Accertamento della natura condominiale di un bene e onere della prova

«In tema di condominio negli edifici, per tutelare la proprietà di un bene appartenente a quelli indicati dall'articolo 1117 c.c. non è necessario che il condominio dimostri con il rigore richiesto per la rivendicazione la comproprietà del medesimo, essendo sufficiente, per presumerne la natura condominiale, che esso abbia l'attitudine funzionale al servizio o al godimento collettivo e cioè sia collegato, strumentalmente, materialmente o funzionalmente con le unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini, in rapporto con queste da accessorio a principale, mentre spetta al condomino che ne affermi la proprietà esclusiva darne la prova».

Il caso. Un Condominio conveniva in giudizio una s.r.l., titolare di un esercizio commerciale, al fine di ottenere la rimozione di una tettoia infissa senza autorizzazione sulla facciata comune dell'edificio condominiale, e di accertare la proprietà condominiale di una chiostrina, che la società aveva occupato senza titolo con proprio materiale. La Corte d'Appello di Messina confermava la sentenza di condanna della società alla rimozione della tettoia e che dichiarava la proprietà condominiale della chiostrina. La società ricorre in Cassazione, lamentandosi, tra i vari motivi, del fatto che la Corte d'Appello avrebbe erroneamente ritenuto non idoneo, ai fini della prova della proprietà della chiostrina, il titolo di acquisto dell'esercizio commerciale il regolamento condominiale, inoltre, non includeva la chiostrina in questione tra i beni di proprietà comune, il che costituiva ulteriore indizio della proprietà esclusiva dello spazio in questione in capo alla società ricorrente. La decisione della Corte. Il ricorso è infondato. La Corte territoriale, infatti, ha correttamente applicato la presunzione di condominialità di cui all'articolo 1117 c.c., sulla base dell'assunto che la chiostrina sia assimilabile al cortile. Tale presunzione può essere vinta soltanto mediante la prova certa che il bene non sia mai stato di proprietà comune, da fornire a cura del soggetto interessato mediante la produzione di un titolo anteriore all'insorgenza del condominio. Sul punto, la Suprema Corte ha già avuto modo di affermare che «in tema di condominio negli edifici, per tutelare la proprietà di un bene appartenente a quelli indicati dall'articolo 1117 c.c. non è necessario che il condominio dimostri con il rigore richiesto per la rivendicazione la comproprietà del medesimo, essendo sufficiente, per presumerne la natura condominiale, che esso abbia l'attitudine funzionale al servizio o al godimento collettivo e cioè sia collegato, strumentalmente, materialmente o funzionalmente con le unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini, in rapporto con queste da accessorio a principale, mentre spetta al condomino che ne affermi la proprietà esclusiva darne la prova» Cass. civ., numero 20593/2018 . Nell'ambito di tale rapporto, pertanto, non assume alcun rilievo la circostanza che un determinato spazio, comunque condominiale in funzione della sua natura e destinazione di fatto, non sia stato  indicato nel regolamento dell'ente di gestione, in quanto la presunzione legale di condominialità stabilita per i beni elencati nell'articolo 1117 c.c. deriva sia dall'attitudine oggettiva del bene al godimento comune sia dalla concreta destinazione di esso al servizio comune, con la conseguenza che, per vincere tale presunzione, «il soggetto che ne rivendichi la proprietà esclusiva ha l'onere di fornire la prova di tale diritto» a tal fine, «è necessario un titolo d'acquisto dal quale si desumano elementi tali da escludere in maniera inequivocabile la comunione del bene, mentre non sono determinanti le risultanze del regolamento di condominio, né l'inclusione del bene nelle tabelle millesimali come proprietà esclusiva di un singolo condomino» Cass. civ., numero 5633/2002 . Ne consegue il rigetto del ricorso con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Presidente Di Virgilio – Relatore Oliva Fatti di causa Con atto di citazione notificato il 16.7.2002 il Condominio omissis evocava in giudizio la società Bar Arcobaleno di C.G. e C. S.numero c. per sentirla condannare alla rimozione di una tettoia infissa senza autorizzazione sulla facciata comune dell'edificio condominiale, a distanza inferiore a quella legale dal soprastante balcone, e per sentir accertare la proprietà condominiale di una chiostrina, che la convenuta aveva occupato senza titolo con proprio materiale. Si costituiva la società convenuta resistendo alla domanda ed invocando, in via riconvenzionale 1 quanto alla tettoia, l'intervenuta usucapione del diritto di mantenerla, poiché essa era stata realizzata oltre vent'anni prima della notificazione della citazione 2 quanto alla chiostrina, l'accertamento che essa fosse di proprietà esclusiva di essa convenuta, perché inclusa nel suo titolo di acquisto, ovvero in subordine l'intervenuta usucapione del diritto di proprietà esclusiva del bene di cui si discute. Con sentenza numero 1148/2011 il Tribunale di Messina accoglieva la domanda principale, condannando la società convenuta a rimuovere la tettoia e dichiarando la proprietà condominiale della chiostrina. Interponeva appello Bar Arcobaleno di C.G. e C. S.numero c. e la Corte di Appello di Messina, con la sentenza oggi impugnata, numero 431/2016, emessa nella resistenza del Condominio, rigettava il gravame. Propone ricorso per la cassazione di detta sentenza Bar Arcobaleno di C.G. e C. S.numero c., affidandosi a tre motivi. Resiste con controricorso il Condominio omissis . La parte ricorrente e la parte controricorrente hanno depositato memoria in prossimità dell'adunanza camerale. Ragioni della decisione Con il primo motivo, il ricorrente lamenta l'omesso esame di fatto decisivo, perché la Corte di Appello, come già prima di essa in Tribunale, avrebbe erroneamente ritenuto corretti i calcoli eseguiti dal C.T.U., il quale aveva individuato una estensione della tettoia non conforme alle sue reali dimensioni. La censura è inammissibile, per diversi e concorrenti motivi. Innanzitutto, il ricorrente assume che i calcoli eseguiti dall'ausiliario siano errati perché eseguiti sull'attuale consistenza della tettoia, che invece avrebbe avuto, in origine, una diversa fattura. L'osservazione, oltre ad attingere direttamente l'apprezzamento del fatto, il cui riesame non è consentito in Cassazione, poiché il motivo di ricorso non può mai risolversi in un'inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito tesa all'ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione. Cass. Sez. U, Sentenza numero 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790 , è anche irrilevante, poiché la valutazione sulla violazione delle distanze - che costituiva oggetto della controversia - va necessariamente condotta considerando la situazione esistente al momento della pronuncia cfr. Cass. Sez. 2, Ordinanza numero 3043 del 10/02/2020, Rv. 657095, secondo la qualè la valutazione circa la configurabilità di una veduta, soggetta alle regole sulle distanze di cui agli articolo 905 e 907 c.c., è necessario considerare l'attuale consistenza e destinazione dell'opera, oggettivamente considerata, e le sue possibili e prevedibili utilizzazioni da parte del proprietario . In secondo luogo, il ricorrente sostiene che le reali dimensioni della tettoia sarebbero ricostruibili attraverso alcune fotografie e le deposizioni rese dai testimoni ascoltati nel corso del giudizio di merito, ed in tal modo propone, in sostanza, una rilettura del compendio istruttorio acquisito a quel giudizio, senza considerare il principio secondo cui L'esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull'attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata Cass. Sez. 3, Sentenza numero 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595 conf. Cass. Sez. 1, Sentenza numero 11511 del 23/05/2014, Rv. 631448 Cass. Sez. L, Sentenza numero 13485 del 13/06/2014, Rv. 631330 . Inoltre, il ricorrente non considera che l'omesso esame denunziabile in sede di legittimità deve riguardare un fatto storico considerato nella sua oggettiva esistenza, dovendosi intendere per fatto non una questione o un punto della sentenza, ma un fatto vero e proprio e, quindi, un fatto principale, ex articolo 2697 c.c., cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo od anche un fatto secondario cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale , purché controverso e decisivo Cass. Sez. 1, Sentenza numero 17761 del 08/09/2016, Rv. 641174 cfr. anche Cass. Sez. 5, Ordinanza numero 2805 del 05/02/2011, Rv. 616733 . Non sono quindi fatti nel senso indicato dall'articolo 360 c.p.c., comma 1, numero 5, nè le singole questioni decise dal giudice di merito, nè i singoli elementi di un accadimento complesso, comunque apprezzato, nè le mere ipotesi alternative, ed infine neppure le singole risultanze istruttorie, ove comunque risulti un complessivo e convincente apprezzamento del fatto svolto dal giudice di merito sulla base delle prove acquisite nel corso del relativo giudizio. Infine, il ricorrente non deduce specificamente di aver censurato la ricostruzione proposta dall'ausiliario nella prima difesa utile, e dunque non si confronta - sotto questo profilo con l'ulteriore principio secondo cui Le contestazioni ad una relazione di consulenza tecnica d'ufficio costituiscono eccezioni rispetto al suo contenuto, sicché sono soggette al termine di preclusione di cui all'articolo 157 c.p.c., comma 2 dovendo, pertanto, dedursi - a pena di decadenza - nella prima istanza o difesa successiva al suo deposito Cass. Sez. 1, Ordinanza numero 19427 del 03/08/2017, Rv. 645178 conf. Cass. Sez. 3, Sentenza numero 4448 del 25/02/2014, Rv. 630339 e Cass. Sez. 3, Ordinanza numero 15747 del 15/06/2018, Rv. 649414 . Nel caso di specie, la Corte di Appello ha affermato che la società ricorrente, e prima di essa i suoi danti causa, avevano esibito una autorizzazione relativa ad una tenda, e non ad una tettoia, ed ha, su tale presupposto, escluso la prova del fatto che la tettoia fosse stata autorizzata, o preesistesse da tempo immemore. Tale ragionamento, che si risolve in un accertamento di fatto, non viene neanche adeguatamente attinto dal motivo in esame, poiché la parte ricorrente tralascia totalmente di affrontare il punto - che invece valore decisivo, nella prospettiva seguita dalla sentenza impugnata - della ravvisata diversità tra tenda e tettoia. Con il secondo motivo, la società ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli articolo 1117 e 2697 c.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ritenuto non idoneo, ai fini della prova della proprietà della chiostrina, il titolo di acquisto dell'esercizio commerciale, che - secondo la tesi di parte ricorrente - comprendeva anche detto andito scoperto. Inoltre, la Corte di merito non avrebbe considerato che il regolamento condominiale non includeva la chiostrina in questione tra i beni di proprietà comune, il che costituiva ulteriore indizio della proprietà esclusiva di detto spazio in capo alla società ricorrente. La censura è infondata. La Corte di Appello ha applicato la presunzione di condominialità di cui all'articolo 1117 c.c., sulla base dell'assunto, pienamente condivisibile, che la chiostrina sia assimilabile al cortile Cass. Sez. 2, Sentenza numero 17556 del 01/08/2014, Rv. 631830 conf. Cass. Sez. 2, Sentenza numero 4350 del 07/04/2000, Rv. 535405 cfr. anche Cass. Sez. 2, Sentenza numero 4625 del 03/08/1984, Rv. 436543 . Partendo da tale premessa logica, che non risulta neppure specificamente attinta dalla censura, la Corte distrettuale ha affermato che, per vincere la predetta presunzione, la società appellante avrebbe dovuto produrre un titolo di acquisto originario, ovverosia risalente al momento iniziale del condominio ed ha poi dato atto che ciò non era avvenuto, avendo la predetta società prodotto agli atti del giudizio di merito soltanto il suo diretto titolo di acquisto dell'esercizio, e non anche quello facente capo ai suoi danti causa. L'affermazione della Corte di Appello è corretta e condivisibile, poiché la presunzione di condominialità può esser vinta soltanto mediante la prova certa che il bene non sia mai stato di proprietà comune, da fornire a cura del soggetto interessato mediante la produzione di un titolo anteriore all'insorgenza del condominio, ovvero che lo stesso sia stato acquistato per usucapione. Al riguardo, si deve considerare infatti che i rapporti tra proprietà individuale e proprietà condominiale sono regolati dal principio secondo cui In tema di condominio negli edifici, per tutelare la proprietà di un bene appartenente a quelli indicati dall'articolo 1117 c. c. non è necessario che il condominio dimostri con il rigore richiesto per la rivendicazione la comproprietà del medesimo, essendo sufficiente, per presumerne la natura condominiale, che esso abbia l'attitudine funzionale al servizio o al godimento collettivo e cioè sia collegato, strumentalmente, materialmente o funzionalmente con le unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini, in rapporto con queste da accessorio a principale, mentre spetta al condomino che ne affermi la proprietà esclusiva darne la prova Cass. Sez. 2, Ordinanza numero 20593 del 07/08/2018, Rv. 650001 conf. Cass. Sez. 2, Sentenza numero 11195 del 07/05/2010, Rv. 613094 . Nell'ambito del predetto rapporto, alcun rilievo assume la circostanza che un determinato spazio, comunque condominiale in funzione della sua natura e destinazione di fatto, non sia stato indicato nel regolamento dell'ente di gestione. Infatti La presunzione legale di condominialità stabilita per i beni elencati nell'articolo 1117 c.c., la cui elencazione non è tassativa, deriva sia dall'attitudine oggettiva del bene al godimento comune sia dalla concreta destinazione di esso al servizio comune, con la conseguenza che, per vincere tale presunzione, il soggetto che ne rivendichi la proprietà esclusiva ha l'onere di fornire la prova di tale diritto a tal fine, è necessario un titolo d'acquisto dal quale si desumano elementi tali da escludere in maniera inequivocabile la comunione del bene, mentre non sono determinanti le risultanze del regolamento di condominio, nè l'inclusione del bene nelle tabelle millesimali come proprietà esclusiva di un singolo condomino Cass. Sez. 2, Sentenza numero 5633 del 18/04/2002, Rv. 553833 cfr. anche Cass. Sez. 2, Sentenza numero 8152 del 15/06/2001, Rv. 547520, che esclude la natura decisiva dei dati catastali, dotati di mera valenza indiziaria . Con il terzo motivo, la società ricorrente lamenta l'omesso esame di un fatto decisivo, perché il giudice di merito avrebbe erroneamente ricollegato una deposizione testimoniale -nella specie, quella di certo teste F. - alla chiostrina, laddove invece - secondo la ricorrente - nessuno dei testi ascoltati nel corso del giudizio di merito sarebbe stato escusso o avrebbe reso dichiarazioni sulla chiostrina, poiché il Tribunale aveva ritenuto superflua la prova orale sul punto. La censura è inammissibile. Anche in questo caso, la doglianza presenta le medesime caratteristiche del primo motivo di ricorso il ricorrente non deduce, in realtà, un profilo di omesso esame di un fatto storico, bensì propone una lettura delle risultanze istruttorie alternativa a quella fatta propria dal giudice di merito. Le ragioni di inammissibilità della censura, quindi, sono le medesime già esposte a confutazione del primo motivo. Ad esse deve aggiungersi che il motivo non soddisfa neppure i requisiti minimi di specificità, poiché il ricorrente non riporta, neanche in forma riassuntiva, cosa il teste avrebbe dichiarato nel corso della sua audizione. Infine, sussiste anche un profilo di carenza di interesse alla deduzione del vizio oggetto della censura in esame, poiché la Corte di Appello ha affermato, in ultima analisi, che la società ricorrente non aveva provato il possesso ultraventennale, nè in relazione alla tettoia, nè in relazione alla chiostrina. In assenza di detta dimostrazione, dunque, non appare di alcuna decisività ciò che il testimone non avrebbe dichiarato in relazione alla chiostrina di cui è causa rileverebbe, infatti, se la prova orale avesse consentito di conseguire - al contrario - la prova del possesso ad usucapionem, ma tale eventualità è esclusa dalla stessa prospettazione proposta da parte ricorrente, secondo cui il giudice di primo grado non aveva neppure consentito l'ingresso della prova orale sulla predetta chiostrina. In definitiva, il ricorso va rigettato. Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza. Stante il tenore della pronuncia, va dato atto - ai sensi del D.P.R. numero 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater - della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell'impugnazione, se dovuto. P.Q.M. la Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento in favore della parte controricorrente delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali, iva, cassa avvocati ed accessori tutti come per legge. Ai sensi del D.P.R. numero 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis se dovuto.