadere in depressione Cass. civ., sez. lav., ord., 4 novembre 2021, numero 31742 . Fondamentali, secondo i Giudici di merito, i dettagli della pessima accoglienza che ha subito la dipendente dell'ospedale, una volta concluso il periodo a casa in maternità. In particolare, ella «è stata denigrata dal personale medico del reparto, è stata sottoposta a forme eccessive di controllo, ed, infine, è stata assegnata allo svolgimento di mansioni che implicavano l'utilizzazione di macchinari nuovi senza prima ricevere un'adeguata formazione». Per i Giudici di merito è evidente che l'azienda ospedaliera «non ha salvaguardato la salute psichica » della lavoratrice, che, peraltro, «da anni era in cura presso il Dipartimento di salute mentale», e le ha causato una seria depressione. Sacrosanto, quindi, il diritto della donna ad ottenere un adeguato ristoro economico , quantificato in 42mila e 447 euro, per il danno subito a causa della condotta dell'azienda ospedaliera, condotta catalogabile come «mobbing e dequalificazione professionale». Irrilevante, secondo i Giudici, il fatto che «la dipendente avesse una personalità con meccanismi di risposta non del tutto efficaci». In secondo grado, poi, alla donna viene riconosciuto un ulteriore risarcimento 30mila e 426 euro che l'azienda ospedaliera dovrà versarle per il danno biologico da lei subito e concretizzatosi in una invalidità temporanea. Col ricorso in Cassazione però i legali che rappresentano l'ospedale pongono in rilievo il «disagio psichico» vissuto dalla donna già prima del rientro al lavoro e riferito a «vicende esclusivamente personali». Secondo la linea difensiva, quindi, non può essere ignorato il « quadro patologico » della lavoratrice, quadro che può mettere in discussione non solo la cifra del risarcimento ma addirittura l'esistenza del mobbing e della dequalificazione professionale. I Giudici di terzo grado ribattono però che in appello si è tenuto conto della «situazione psicologica di fragilità» della lavoratrice e si è chiarito che su di essa «si è innestata la condotta illecita» dell'azienda ospedaliera, condotta che ha prodotto inevitabilmente un grosso danno. Per maggiore chiarezza, poi, i magistrati precisano che il precedente «stato di salute della donna» avrebbe potuto «assumere rilevanza ai fini della quantificazione del risarcimento» solo qualora, in epoca antecedente al fatto illecito attribuito all'ospedale, «ella fosse stata già affetta da patologia con effetti invalidanti». Questa prospettiva non può essere applicata, invece, quando, come nella vicenda in esame, ci si trova di fronte a «un mero stato di vulnerabilità », ossia «una predisposizione non invalidante in sé». Corretta, quindi, la linea seguita in appello, laddove, pur parlando di «pregresse patologie psichiche» della lavoratrice, si è preso atto che «la patologia depressiva della lavoratrice è direttamente dipendente dalla matrice stressante dell'organizzazione che ha pressato una personalità i cui meccanismi di risposta non sono del tutto efficaci». In sostanza, è acclarato che «la patologia invalidante», ossia la depressione, che ha colpito la donna «è insorta solo a seguito della condotta tenuta dal datore di lavoro».
Presidente Torrice – Relatore Di Paolantonio Rilevato in fatto che 1. la Corte d'Appello di Milano, pronunciando sugli appelli riuniti proposti da S.M. e dall'Azienda Ospedaliera della Provincia di Lodi, ha riformato solo limitatamente alla quantificazione del danno biologico da invalidità temporanea la sentenza del Tribunale di Lodi che aveva accolto il ricorso proposto dalla S. e, ritenuta provata la condotta inadempiente dell'amministrazione integrante mobbing e dequalificazione professionale, aveva condannato l'azienda al pagamento della complessiva somma di Euro 42.447,03 2. il giudice d'appello ha condiviso le conclusioni alle quali il Tribunale era pervenuto quanto alla responsabilità dell'azienda, che non aveva salvaguardato la salute psichica della dipendente la quale, rientrata in servizio dopo l'assenza per maternità, era stata denigrata dal personale medico del reparto, sottoposta a forme eccessive di controllo, assegnata allo svolgimento di mansioni che implicavano l'utilizzazione di macchinari nuovi senza prima ricevere un'adeguata formazione 3. in relazione al nesso causale la Corte milanese ha osservato che lo stesso non poteva essere escluso per il solo fatto che la dipendente avesse una personalità con meccanismi di risposta non del tutto efficaci , atteso che il problema del concorso delle cause va affrontato facendo applicazione del principio di equivalenza di cui all' articolo 41 c.p. , applicabile anche nei giudizi di responsabilità civile 4. infine la Corte territoriale ha ritenuto fondato l'appello proposto dalla S. perché il Tribunale non aveva tenuto conto dell'invalidità temporanea non inferiore al 25% insorta a far tempo dal 2005 e, quindi, ha condannato a detto titolo l'azienda al pagamento dell'ulteriore somma di Euro 30.426,00 5. per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l'Azienda Ospedaliera della Provincia di Lodi, sulla base di due motivi, illustrati da memoria, ai quali ha opposto difese S.M. con tempestivo controricorso. Considerato in diritto che 1. con il primo motivo l'Azienda ricorrente denuncia, ex articolo 360 c.p.c. , numero 5, l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti e addebita, in sintesi, alla Corte territoriale di non avere tenuto conto della cartella clinica acquisita presso il CPS, della quale, peraltro, lo stesso giudice d'appello aveva disposto l'acquisizione e dalla quale emergeva che già dall'anno 2000 la S. aveva manifestato un disagio psichico riferito a vicende esclusivamente personali 2. con la seconda censura, formulata ai sensi dell' articolo 360 c.p.c. , numero 3, la ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione dell' articolo 1223 c.c. in tema di accertamento del nesso causale e, richiamate le considerazioni espresse dal consulente tecnico d'ufficio in merito alla patologia dalla quale la S. era già in precedenza affetta, addebita al giudice d'appello di avere quantificato il danno risarcibile omettendo considerare l'incidenza del quadro patologico preesistente del quale, invece, occorreva tener conto ai fini dell'accertamento del nesso causale e del quantum del risarcimento 3. il primo motivo è inammissibile perché denuncia ex articolo 360 c.p.c. , numero 5, l'omesso esame non di un fatto storico, decisivo ed oggetto di discussione fra le parti, bensì di una risultanza probatoria, ossia la documentazione medica acquisita, finalizzata alla dimostrazione del pregresso stato invalidante della S. 3.1. la circostanza di fatto rappresentata dalla documentazione asseritamente non esaminata è stata valutata dal giudice d'appello e ciò risulta con chiarezza da più passaggi argomentativi della sentenza impugnata, che, nell'aderire alle conclusioni espresse dal consulente tecnico d'ufficio e nel richiamare il principio dell'equivalenza delle cause, dà atto della situazione psicologica di fragilità, sulla quale si è innestata la condotta illecita produttiva del danno, e precisa anche, a pagina 4 della motivazione, che la S. come risulta dalla documentazione acquisita era in cura sin dal 2000 presso il CPS di Lodi 3.2. il motivo, quindi, oltre ad essere inammissibile per le ragioni indicate da Cass. S.U. numero 8053/2014 , ribadite da Cass. S.U. numero 9558/2018 , Cass. S.U. numero 33679/2018 e da Cass. S.U. numero 34476/2019 , svolge considerazioni prive della necessaria specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata, perché ritiene omesso l'esame di un documento, richiamato, invece, dal giudice d'appello 4. il secondo motivo è infondato da tempo questa Corte ha affermato che in base ai principi di cui agli articolo 40 e 41 c.p. , qualora la condotta abbia concorso insieme a circostanze naturali alla produzione dell'evento del quale costituisce un antecedente causale necessario, l'autore del fatto illecito è da ritenere responsabile, in base ai criteri della causalità naturale, di tutti i danni che ne sono derivati lo stato di salute anteriore della vittima può assumere rilevanza ai fini della quantificazione del risarcimento, nel rispetto del principio della causalità giuridica, solo qualora in epoca antecedente al fatto illecito il danneggiato fosse già affetto da patologia con effetti invalidanti, sui quali si è innestata la condotta antigiuridica, determinando un aggravamento che, in assenza del fattore sopravvenuto, non si sarebbe prodotto in quest'ultima ipotesi il giudice è tenuto a stimare il danno biologico tenendo conto della patologia pregressa, perché la lesione manifestatasi all'esito dell'azione illecita non è nella sua interezza una conseguenza immediata e diretta di quest'ultima, ma lo è soltanto per la parte che, secondo il giudizio controfattuale, non si sarebbe verificata in assenza della condotta antigiuridica tenuta dal danneggiante Cass. numero 13400/2007 Cass. numero 27524/2017 Cass. numero 28986/2019 Cass. numero 17555/2020 alla preesistenza di una patologia non può, invece, essere assimilato un mero stato di vulnerabilità , ossia una predisposizione non invalidante in sé, che non esclude nè la causalità materiale, per il principio dell'equivalenza delle cause, nè quella giuridica, perché il danno risulta comunque conseguenza diretta ed immediata dell'azione illecita Cass. 20836/2018 Cass. numero 15991/2011 4.1. la Corte territoriale, pur avendo impropriamente utilizzato a pag. 5 della motivazione l'espressione pregresse patologie psichiche , non si è discostata dai richiamati principi di diritto perché, facendo proprie le conclusioni alle quali il consulente tecnico d'ufficio era pervenuto, ha accertato che la patologia depressiva di cui la sig.ra S. soffre è direttamente dipendente dalla matrice stressante dell'organizzazione che ha pressato una personalità i cui meccanismi di risposta non sono del tutto efficaci 4.2. la Corte, quindi, con accertamento di fatto non censurabile in questa sede, ha riscontrato che nella specie la patologia invalidante, seppure favorita da un fattore predisponente, era insorta solo a seguito della condotta tenuta dal datore di lavoro che aveva agito come concausa dell'evento dannoso con le conseguenze di cui si è detto quanto alla causalità materiale ed a quella giuridica e non come mero fattore di aggravamento di una patologia preesistente 5. il ricorso va, pertanto, rigettato, con conseguente condanna dell'Azienda ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo 6. ai sensi del D.P.R. numero 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, numero 228 , si deve dare atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. numero 4315/2020 , della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dalla ricorrente. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. numero 115 del 2002, articolo 13 , comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. articolo 13, comma 1-bis, se dovuto.