Nel contratto di leasing traslativo sale and lease-back è valida ed efficace la clausola la quale stabilisca che, in caso di risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, spettino al concedente i canoni già scaduti e i canoni ancora non maturati, scontati al momento della risoluzione del contratto, previa detrazione del valore di mercato del bene oggetto del contratto al momento della risoluzione.
È valido ed efficace il patto contenuto in un contratto di leasing traslativo il quale attribuisca al concedente, in caso di risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, la facoltà di determinare unilateralmente il valore del bene oggetto del contratto, e sottrarlo dal credito residuo vantato nei confronti dell'utilizzatore. Tuttavia, tale patto ha per corollario l'obbligo del concedente di stimare il bene secondo correttezza e buona fede in caso di contestazione della stima da parte dell'utilizzatore, è onere del concedente palesare il criterio adottato, e del concedente dimostrarne l'erroneità. Il c.d. 'patto di deduzione' in virtù del quale nei contratti di leasing traslativo si stabilisce che il concedente, nel caso di risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, ha diritto a titolo di penale al pagamento dei canoni scaduti e di quelli futuri, attualizzati al momento della risoluzione, previo diffalco di quanto ricavato dalla vendita del bene, deve essere interpretato ed applicato secondo correttezza e buona fede, con la conseguenza che a se al momento in cui il concedente esige il proprio credito restitutorio e/o risarcitorio nei confronti dell'utilizzatore il bene è stato già rivenduto, il concedente dovrà portare in diffalco il ricavato, salva la responsabilità del concedente ex articolo 1227, comma secondo, c.c., nel caso di vendita ad un prezzo vile per propria negligenza b se al momento in cui esige il proprio credito nei confronti dell'utilizzatore il bene non è stato ancora rivenduto, il concedente dovrà portare in diffalco il valore commerciale del bene, stimato col criterio del valore equo di mercato. Il sale and lease-back , è un contratto attraverso il quale il proprietario di un bene cede la proprietà ad un istituto finanziario da cui lo acquisisce in locazione finanziaria leasing finanziario . Come in tutti i contratti di leasing, anche nel contratto di lease-back, l'utilizzatore ha la possibilità di riscattare il bene al termine del contratto di locazione diritto d'opzione d'acquisto . Il patto commissorio , è il patto autonomo o aggiunto ad un'altra garanzia tipica con il quale creditore e debitore convengano che, in caso di mancato pagamento, la cosa data in pegno o in ipoteca passi in proprietà del creditore. L'ordinamento italiano sanziona con la nullità il patto commissorio. Sul punto Il divieto del patto commissorio e la conseguente sanzione di nullità radicale sono stati estesi a qualsiasi negozio, tipico o atipico, quale che ne sia il contenuto, che sia in concreto impiegato per conseguire il fine, riprovato dall'ordinamento, dell'illecita coercizione del debitore. Pertanto, in ogni ipotesi in cui quest'ultimo sia costretto ad accettare il trasferimento di un bene immobile a scopo di garanzia, nell'ipotesi di mancato adempimento di una obbligazione assunta per causa indipendente dalla predetta cessione, è ravvisabile un aggiramento del divieto di cui agli articolo 1963 e 2744 c.c. – Cass. Civ. numero 27362/2021 . Il caso. Una s.r.l. ed un istituto finanziario realizzavano una operazione di “sale and lease-back” avente ad oggetto un bene immobile. Nel corso della esecuzione del contratto, l'istituto finanziario, rilevato l'inadempimento della società utilizzatrice, attivava due iniziative giudiziarie. Con la prima, chiedeva ed otteneva decreto ingiuntivo per il recupero dei canoni scaduti e non pagati. Con la seconda, conveniva in giudizio la società affinchè, accertato l'inadempimento, fosse condannata al rilascio dell'immobile. Parte convenuta, si attivava per ottenere la revoca del decreto ingiuntivo, la dichiarazione di nullità del contratto di lease-back sostenendo che lo stesso dissimulava un patto commissorio quindi accertarsi e dichiararsi l'applicazione di interessi usurai. Tribunale e corte d'appello, accoglievano le domande di parte attrice e respingevano le difese di parte convenuta. Nel contratto di leasing , è possibile per il cedente, a seguito di risoluzione e rilascio dell'immobile, chiedere ed ottenere il pagamento dei canoni dovuti per il periodo di occupazione. La SS.UU., sul punto, hanno chiarito i seguenti aspetti - non è inibito alle parti del contratto di leasing prevedere che i canoni scaduti restino acquisiti al concedente, ai sensi dell' articolo 1526, comma secondo, c.c. - non è inibito alle parti del contratto di leasing prevedere che i canoni ancora da scadere siano dovuti al concedente a titolo di penale, ex articolo 1382 c.c. - unica cautela necessaria è che, in questi casi, è onere del concedente, nell'esigere il proprio credito verso l'utilizzatore, indicare la somma ricavata dalla diversa allocazione del bene oggetto del contratto ovvero, in mancanza, allegare una stima attendibile del relativo valore di mercato onde consentire al giudice di apprezzare l'eventuale manifesta eccessività della penale, ai sensi e per gli effetti dell' articolo 1526, comma 2, c.c. - simili patti costituiscono espressione di una razionalità propria della realtà socio-economica, sono sorti nella pratica commerciale, e il legislatore li ha anche recepiti nella legge numero 124 del 2017 . L'equilibrio negoziale. La S.C. ha osservato che il punto di diritto non è se il concedente, rientrando in possesso del bene, possa o non possa venderlo, riutilizzarlo o goderne direttamente secondo le sue insindacabili determinazioni. La società concedente resta proprietaria di quel bene, e ci mancherebbe che al proprietario non fosse consentito fare dei propri beni quel che vuole. Il punto di diritto che viene in rilievo nel presente giudizio è ben diverso come debba essere quantificato il sottraendo nel calcolo del credito residuo del concedente, ovvero individuare la tutela riconosciuta all'utilizzatore. La cassazione ha chiarito che i contratti si interpretano in buona fede articolo 1366 c.c. , e in buona fede si eseguono articolo 1375 c.c. , quindi, alla luce del criterio di buona fede il valore del bene da portare in detrazione dal credito del concedente non potrà che essere il valore equo di mercato, nel luogo e al tempo della risoluzione. Se il concedente riuscirà a reimpiegare quel bene ad un valore maggiore, ovviamente l'intero ricavato andrà portato in detrazione, in virtù del principio della compensatio lucri cum damno se il concedente non dovesse riuscire a realizzare il valore di mercato per propria trascuranza o maltalento, dovrà comunque detrarre dal proprio credito il valore di mercato, e non la minor somma ricavata, in virtù del principio di cui all' articolo 1227, comma secondo, c.c. Ordine pubblico economico. Parte convenuta ha sostenuto la contrarietà all'ordine pubblico economico del contratto di sale and lease-back. L'espressione ordine pubblico economico sconosciuta all'ordinamento positivo ma spesso utilizzata da questa Corte è convenzionalmente impiegata per designare il complesso delle norme, dei principi e degli istituti intesi a garantire il corretto svolgimento dei rapporti tra privati in materia economica Cass. numero 1184 del 21.1.2020 . Sono stati ritenuti da questa Corte contrari all'ordine pubblico economico , ad esempio, i patti stipulati al fine di aggirare la normativa antimafia o la libera concorrenza Sez. 6 - 1, Ordinanza numero 6068 del 4.3.2021 i contratti stipulati con lo Stato concepiti per recar danno all'erario Sez. U, Sentenza numero 2157 del 1.2.2021 i contratti stipulati simulatamente, al fine di dissimulare lo stato di decozione d'una impresa commerciale Sez. 1, Ordinanza numero 16706 del 5.8.2020 od ancora gli accordi e le condotte violative delle norme che prescrivono l'indipendenza dell'attestatore di un concordato preventivo, ex articolo 161 comma 30 I. fall. Sez. 1, Ordinanza numero 12171 del 22.6.2020 . Il patto di sale and lease-back rispetta l'ordine pubblico economico, tanto da trovare espressa disciplina, tra l'altro, nella convenzione di Ottawa sul leasing ratificata dall'Italia con L. numero 259/1993 .
Cass. civ. numero 28022 del 14 ottobre 2021 Presidente Vivaldi – Relatore Rossetti Fatti di causa 1. Nel 2003 la società Italease s.p.a. che in seguito muterà ragione sociale in Banco BPM s.p.a., e come tale sarà d'ora innanzi comunque indicata stipulò un contratto di sale and lease back con la società Progetto Bari s.r.l., avente ad oggetto un immobile sito a OMISSIS . 2. La Progetto Bari s.r.l. in seguito muterà ragione sociale in Arke' s.r.l. quindi si scinderà nelle due società Arke' s.r.l. ed Arke' Hotel Business Center s.r.l. d'ora innanzi, per brevità, la AHBC . Infine, la Arke' s.r.l. muterà nuovamente ragione sociale in H Consulting s.r.l. 3. I debiti della AHBC verso la società concedente Banco BPM vennero garantiti con fideiussione, per quanto ancora rileva, dalla Nicofin s.p.a. in seguito, Nicofin s.r.l. . Il contratto venne novato nel 2009. 4. Tra la fine del 2012 e l'inizio del 2013 il Banco BPM, allegando l'inadempimento della ABHC alle proprie obbligazioni, adottò due iniziative giudiziarie - chiese ed ottenne dal Tribunale di Milano un decreto ingiuntivo avente ad oggetto i canoni di leasing rimasti insoluti, per l'importo di circa 3.000.000 di Euro - convenne dinanzi al Tribunale di Milano la ABHC chiedendone la condanna - previo accertamento della risoluzione del contratto - al rilascio dell'immobile e al risarcimento del danno da inadempimento. 5. La ABHC, la Arke' e la Nicofin proposero opposizione al decreto ingiuntivo. Chiesero in via riconvenzionale accertarsi la nullità del contratto di sale and lease back, in quanto dissimulante un patto commissorio domandarono in subordine la riduzione delle penali contrattualmente previste, eccepirono la nullità del saggio degli interessi moratori previsti nel contratto. 6. Il giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo e quello di risoluzione vennero riuniti. Con sentenza 16 marzo 2016 numero 3562 il Tribunale di Milano dichiarò risolto per inadempimento dell'utilizzatrice il contratto di sale and lease back condannò la ABHC al rilascio dell'immobile rigettò l'opposizione a decreto ingiuntivo. La sentenza venne appellata dalle parti soccombenti. 7. Con sentenza 28 luglio 2018 numero 3656 la Corte d'appello di Milano rigettò il gravame. La Corte d'appello ritenne che - non sussisteva alcun indice sintomatico dal quale desumere che il contratto stipulato fra le parti dissimulasse un patto commissorio - il saggio degli interessi corrispettivi e quello degli interessi moratori previsti dal contratto non erano usurari in ogni caso la relativa doglianza era inammissibile per difetto di specificità e comunque non provata - la risoluzione del contratto non obbligava la banca alla restituzione dei canoni riscossi, ai sensi dell' articolo 1526 c.c. , comma 2, in virtù del patto in tal senso espressamente convenuto né in ogni caso l'utilizzatrice poteva pretendere la restituzione dei canoni pagati durante il tempo in cui aveva occupato l'immobile. 8. La sentenza d'appello è stata impugnata per cassazione con ricorso unitario fondato su quattro motivi dalla ABHC, dalla H Consulting e dalla Nicofin Ha resistito con controricorso il Banco BPM. Tutte le parti hanno depositato memoria. Ragioni della decisione 1. Col primo motivo i ricorrenti prospettano due censure. Con una prima censura sostengono che erroneamente la Corte d'appello ha escluso la nullità del patto con cui le parti avevano concordato la misura degli interessi mora. Deducono che le parti avevano stabilito che in caso di mora fossero dovuti dall'utilizzatrice sia gli interessi corrispettivi, sia quelli moratori, e che il cumulo del saggio contrattualmente previsto per gli uni e per gli altri eccedeva il tasso soglia stabilito dai decreti attuativi della legge antiusura. Con una seconda e subordinata censura deducono che, anche a volere ritenere che il contratto non prevedesse il cumulo degli interessi corrispettivi e di quelli moratori, questi ultimi erano comunque usurari. Infatti, poiché il saggio degli interessi moratori contrattualmente previsto era, al momento della pattuizione, inferiore di circa un punto percentuale soltanto al tasso soglia, si dovrebbe agevolmente inferire che calcolando le ulteriori spese e commissioni per assicurazione, incastrata, istruttorie, gestione, estinzione anticipata , il tasso soglia verrebbe superato. 1.1. Il motivo è inammissibile per estraneità alla ratio decidendi. La Corte d'appello infatti ha reputato inammissibile per genericità il motivo di gravame con cui era stata riproposta in grado di appello la questione della usurarietà del saggio degli interessi moratori, e tale statuizione non è stata validamente impugnata. 1.2. In ogni caso, anche a volere ritenere un mero obiter dictum il passaggio in cui la Corte d'appello afferma che il motivo di impugnazione in questione difetta del requisito di specificità così la sentenza d'appello, p. 17, terzo capoverso , il primo motivo di ricorso sarebbe comunque inammissibile anche per altre ragioni. In primo luogo è inammissibile perché la Corte d'appello, con ulteriore ed autonoma ratio decidendi, ha ritenuto non dimostrata l'eccedenza del saggio applicato dalla Banca rispetto al tasso soglia ed anche tale statuizione non viene impugnata. 1.3. In secondo luogo il motivo è inammissibile perché censura nella sostanza l'interpretazione del contratto, senza prospettare la violazione di alcuno dei canoni ermeneutiche di cui agli articolo 1362 c.c. e ss La Corte d'appello, infatti, ha interpretato il contratto nel senso che esso non prevedesse affatto, per l'ipotesi di mora, il cumulo degli interessi corrispettivi di quelli moratori. Ha ritenuto che il contratto stabilisse una cosa ben diversa, e cioè determinasse il saggio degli interessi di mora per relationem, e cioè prevedendo che, nel caso di mora, il saggio degli interessi fosse pari ad un multiplo del saggio degli interessi corrispettivi. Le ricorrenti sostengono che tale interpretazione non sarebbe corretta, ma non prospettano la violazione di alcuno dei criteri legali di interpretazione dei contratti. Una censura, dunque, inammissibile alla luce del consolidato orientamento di questa corte, secondo cui l'interpretazione del contratto adottata dal giudice di merito è sindacabile in sede di legittimità quando siano state violate le regole legali di ermeneutica di cui agli articolo 1362 c.c. e ss. Tale violazione, tuttavia, non può dirsi sussistente sol perché il testo contrattuale consentiva in teoria altre e diverse interpretazioni, rispetto a quella fatta propria dalla sentenza impugnata ex multis, in tal senso, Sez. 3 -, Sentenza numero 28319 del 28/11/2017, Rv. 646649 - 01 Sez. 1 -, Ordinanza numero 27136 del 15/11/2017 Sez. 1, Sentenza numero 6125 del 17/03/2014 Sez. 3, Sentenza numero 16254 del 25/09/2012 Sez. 3, Sentenza numero 24539 del 20/11/2009, Rv. 610944 - 01 Sez. 1, Sentenza numero 10131 del 02/05/2006, Rv. 589465 - 01 . 2. Il secondo motivo di ricorso contiene - al di là della sua intitolazione - due distinte censure. Con una prima censura le ricorrenti sostengono che erroneamente la Corte d'appello ha negato il loro diritto alla restituzione dei canoni già pagati. Sostengono che questa statuizione sarebbe erronea perché - la clausola contrattuale che prevedeva il diritto della concedente, in caso di risoluzione del contratto, di trattenere i canoni già pagati era nulla per contrarietà all'ordine pubblico economico , perché consentiva alla concedente sia di trattenere i canoni già incassati, sia di pretendere il pagamento dei canoni ancora da scadere previa attualizzazione , sia di pretendere la restituzione del bene, col solo obbligo di defalcare dal proprio credito quanto ricavato dal reimpiego del bene - in caso di risoluzione del contratto di leasing, a titolo di risarcimento del danno il concedente può pretendere solo la remunerazione per il godimento del bene, ma non il danno da mancato guadagno Invece la Corte d'appello, consentendo alla società concedente di trattenere sia i canoni già incassati, sia di pretendere i canoni ancora dovuti, avrebbe violato il suddetto principio. 2.1. Con una seconda censura le ricorrenti lamentano la violazione dell' articolo 1384 c.c. . Sostengono che il contratto prevedeva una clausola penale in virtù della quale, in caso di risoluzione, la società concedente avrebbe avuto diritto di trattenere i canoni incassati, pretendere quelli futuri previa attualizzazione , pretendere la restituzione del bene, salvoimputare a diffalco del proprio credito l'eventuale valore di realizzo. La Corte d'appello, proseguono le ricorrenti, ha ritenuto che tale penale non dovesse essere ridotta, perché non eccessiva, sul presupposto che nel caso di specie non sussiste prova di una ingiustificata locupletazione da parte della banca . Nel caso di specie, tuttavia, la società utilizzatrice aveva perduto i canoni già pagati, era stata condannata a pagare i canoni ancora dovuti, ed aveva restituito l'immobile in questo modo la società concedente aveva realizzato un ingiustificato arricchimento , conservando la proprietà del bene ed incassando nello stesso tempo il credito per canoni scaduti e per quelli da scadere. 2.2. La complessa censura sopra riassunta cumula tre distinte questioni a se nel caso di specie sussista una nullità dei patti contrattuali, attributivi al concedente il diritto di pretendere in caso di inadempimento dell'utilizzatore, sia la restituzione del bene, sia i canoni scaduti, sia i canoni non ancora scaduti, previo diffalco di quanto ricavato dalla vendita o dal reimpiego fruttuoso del bene c.d. patto di deduzione b se in caso di risoluzione per inadempimento il contraente fedele e danneggiato possa pretendere il risarcimento dell'interesse positivo c se correttamente il giudice di merito abbia escluso l'eccessività della penale. Tali questioni debbono essere esaminate separatamente. 3. A Prima questione sulla nullità dei patti contrattuali. La censura con cui si denuncia l'erroneità della sentenza d'appello, per avere escluso la nullità dei patti contrattuali che disciplinavano gli effetti della risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, è infondata per più ragioni. 3.1 La prima ragione è che la validità del patto con cui si attribuisce al concedente, in caso di inadempimento dell'utilizzatore, di pretendere i canoni scaduti e quelli non ancora scaduti, previa detrazione del valore ricavato dalla vendita del bene oggetto del leasing, è stata ammessa dalle Sezioni Unite di questa Corte, nella decisione con cui è stato composto il contrasto circa gli effetti che la riforma della L.Fall. , L.Fall., articolo 72 quater ha avuto sulla disciplina degli effetti della risoluzione per inadempimento del contratto di leasing Sez. U -, Sentenza numero 2061 del 28/01/2021 . Nell'ampia motivazione di quella sentenza si afferma tra l'altro che - non è inibito alle parti del contratto di leasing prevedere che i canoni scaduti restino acquisiti al concedente, ai sensi dell' articolo 1526 c.c. , comma 2 - non è inibito alle parti del contratto di leasing prevedere che i canoni ancora da scadere siano dovuti al concedente a titolo di penale, ex articolo 1382 c.c. - unica cautela necessaria è che, in questi casi, è onere del concedente, nell'esigere il proprio credito verso l'utilizzatore, indicare la somma ricavata dalla diversa allocazione del bene oggetto del contratto ovvero, in mancanza, allegare una stima attendibile del relativo valore di mercato all'attualità, onde consentire al giudice di apprezzare l'eventuale manifesta eccessività della penale, ai sensi e per gli effetti dell' articolo 1526 c.c. , comma 2 - simili patti costituiscono espressione di una razionalità propria della realtà socio-economica sono sorti nella pratica commerciale, e il legislatore li ha anche recepiti nella L. numero 124 del 2017 . Tale decisione esclude dunque che i patti suddetti possano di per sé essere considerati nulli. 3.2. La seconda ragione è che i patti suddetti non solo non violano - al contrario di quanto sostenuto dalle ricorrenti - ma anzi ripristinano il c.d. ordine pubblico economico , infranto dall'inadempimento dell'utilizzatore. L'espressione ordine pubblico economico sconosciuta all'ordinamento positivo ma spesso utilizzata da questa Corte è convenzionalmente impiegata per designare il complesso delle norme, dei principi e degli istituti intesi a garantire il corretto svolgimento dei rapporti tra privati in materia economica Sez. 1, Sentenza numero 1184 del 21.1.2020, p. 3.3 dei Motivi della decisione . Sono stati ritenuti da questa Corte contrari all'ordine pubblico economico , ad esempio, patti stipulati al fine di aggirare la normativa antimafia o la libera concorrenza Sez. 6 - 1, Ordinanza numero 6068 del 4.3.2021 contratti stipulati con lo Stato concepiti per recar danno all'erario Sez. U, Sentenza numero 2157 del 1.2.2021 contratti stipulati simulatamente, al fine di dissimulare lo stato di decozione d'una impresa commerciale Sez. 1, Ordinanza numero 16706 del 5.8.2020 od ancora accordi e condotte violative delle norme che prescrivono l'indipendenza dell'attestatore di un concordato preventivo, L.Fall., ex articolo 161, comma 30 Sez. 1, Ordinanza numero 12171 del 22.6.2020 . Già questi esempi basterebbero a dimostrare che il concetto di ordine pubblico economico finisce spesso per essere, in concreto, una quinta ruota del carro, giacché per pervenire al risultato della nullità del contratto sarebbero bastate nei casi suddetti le norme sulla simulazione, sulla nullità per illiceità della causa o dell'oggetto, o quelle sulla nullità del contrato per contrarietà a norme imperative. Ma anche a volere ritenere che la nullità del contratto per contrarietà all'ordine pubblico economico costituisca un vizio concettualmente autonomo e diverso dalle ipotesi di nullità espressamente previste dalla legge, resterebbe il fatto che una clausola contrattuale non può dirsi nulla sol perché svantaggiosa per una delle parti. L'ordinamento commerciale non è un egualitario letto di Procuste che imponga l'assoluta parità tra le parti quanto a condizioni, termini e vantaggi contrattuali. L'ordinamento, al contrario, garantisce in egual misura tanto la protezione contro gli abusi di posizioni dominanti, quanto il diritto di iniziativa economica. Se l'imprenditore ha il dovere di rispettare le regole del gioco, nondimeno ha anche il diritto di pianificare in piena libertà le proprie strategie imprenditoriali e commerciali, come già ripetutamente affermato da questa Corte da ultimo, con ampiezza di motivazioni, Sez. 1, Sentenza numero 1184 del 21.1.2020 . La denuncia di nullità d'una clausola contrattuale, motivata con la contrarietà di essa all' ordine pubblico economico , pertanto, non può restare a livello di mera declamazione, ma dovrebbe ed essere spiegata individuando le concrete condotte od i concreti effetti che travalicano il legittimo esercizio dell'impresa commerciale. Condotte ed effetti che nel caso di specie, come si dirà meglio tra breve, non si ravvisano. 3.3. La terza ragione è che la clausola oggetto del contendere costituisce trascrizione quasi fedele dell'articolo 13, commi 2, 3 e 4, della convenzione di Ottawa sul leasing internazionale ratificata con L. 14 luglio 1993, numero 259 ed è singolare che una clausola possa dirsi contraria all'ordine pubblico economico nazionale, ma coerente con l'ordine pubblico economico internazionale. 3.4. La quarta ragione è che la clausola suddetta - consente al concedente di trattenere i canoni incassati e questa è una previsione conforme all' articolo 1526 c.c. , comma 2 - consente al concedente di pretendere, a titolo di risarcimento, i canoni ancora dovuti e questa è una previsione conforme all' articolo 1382 c.c. , salva ovviamente la possibilità di riduzione in sede giudiziale - vieta al concedente di acquisire, oltre l'intero importo del finanziamento, anche il valore del bene oggetto del contratto e questa previsione impedisce che il concedente possa ricavare dall'inadempimento del contratto un vantaggio addirittura maggiore rispetto a quello scaturente dalla regolare esecuzione di esso. La clausola dunque, lungi dall'attribuire profitti ingiusti, non fa altro che duplicare precetti già desumibili dall'ordinamento. 3.5. Un cenno a parte merita la deduzione con cui le ricorrenti - richiamando due precedenti di questa Corte, dei quali si dirà meglio più oltre - sostiene la nullità del c.d. patto di deduzione , cioè della clausola con cui le parti convennero che, nel caso di risoluzione del contratto per inadempimento dell'utilizzatore, dal credito del concedente si sarebbe detratto il valore del bene. Anche tale patto sarebbe secondo le ricorrenti contrario all'ordine pubblico economico , perché lascerebbe il concedente del tutto libero di procedere o meno all'operazione di riallocazione secondo le proprie insindacabili determinazioni . E' una tesi che non merita di essere condivisa. Il punto di diritto, infatti, non è se il concedente, rientrando in possesso del bene, possa o non possa venderlo, riutilizzarlo o goderne direttamente secondo le sue insindacabili determinazioni . La società concedente resta infatti proprietaria di quel bene, e ci mancherebbe che al proprietario non fosse consentito fare dei propri beni quel che vuole, giustappunto secondo le sue insindacabili determinazioni. Il punto di diritto che viene in rilievo nel presente giudizio è ben diverso e cioè come debba essere quantificato il sottraendo nel calcolo del credito residuo del concedente. Ma la mancanza di indicazioni in tal senso nel contratto non è affatto causa di nullità della clausola in esame. I contratti infatti si interpretano in buona fede articolo 1366 c.c. , e in buona fede si eseguono articolo 1375 c.c. . Ed alla luce del criterio di buona fede il valore del bene da portare in detrazione dal credito del concedente non potrà che essere il valore equo di mercato c.d. fair value , nel luogo e al tempo della risoluzione. Se il concedente riuscirà a reimpiegare quel bene ad un valore maggiore, ovviamente l'intero ricavato andrà portato in detrazione, in virtù del principio della compensatio lucri cum damno se il concedente non dovesse riuscire a realizzare il valore di mercato per propria trascuranza o maltalento, dovrà comunque detrarre dal proprio credito il valore di mercato, e non la minor somma ricavata, in virtù del principio di cui all' articolo 1227 c.c. , comma 2, sempre che la relativa eccezione sia stata tempestivamente sollevata se, infine, il concedente non dovesse riuscire a realizzare il valore di mercato non per propria negligenza, ma a causa delle oggettive condizioni di mercato, avrà diritto di detrarre dal proprio credito il valore effettivo di realizzo. 3.6. In conclusione, la prima censura del secondo motivo di ricorso è dunque infondata perché la clausola di cui si invoca la nullità non è nulla, e non lo è in quanto il quadro normativo applicabile al caso di specie va ricostruito come segue. La risoluzione del contratto ha fatto venir meno le obbligazioni scaturenti da esso, le quali sono state rimpiazzate da obblighi restitutori e risarcitori. La legge consente alle parti disciplinare ex ante, con apposito atto, sia gli uni che gli altri. In particolare, sul piano restitutorio, l' articolo 1526 c.c. , comma 2, non è in discussione che il contratto oggetto del contendere costituisse un leasing traslativo consente alle parti di prevedere che i canoni già pagati dall'utilizzatore restino acquisiti al concedente, a titolo di equo indennizzo per il godimento della cosa. Dunque la clausola in esame, nella parte in cui attribuisce tale diritto al concedente, lungi dall'essere contraria a qualsivoglia ordine pubblico , costituisce applicazione di un criterio legale. Sul piano risarcitorio, l' articolo 1382 c.c. consente alle parti di predeterminare la quantificazione del danno e in astratto nulla vieta che il danno sia quantificato in misura pari ai canoni ancora dovuti al momento della risoluzione. Sul piano più strettamente economico, poi, una simile pattuizione è perfettamente coerente con la natura del contratto di leasing. Infatti, in caso di puntuale adempimento da parte dell'utilizzatore, il concedente avrebbe realizzato un lucro pari al coacervo dei canoni concordati. Poiché in caso di risoluzione del contratto una delle poste del risarcimento dovuto al contraente fedele è il quantum lucrari potui, è coerente con tale principio che la penale sia parametrata al lucro che il concedente avrebbe realizzato, se il contratto avesse avuto puntuale esecuzione. Infine, la previsione secondo cui il concedente, tornato in possesso del bene oggetto del contratto, aveva facoltà di venderlo o reimpiegarlo, defalcando dal proprio credito il ricavato della vendita del reimpiego, lungi dal costituire una pattuizione nulla, è anzi puntualmente conforme a principi già da tempo affermati dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui legittimamente la clausola penale attribuisce al concedente, nel caso di inadempimento dell'utilizzatore, l'intero importo del finanziamento Sez. 3 -, Ordinanza numero 15202 del 12/06/2018, Rv. 649319 - 01 Sez. 3, Sentenza numero 888 del 17/01/2014, Rv. 629425 - 01 . 3.7. Resta da aggiungere, per completezza, che le ricorrenti sono nel vero quando allegano che in due decisioni di questa Corte, pronunciate in fattispecie quasi del tutto analoghe l'unica differenza è che esse avevano ad oggetto non una opposizione a decreto ingiuntivo, ma due opposizioni al rigetto di ammissione allo stato passivo , è stata dichiarata la nullità per contrarietà all'ordine pubblico economico di clausole molto simili a quella oggi in esame Sez. 1, Ordinanza numero 27935 del 31.10.2018 e Sez. 1, Ordinanza numero 21476 del 15.9.2017 . Alle decisioni invocate dalle ricorrenti, per amor di verità, deve aggiungersene una terza, pur essa conforme Sez. 6 - 1, Ordinanza numero 3200 del 4.2.2019 . Alle suddette decisioni, tuttavia, ritiene il collegio non possa darsi più continuità, per due ragioni. In primo luogo, perché esse sono state superate dal successivo intervento delle Sezioni Unite in tema di leasing sopra ricordato, e cioè Sez. U -, Sentenza numero 2061 del 28/01/2021. Ivi si è affermato, come già detto, che il patto di cui le ricorrenti invocano la nullità costituisce espressione di una razionalità propria della realtà socioeconomica , e esso comporta per il concedente la sola cautela di determinare il proprio credito allegando una stima attendibile del valore di mercato all'attualità del bene restituito. In secondo luogo, le decisioni di questa Corte invocate dalle ricorrenti non appaiono coerenti coi principi sopra elencati in tema di ordine pubblico economico , e non sono sorrette da motivazioni esaustive. La nullità del patto di deduzione fu infatti affermata la prima volta dalla sentenza del 2017, che la motivò solo ed unicamente nei seguenti termini il patto di deduzione elude la disposizione di legge inderogabile articolo 1526 c.c. e costituisce un aggiramento del regolamento imposto per ragioni di ordine pubblico economico . Le sentenze del 2018 e del 2019 non adottarono altra motivazione che richiamare la sentenza del 2017. Una motivazione, dunque, che trascura il contenuto effettivo della nozione di ordine pubblico economico , come delineato dalla giurisprudenza di questa Corte sopra ricordata. 3.8. La censura in esame va quindi rigettata in applicazione dei seguenti principi di diritto nel contratto di leasing traslativo è valida ed efficace la clausola la quale stabilisca che, in caso di risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, spettino al concedente i canoni già scaduti e i canoni ancora non maturati, scontati al momento della risoluzione del contratto, previa detrazione del valore di mercato del bene oggetto del contratto al momento della risoluzione . E' valido ed efficace il patto contenuto in un contratto di leasing traslativo il quale attribuisca al concedente, in caso di risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, la facoltà di determinare unilateralmente il valore del bene oggetto del contratto, e sottrarlo dal credito residuo vantato nei confronti dell'utilizzatore. Tuttavia tale patto ha per corollario l'obbligo del concedente di stimare il bene secondo correttezza e buona fede in caso di contestazione della stima da parte dell'utilizzatore, è onere del concedente palesare il criterio adottato, e del concederne dimostrarne l'erroneità . Il c.d. patto di deduzione, in virtù del quale nei contratti di leasing traslativo si stabilisce che il concedente, nel caso di risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, ha diritto a titolo di penale al pagamento dei canoni scaduti e di quelli futuri, attualizzati al momento della risoluzione, previo diffalco di quanto ricavato dalla vendita del bene, deve essere interpretato ed applicato secondo correttezza e buona fede, con la conseguenza che a se al momento in cui il concedente esige il proprio credito restitutorio e/o risarcitorio nei confronti dell'utilizzatore il bene è stato già rivenduto, il concedente dovrà portare in diffalco il ricavato, salva la responsabilità del concedente ex articolo 1227 c.c. , comma 2, nel caso di vendita ad un prezzo vile per propria negligenza b se al momento in cui esige il proprio credito nei confronti dell'utilizzatore il bene non è stato ancora rivenduto, il concedente dovrà portare in diffalco il valore commerciale del bene, stimato col criterio del valore equo di mercato . 4. B Seconda questione il limite del risarcimento all'interesse negativo. I ricorrenti deducono, altresì, col proprio secondo motivo di ricorso che la Corte d'appello avrebbe violato l' articolo 1526 c.c. , in quanto tale norma consente al concedente di pretendere, in caso di soluzione del contratto, solo la remunerazione per il godimento del bene l'equo compenso , ma non anche il mancato guadagno. 4.1. Anche questa censura è infondata. I ricorrenti, infatti, sorreggono la propria tesi sovrapponendo istituti e regole giuridici diversi, e pervenendo di conseguenza ad esiti non corretti. Dalla risoluzione del contratto scaturiscono effetti liberatori, restitutori e risarcitori L' articolo 1526 c.c. disciplina gli effetti restitutori. Gli articolo 1218, 1223 e/o 1382 disciplinano gli effetti risarcitori. In dottrina si è aspramente discusso, per decenni, se la risoluzione del contratto per inadempimento consenta al contraente fedele di domandare il risarcimento dell'interesse negativo cioè dell'id quod interest contractum non fuisse , oppure dell'interesse positivo e cioè il quantum lucrari potui . Questa Corte tuttavia ha sempre condiviso la prima soluzione Sez. 2, Sentenza numero 1956 del 30/01/2007 Sez. 3, Sentenza numero 4473 del 28/03/2001 Sez. 3, Sentenza numero 1357 del 10/03/1981 Sez. 1, Sentenza numero 2696 del 06/11/1967 , ed a tale orientamento il Collegio intende dare continuità. La tesi del diritto al risarcimento dell'interesse positivo è infatti preferibile poiché a l' articolo 1453 c.c. consente alla parte fedele il rimedio sia dell'azione di adempimento, sia dell'azione di risoluzione e del risarcimento del danno ma poiché l'azione di adempimento è senz'altro finalizzata al conseguimento dell'interesse positivo, il rimedio risarcitorio non potrebbe avere oggetto diverso, in virtù del c.d. principio di indifferenza del risarcimento del danno b se il risarcimento fosse limitato al solo interesse negativo, esso non potrebbe costituire un adeguato disincentivo all'inadempimento, in contrasto con la generale funzione di deterrence pacificamente attribuita alla responsabilità civile c l' articolo 1518 c.c. , nel fissare un criterio semplificato per il risarcimento del danno in caso di risoluzione del contratto di vendita, fa espresso riferimento alla lesione dell'interesse contrattuale positivo d se in caso di risoluzione fosse dovuto a titolo di risarcimento il solo interesse negativo, la responsabilità per inadempimento verrebbe a coincidere quoad effectum con la responsabilità precontrattuale, il che significherebbe trattare in modo uguale casi diversi. 4.2. Dai principi esposti consegue che - la società concedente aveva diritto sia all'indennità per l'uso della cosa fino al momento della riconsegna, sia al risarcimento del danno - nel caso di specie le parti avevano convenuto sia la misura dell'indennità, ai sensi dell' articolo 1526 c.c. , comma 2 sia la misura del risarcimento, ai sensi dell' articolo 1382 c.c. - la misura del risarcimento legittimamente ha tenuto conto dell'interesse positivo, ovvero del mancato guadagno - le pattuizioni suddette sono pertanto lecite e valide. Ben altra questione, ovviamente, è poi lo stabilire se la misura del risarcimento e della indennità prevista da quelle pattuizioni potessero o dovessero essere ridotte in quanto manifestamente eccessive. Ma naturalmente l'eccessività del quantum non comporta la nullità della clausola, ma solo la riduzione del risarcimento o dell'indennità, secondo quanto si dirà meglio nel p. che segue. 5. C Terza questione la riduzione della penale. Con la terza censura contenuta nel secondo motivo le ricorrenti deducono, infine, che la Corte d'appello avrebbe violato l' articolo 1384 c.c. . L'avrebbe violato perché non ha ridotto una clausola penale manifestamente eccessiva. La clausola penale si doveva ritenere eccessiva perché aveva avuto per effetto, nel caso concreto, di lasciare alla società concedente la proprietà dell'immobile, di incamerare i canoni già pagati, di pretendere il pagamento dei canoni futuri. 5.1. La censura è fondata. Lo stabilire se una penale sia eccessiva è un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito, come tale non sindacabile in sede di legittimità. Sindacabile in sede di legittimità è tuttavia il criterio adottato dal giudice di merito per valutare l'eccessività della clausola penale In materia di leasing traslativo, questa Corte ha già stabilito che il criterio da adottare per valutare l'eccessività del quantum previsto da una clausola penale consiste nello stabilire se, per effetto di essa, la parte non inadempiente possa conseguire un vantaggio addirittura superiore a quello che le sarebbe derivato dalla puntuale esecuzione del contratto. 5.2. Nel caso di specie la Corte d'appello premette pagina 13, primo capoverso , che sarebbe illegittima una clausola la quale consentisse al concedente sia di incamerare l'intero importo del finanziamento, sia di trattenere la proprietà dell'immobile. Tuttavia era stata la stessa società concedente creditrice appellata ed odierna controricorrente a dichiarare, nella propria comparsa conclusionale in grado di appello, che la società utilizzatrice dopo un lungo ed ingiustificato ostruzionismo ha restituito l'immobile in data 5 marzo 2018 . La Corte d'appello, dunque, si è trovata ad esaminare un caso in cui la società concedente - aveva incamerato i canoni scaduti e ottenuto la condanna della concedente al pagamento di quelli futuri - aveva ottenuto la restituzione dell'immobile - non aveva portato in diffalco dal proprio credito il valore commerciale dell'immobile. Ci troviamo dinanzi dunque ad una sentenza la quale premette una regola astratta impossibilità di cumulo di proprietà del bene, canoni scaduti e canoni futuri accerta una situazione concreta perfettamente coincidente con quella regola nega l'applicazione della regola. La sentenza, pertanto, presenta un duplice vizio da un lato l'illogicità manifesta vizio che, se pur non espressamente nominato nell'epigrafe del motivo, è comunque adeguatamente invocato a pagina 24, ultimo capoverso, del ricorso dall'altro la violazione dell' articolo 1384 c.c. , in quanto non ha ridotto la penale in una ipotesi in cui l'applicazione di essa ha consentito alla società concedente la realizzazione di un vantaggio patrimoniale superiore a quello derivante dalla corretta esecuzione del contratto. 6. Col terzo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell' articolo 360 c.p.c. , numero 3, la violazione degli articolo 1453 e 1460 c.c. . Sostiene una tesi così riassumibile poiché la banca aveva applicato interessi usurari e inserita nel contratto una clausola nulla, essa si era per prima resa inadempiente alle proprie obbligazioni, con la conseguenza che legittimamente la società utilizzatrice aveva rifiutato di adempiere le proprie, ai sensi dell' articolo 1460 c.c. . 6.1. Il motivo resta assorbito dal rigetto del primo e dall'accoglimento parziale del secondo. 7. Col quarto motivo le ricorrenti lamentano l'erroneità della sentenza d'appello, nella parte in cui avrebbe trascurato di rilevare la nullità della fideiussione prestata dalla società Nicofin, in quanto accordata a condizioni imposte dalla società concedente e frutto di un illecito accordo limitativo della concorrenza intercorso tra vari istituti di credito. 7.1. Il motivo è inammissibile perché nuovo. Dalla sentenza impugnata risulta infatti che la Nicofin nel giudizio di merito invocò la nullità della fideiussione solo a causa della nullità dell'obbligazione principale, e non per altre cause. Ne' le ricorrenti, in violazione dell'onere imposto a pena di inammissibilità dall' articolo 366 c.p.c. , nnumero 3 e 6, chiariscono nel ricorso in quale atto ed in quali termini abbiano ritualmente proposto la questione in esame. 8. Col quinto motivo di ricorso contraddistinto dal numero 4 pagina 32 del ricorso le ricorrenti prospettano sia il vizio di violazione di legge di cui all' articolo 360 c.p.c. , numero 3 assumono violato l' articolo 191 c.p.c. sia il vizio di nullità processuale di cui all' articolo 360 c.p.c. , numero 4. Lamentano che il giudice di merito avrebbe completamente omesso di pronunciare sulla istanza di ammissione di una consulenza tecnica d'ufficio finalizzata a ricostruire i rapporti di dare e avere tra le parti. 8.1. Il motivo resta assorbito dall'accoglimento del secondo motivo di ricorso. 9. Le spese del presente giudizio di legittimità saranno liquidate dal giudice del rinvio. P.Q.M. la Corte di cassazione dichiara inammissibilile il primo motivo di ricorso dichiara inammissibile il quarto motivo di ricorso dichiara assorbiti il terzo ed il quinto motivo di ricorso - accoglie il secondo motivo di ricorso nei limiti di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata con riferimento al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte d'appello di Milano, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Cass. civ. numero 28023 del 14 ottobre 2021 Presidente Vivaldi – Relatore Rossetti Fatti di causa 1. Nel 2008 la società A-Leasing s.p.a. concesse in locazione finanziaria alla società OMISSIS s.r.l. un capannone industriale. Le obbligazioni della società utilizzatrice vennero garantite con fideiussione da C.D. e B.M 2. Nel 2011, allegando l'inadempimento, da parte dell'utilizzatrice, dell'obbligo di pagamento dei canoni e l'avvenuta risoluzione del contratto, la A-Leasing chiese ed ottenne dal Tribunale di Treviso un decreto ingiuntivo nei confronti dell'utilizzatrice e dei suoi fideiussori, per l'importo di Euro 222.486,74. La società concedente determinò questa cifra nel modo che segue - sommando i canoni scaduti e non pagati - sommando i canoni ancora dovuti dal momento della risoluzione a quello della prevista scadenza del contratto, attualizzandoli al momento della risoluzione - detraendo dagli importi di cui sopra il valore commerciale del capannone oggetto del contratto, determinato unilateralmente in Euro 400.000. 3. Tutti e tre gli intimati proposero opposizione al decreto, eccependo che il credito azionato non era né certo, né liquido, e che la società concedente, la quale contrattualmente avrebbe avuto l'obbligo di defalcare dal proprio credito residuo il valore commerciale dell'immobile che le era stato restituito, sottostimò quest'ultimo, determinandone il valore in misura notevolmente inferiore a quello di mercato. Il fideiussore C.D., per quanto in questa sede ancora rileva, eccepì altresì la nullità della fideiussione per indeterminatezza dell'oggetto e l'eccessività della penale contrattualmente prevista. 4. Nel corso del giudizio venne dichiarato il fallimento della società OMISSIS . Il processo venne interrotto e riassunto nei confronti della curatela. 5. Con sentenza 25 ottobre 2012 numero 1692 il Tribunale di Treviso rigettò l'opposizione. La sentenza venne appellata da C.D 6. Con sentenza 11 febbraio 2019 numero 410 la Corte d'appello di Venezia rigettò il gravame. La Corte d'appello ritenne che - il credito vantato dalla società concedente era certo, liquido ed esigibile - le contestazioni formulate da C.D. sui criteri di quantificazione del credito erano generiche parte di esse erano state formulate tardivamente solo in appello esse erano comunque inidonee a contrastare le carenze probatorie rilevate dalla sentenza impugnata, la quale ha . specificato come la società appellata abbia comunque agito per un importo inferiore rispetto a quello al quale avrebbe avuto diritto in forza del contratto - in ogni caso C.D. non aveva fornito testualmente differenti diversi parametri dai quali dedurre l'erroneità dei conteggi, in base ai quali effettuare l'eventuale ricalcolo - il contratto di fideiussione non era nullo per indeterminatezza dell'oggetto - le clausole del contratto di leasing non erano affatto illeggibili - sebbene il Tribunale avesse errato nel ritenere inapplicabile al caso di specie l 'articolo 1526 c.c ., l'appello era comunque infondato nella parte in cui lamentava l'eccessività della penale contrattualmente prevista, per due ragioni -- sia perché l'appellante non aveva allegato alcun elemento specifico idoneo a far ritenere manifestamente eccessiva la somma oggetto di ingiunzione -- sia, in ogni caso, perché la società concedente aveva ingiunto alla utilizzatrice ed ai suoi fideiussori il pagamento di una somma pari ai canoni scaduti e non pagati ed a quelli ancora da scadere, previa attualizzazione al momento della risoluzione e detrazione del valore ricavabile dalla rivendita del bene oggetto del contratto secondo la Corte d'appello questo calcolo era adeguato a compensare il danno patito dalla società concedente in conseguenza dell'inadempimento, danno pari a quanto avrebbe realizzato in caso di corretta esecuzione del contratto, e quanto invece ha effettivamente incassato per i canoni corrisposti prima della risoluzione. 7. La sentenza è stata impugnata per cassazione da C.D. con ricorso fondato su sette motivi. Ha resistito con controricorso la sola A-Leasing. Ambo le parti hanno depositato memoria. Ragioni della decisione 1. Col primo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell 'articolo 360 c.p.c ., numero 3, che la Corte d'appello avrebbe erroneamente escluso la nullità dell'articolo 14 delle condizioni generali del contratto di leasing. Deduce che tale clausola contrattuale si sarebbe dovuta dichiarare nulla per contrarietà all 'articolo 1526 c.c Espone il ricorrente che la suddetta clausola contrattuale stabiliva che, in caso di inadempimento da parte dell'utilizzatore, e di conseguente risoluzione del contratto di leasing, la società concedente avrebbe avuto diritto, a titolo di penale - a trattenere i canoni già versati - a pretendere i canoni scaduti e non pagati - a pretendere i canoni futuri, fino alla scadenza naturale del contratto, previa attualizzazione al momento della risoluzione. La medesima clausola aggiungeva che dall'importo suddetto si sarebbe dovuto detrarre l'eventuale ricavo della vendita o del reimpiego del bene oggetto del contratto risolto. Secondo la ricorrente, la suddetta clausola sarebbe nulla per contrarietà all'ordine pubblico economico ed alla previsione di cui all 'articolo 1526 c.c . Invoca, al riguardo, le due decisioni di questa Corte 27935/18 e 21467/17 . Mutuando le motivazioni di tali decisioni, sostiene che la suddetta clausola sarebbe nulla sia perché legittimava il concedente a detrarre dal ricavato della vendita le spese sostenute a tal fine, senza che sia neppure previsto il dovere di dare documentazione e conto di esse sia perché la clausola lasciava del tutto libera la società concedente di procedere o meno alla vendita, secondo le proprie insindacabili determinazioni, e senza neppure indicare che la venditadovesse avvenire a valori di mercato . 1.1. Il motivo è infondato per più ragioni. La prima ragione è che la validità del patto con cui si attribuisce al concedente, in caso di inadempimento dell'utilizzatore, di pretendere i canoni scaduti e quelli non ancora scaduti, previa detrazione del valore ricavato dalla vendita del bene oggetto del leasing, è stata ammessa dalle Sezioni Unite di questa Corte, nella decisione con cui è stato composto il contrasto circa gli effetti che la riforma della legge fallimentar e L.Fall., articolo 72 quate r ha avuto sulla disciplina degli effetti della risoluzione per inadempimento del contratto di leasing Sez. U -, Sentenza numero 2061 del 28/01/2021 . Nell'ampia motivazione di quella sentenza si afferma tra l'altro che - non è inibito alle parti del contratto di leasing prevedere che i canoni scaduti restino acquisiti al concedente, ai sensi dell 'articolo 1526 c.c ., comma 2 - non è inibito alle parti del contratto di leasing prevedere che i canoni ancora da scadere siano dovuti al concedente a titolo di penale, ex articolo 1382 c.c . - unica cautela necessaria è che, in questi casi, è onere del concedente, nell'esigere il proprio credito verso l'utilizzatore, indicare la somma ricavata dalla diversa allocazione del bene oggetto del contratto ovvero, in mancanza, allegare una stima attendibile del relativo valore di mercato all'attualità, onde consentire al giudice di apprezzare l'eventuale manifesta eccessività della penale, ai sensi e per gli effetti dell 'articolo 1526 c.c ., comma 2 - simili patti costituiscono espressione di una razionalità propria della realtà socio-economica sono sorti nella pratica commerciale, e il legislatore li ha anche recepiti nella L. numero 124 del 201 7. Tale decisione esclude dunque che i patti suddetti possano di per sé essere considerati nulli 1.2. La seconda ragione è che i patti suddetti non solo non violano - al contrario di quanto sostenuto dal ricorrente -, ma anzi ripristinano il c.d. ordine pubblico economico , infranto dall'inadempimento dell'utilizzatore. L'espressione ordine pubblico economico sconosciuta all'ordinamento positivo ma spesso utilizzata da questa Corte è convenzionalmente impiegata per designare il complesso delle norme, dei principi e degli istituti intesi a garantire il corretto svolgimento dei rapporti tra privati in materia economica Sez. 1, Sentenza numero 1184 del 21.1.2020, p. 3.3 dei Motivi della decisione . Sono stati ritenuti da questa Corte contrari all'ordine pubblico economico , ad esempio, i patti stipulati al fine di aggirare la normativa antimafia o la libera concorrenza Sez. 6 - 1, Ordinanza numero 6068 del 4.3.2021 i contratti stipulati con lo Stato concepiti per recar danno all'erario Sez. U, Sentenza numero 2157 del 1.2.2021 i contratti stipulati simulatamente, al fine di dissimulare lo stato di decozione d'una impresa commerciale Sez. 1, Ordinanza numero 16706 del 5.8.2020 od ancora gli accordi e le condotte violative delle norme che prescrivono l'indipendenza dell'attestatore di un concordato preventivo, L.Fall., ex articolo 161 , comma 30 Sez. 1, Ordinanza numero 12171 del 22.6.2020 . Già questi esempi basterebbero a dimostrare che il concetto di ordine pubblico economico finisce spesso per essere, in concreto, una quinta ruota del carro, giacché per pervenire al risultato della nullità del contratto sarebbero bastate nei casi suddetti le norme sulla simulazione, sulla nullità per illiceità della causa o dell'oggetto, o quelle sulla nullità del contrato per contrarietà a norme imperative. Ma anche a volere ritenere che la nullità del contratto per contrarietà all'ordine pubblico economico costituisca un vizio concettualmente autonomo e diverso dalle ipotesi di nullità espressamente previste dalla legge, resterebbe il fatto che una clausola contrattuale non può dirsi nulla sol perché svantaggiosa per una delle parti. L'ordinamento commerciale non è un egualitario letto di Procuste che imponga l'assoluta parità tra le parti quanto a condizioni, termini e vantaggi contrattuali. L'ordinamento, al contrario, garantisce in egual misura tanto la protezione contro gli abusi di posizioni dominanti, quanto il diritto di iniziativa economica. Se l'imprenditore ha il dovere di rispettare le regole del gioco, nondimeno ha anche il diritto di pianificare in piena libertà le proprie strategie imprenditoriali e commerciali, come già ripetutamente affermato da questa Corte da ultimo, con ampiezza di motivazioni, Sez. 1, Sentenza numero 1184 del 21.1.2020 . La denuncia di nullità d'una clausola contrattuale, motivata con la contrarietà di essa all' ordine pubblico economico , pertanto, non può restare a livello di mera declamazione, ma dovrebbe essere spiegata individuando le concrete condotte od i concreti effetti che travalicano il legittimo esercizio dell'impresa commerciale. Condotte ed effetti che nel caso di specie, come si dirà meglio tra breve, non si ravvisano. 1.3. La terza ragione è che la clausola oggetto del contendere costituisce trascrizione quasi fedele dell'articolo 13, commi 2, 3 e 4 della convenzione di Ottawa sul leasing internazionale ratificata con L. 14 luglio 1993, numero 25 9 ed è singolare che una clausola possa dirsi contraria all'ordine pubblico economico nazionale, ma coerente con l'ordine pubblico economico internazionale. 1.4. La quarta ragione è che la clausola suddetta - consente al concedente di trattenere i canoni incassati e questa è una previsione conforme all 'articolo 1526 c.c ., comma 2 - consente al concedente di pretendere, a titolo di risarcimento, i canoni ancora dovuti e questa è una previsione conforme all 'articolo 1382 c.c ., salva ovviamente la possibilità di riduzione in sede giudiziale - vieta al concedente di acquisire, oltre l'intero importo del finanziamento, anche il valore del bene oggetto del contratto e questa previsione impedisce che il concedente possa ricavare dall'inadempimento del contratto un vantaggio addirittura maggiore rispetto a quello scaturente dalla regolare esecuzione di esso. La clausola dunque, lungi dall'attribuire profitti ingiusti, non fa altro che duplicare precetti già desumibili dall'ordinamento 1.5. Un cenno a parte merita la deduzione con cui il ricorrente - richiamando due precedenti di questa Corte, dei quali si dirà meglio più oltre - sostiene la nullità del c.d. patto di deduzione , cioè della clausola con cui le parti convennero che, nel caso di risoluzione del contratto per inadempimento dell'utilizzatore, dal credito del concedente si sarebbe detratto il valore del bene. Anche tale patto sarebbe secondo il ricorrente contrario all'ordine pubblico economico , perché lascerebbe il concedente del tutto libero di procedere o meno all'operazione di riallocazione secondo le proprie insindacabili determinazioni così il ricorso, p. 17 il passo come accennato è mutuato da una decisione di questa corte . E' una tesi che non merita di essere condivisa. Il punto di diritto, infatti, non è se il concedente, rientrando in possesso del bene, possa o non possa venderlo, riutilizzarlo o goderne direttamente secondo le sue insindacabili determinazioni . La società concedente resta infatti proprietaria di quel bene, e ci mancherebbe che al proprietario non fosse consentito fare dei propri beni quel che vuole, giustappunto secondo le proprie insindacabili determinazioni. Il punto di diritto che viene in rilievo nel presente giudizio è ben diverso e cioè come debba essere quantificato il sottraendo nel calcolo del credito residuo del concedente. Ma la mancanza di indicazioni in tal senso nel contratto non è affatto causa di nullità della clausola in esame. I contratti infatti si interpretano in buona fede articolo 1366 c.c . , e in buona fede si eseguono articolo 1375 c.c . . Ed alla luce del criterio di buona fede il valore del bene da portare in detrazione dal credito del concedente non potrà che essere il valore equo di mercato c.d. fair value , nel luogo e al tempo della risoluzione. Se il concedente riuscirà a reimpiegare quel bene ad un valore maggiore, ovviamente l'intero ricavato andrà portato in detrazione, in virtù del principio della compensatio lucri cum damno. Se il concedente non dovesse riuscire a realizzare il valore di mercato per propria trascuranza o maltalento, dovrà comunque detrarre dal proprio credito il valore di mercato, e non la minor somma ricavata, in virtù del principio di cui all 'articolo 1227 c.c ., comma 2 sempre che la relativa eccezione sia stata tempestivamente sollevata . Se, infine, il concedente non dovesse riuscire a realizzare il valore di mercato non per propria negligenza, ma a causa delle oggettive condizioni di mercato, avrà diritto di detrarre dal proprio credito il valore effettivo di realizzo. 1.6. In conclusione, la prima censura del secondo motivo di ricorso è infondata perché la clausola di cui si invoca la nullità non è nulla, e non lo è in quanto il quadro normativo applicabile al caso di specie va ricostruito come segue. La risoluzione del contratto ha fatto venir meno le obbligazioni scaturenti da esso, le quali sono state rimpiazzate da obblighi restitutori e risarcitori. La legge consente alle parti disciplinare ex ante, con apposito atto, sia gli uni che gli altri. In particolare, sul piano restitutorio, l 'articolo 1526 c.c ., comma 2, non è in discussione che il contratto oggetto del contendere costituisse un leasing traslativo consente alle parti di prevedere che i canoni già pagati dall'utilizzatore restino acquisiti al concedente, a titolo di equo indennizzo per il godimento della cosa. Dunque la clausola in esame, nella parte in cui attribuisce tale diritto al concedente, lungi dall'essere contraria a qualsivoglia ordine pubblico , costituisce applicazione di un criterio legale. Sul piano risarcitorio, l 'articolo 1382 c.c . consente alle parti di predeterminare la quantificazione del danno e in astratto nulla vieta che il danno sia quantificato in misura pari ai canoni ancora dovuti al momento della risoluzione. Sul piano più strettamente economico, poi, una simile pattuizione è perfettamente coerente con la natura del contratto di leasing. Infatti, in caso di puntuale adempimento da parte dell'utilizzatore, il concedente avrebbe realizzato un lucro pari al coacervo dei canoni concordati. Poiché in caso di risoluzione del contratto una delle poste del risarcimento dovuto al contraente fedele è il quantum lucrari potui, è coerente con tale principio che la penale sia parametrata al lucro che il concedente avrebbe realizzato, se il contratto avesse avuto puntuale esecuzione. Infine, la previsione secondo cui il concedente, tornato in possesso del bene oggetto del contratto, aveva facoltà di venderlo o reimpiegarlo, defalcando dal proprio credito il ricavato della vendita del reimpiego, lungi dal costituire una pattuizione nulla, è anzi puntualmente conforme a principi già da tempo affermati dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui legittimamente la clausola penale attribuisce al concedente, nel caso di inadempimento dell'utilizzatore, l'intero importo del finanziamento Sez. 3 -, Ordinanza numero 15202 del 12/06/2018, Rv. 649319 - 01 Sez. 3, Sentenza numero 888 del 17/01/2014, Rv. 629425 - 01 . 1.7. Resta da aggiungere, per completezza, che il ricorrente è nel vero quando allega che in due decisioni di questa Corte, pronunciate in fattispecie quasi del tutto analoghe l'unica differenza è che esse avevano ad oggetto non una opposizione a decreto ingiuntivo, ma due opposizioni al rigetto di ammissione allo stato passivo , è stata dichiarata la nullità per contrarietà all'ordine pubblico economico di clausole molto simili a quella oggi in esame Sez. 1, Ordinanza numero 27935 del 31.10.2018 e Sez. 1, Ordinanza numero 21476 del 15.9.2017 . Alle decisioni invocate dal ricorrente, per amor di verità, deve aggiungersene una terza, pur essa conforme Sez. 6 - 1, Ordinanza numero 3200 del 4.2.2019 . Alle suddette decisioni, tuttavia, ritiene il collegio non possa darsi più continuità, per due ragioni. In primo luogo, perché esse sono state superate dal successivo intervento delle Sezioni Unite in tema di leasing sopra ricordato, e cioè Sez. U -, Sentenza numero 2061 del 28/01/2021. Ivi si è affermato, come già detto, che il patto di cui il ricorrente invoca la nullità costituisce espressione di una razionalità propria della realtà socioeconomica , e esso comporta per il concedente la sola cautela di determinare il proprio credito allegando una stima attendibile del valore di mercato all'attualità del bene restituito. In secondo luogo, le decisioni di questa Corte invocate dal ricorrente non appaiono coerenti coi principi sopra elencati in tema di ordine pubblico economico , e non sono sorrette da motivazioni esaustive. La nullità del patto di deduzione fu infatti affermata la prima volta dalla sentenza del 2017, che la motivò solo ed unicamente nei seguenti termini il patto di deduzione elude la disposizione di legge inderogabile articolo 1526 c.c . e costituisce un aggiramento del regolamento imposto per ragioni di ordine pubblico economico . Le sentenze del 2018 e del 2019 non adottarono altra motivazione che richiamare la sentenza del 2017. Una motivazione, dunque, che trascura il contenuto effettivo della nozione di ordine pubblico economico , come delineato dalla giurisprudenza di questa Corte sopra ricordata. 2. Col secondo motivo il ricorrente lamenta che la Corte d'appello avrebbe violato l 'articolo 1341 c.c ., e comunque errato nel ritenere valida ed efficace una clausola che era in realtà illeggibile. Deduce, riguardo, che il contratto di leasing era scritto in caratteri minuscoli ed indecifrabili ed erroneamente il contrario è stato ritenuto dalla Corte d'appello. 2.1. Il motivo è inammissibile, in quanto lo stabilire se un atto sia o non sia leggibile costituisce un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito. La deduzione del ricorrente, secondo cui il Tribunale avrebbe basato il proprio giudizio di leggibilità fondandosi non già sul testo originale del contratto, ma su fotocopie ingrandite depositate in corso di causa dalla società concedente, è anch'essa inammissibile in quanto non solo costituisce una mera ipotesi con buona probabilità , ipotizza il ricorrente , ma soprattutto tale circostanza non è affatto desumibile dal contesto della sentenza impugnata. 3. Col terzo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell 'articolo 360 c.p.c ., numero 3, la violazione degli articolo 2197 c.c ., 633 e 634 c.p.c. Sostiene che il credito posto dalla società concedente a fondamento del ricorso monitorio non era né certo, né liquido, e di conseguenza il decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Treviso si sarebbe dovuto revocare. Nella illustrazione del motivo il ricorrente affianca a tale censura una seconda deduzione e cioè che la Corte d'appello avrebbe sostanzialmente aggirato il problema della congruità del valore attribuito unilateralmente dalla società concedente al capannone, e detratto dal credito azionato in via monitoria. 3.1. Nella parte in cui lamenta la violazione degli articolo 63 3 e 634 c.p.c . il motivo è infondato. Il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, infatti, non si limita al sindacato sulla legittimità formale del decreto, ma si estende ai presupposti del credito azionato in via monitoria, con la conseguenza che, quand'anche il credito non fosse stato liquido ed esigibile al momento del deposito del ricorso per decreto ingiuntivo, il giudice di merito non avrebbe potuto accogliere, per questa sola ragione, l'opposizione, ma era comunque tenuto ad accertare la sussistenza del credito ed il suo ammontare. 3.2. Nella parte restante il motivo può essere esaminato insieme al quarto, ed è fondato, come si dirà nel p. che segue. 4. Col quarto motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell 'articolo 360 c.p.c ., numero 3, la violazione dei principi sulla compensazione impropria . Al di là di tale intitolazione, nella illustrazione del motivo si formula una tesi giuridica così riassumibile - la società concedente, nel determinare il suo credito residuo, aveva attribuito unilateralmente al capannone industriale il valore di Euro 400.000 - con l'opposizione al decreto, i debitori avevano contestato la correttezza di tale stima, depositando una perizia di parte e chiedendo che fosse disposta una consulenza tecnica d'ufficio per accertare il suddetto valore - il Tribunale, tuttavia, aveva rigettato la richiesta di c.t.u. e ritenuto congruo il credito vantato dalla società concedente - la Corte d'appello, a sua volta, aveva ritenuto corretto il valore attribuito al bene dalla società concedente. Deduce la ricorrente che la Corte d'appello da un lato avrebbe sostanzialmente evaso il problema centrale del giudizio, e cioè stabilire quanto valesse questo capannone a prezzo di mercato ed al momento della risoluzione dall'altro avrebbe adottato una motivazione incomprensibile, là dove afferma che il credito vantato dalla A-leasing era congruo perché inferiore al coacervo dei canoni scaduti e di quelli da scadere . Infine, la ricorrente osserva che la contestazione del valore attribuito dalla società concedente al capannone era avvenuta sin dalla prima udienza così il ricorso, pagina 28 , sicché erronea doveva ritenersi l'ulteriore affermazione compiuta dalla sentenza impugnata, secondo cui le critiche al valore attribuito unilateralmente al capannone dalla A-leasing erano state formulate tardivamente. 4.1. La censura, che può esaminarsi unitamente alla seconda censura del terzo motivo, come accennato è fondata. Vanno qui richiamati i principi di diritto già ampiamente esposti ai precedenti p.p. 1.5 ed 1.8 e cioè che il c.d. patto di deduzione è valido che il concedente deve attribuire al bene un valore equo di mercato che la vendita del bene ad un prezzo vile costituisce una condotta colposa del creditore per i fini di cui all 'articolo 1227 c.c Deve ora aggiungersi che la contestazione del valore attribuito al bene dal concedente è un fatto modificativo della pretesa di quest'ultimo, e va provato dall'utilizzatore. Tuttavia il valore di un bene non è materia che possa provarsi con testimoni, e di norma l'unica prova rilevante in tal senso non potrà che essere una perizia di stima. 4.2. Nel caso di specie, la Corte d'appello non ha rispettato i suddetti principi di diritto. In primo luogo, la sentenza impugnata non affronta mai l'unica, vera, decisiva questione oggetto del thema decidendum e cioè quanto valesse il capannone né spiega come sia possibile che un capannone pagato 580.000 Euro due anni prima, al momento della risoluzione avesse un valore ridotto ad Euro 400.000. In secondo luogo, la sentenza impugnata ha adottato una motivazione oggettivamente non perspicua, e quindi nulla ai sensi dell 'articolo 132 c.p.c ., comma 2, numero 4, là dove si è limitata a rilevare che la società creditrice aveva correttamente determinato il proprio credito sommando i canoni scaduti, aggiungendo i canoni da scadere, e detraendo il valore dell'immobile. Infatti il punto di discussione tra le parti non riguardava il metodo di calcolo del credito, ma il valore da attribuire al capannone oggetto del contratto. Non dunque il quomodo del conteggio, ma il quantum di esso era il punto nodale che andava accertato. In terzo luogo la sentenza impugnata non è rispettosa del principio, ripetutamente affermato da questa Corte, secondo cui la consulenza tecnica d'ufficio, la quale non costituisce di norma un mezzo di prova, lo diventa tuttavia quando la parte non abbia altro strumento per provare il fatto costitutivo della domanda o dell'eccezione, ed in tale ipotesi è viziata da nullità per irragionevolezza la sentenza che dapprima rigetti la richiesta di consulenza tecnica d'ufficio, e poi rigetti la domanda perché non provata. 4.3. Deve ora aggiungersi come non possa venire in rilievo, nel presente giudizio, la circostanza allegata dalla società A-Leasing nella propria memoria depositata ai sensi dell'articolo 380 bis c.p.c., ovvero l'avvenuta vendita dell'immobile già oggetto del contratto di leasing in data 12 febbraio 2021, al prezzo di Euro 170.000. A prescindere, infatti, dal problema della rilevanza in sede di legittimità del fatto sopravvenuto, quel che impedisce di tenere conto della suddetta circostanza è che - da un lato, l'avvenuta vendita del bene restituito dall'utilizzatore al concedente impone un giudizio sulla congruità del prezzo, il quale è un giudizio di fatto non consentito nella presente sede di legittimità - dall'altro, per quanto detto, il valore di diffalco del bene va stimato al momento della risoluzione, ed anche questo è un giudizio di fatto esulante dal perimetro del giudizio di legittimità. 4.4. La sentenza impugnata va dunque su questo punto cassata con rinvio, affinché il giudice d'appello torni ad esaminare il gravame applicando i seguenti principi di diritto e' valido ed efficace il patto contenuto in un contratto di leasing traslativo il quale attribuisca al concedente, in caso di risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, la facoltà di determinare unilateralmente il valore del bene oggetto del contratto, e sottrarlo dal credito residuo vantato nei confronti dell'utilizzatore. Tuttavia tale patto ha per corollario l'obbligo del concedente di stimare il bene secondo correttezza e buona fede in caso di contestazione della stima da parte dell'utilizzatore, è onere del concedente indicare il criterio adottato, e dell'utilizzatore dimostrarne l'eventuale erroneità . Il c.d. patto di deduzione, in virtù del quale nei contratti di leasing traslativo si stabilisce che il concedente, nel caso di risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, ha diritto a titolo di penale al pagamento dei canoni scaduti e di quelli futuri, attualizzati al momento della risoluzione, previo diffalco di quanto ricavato dalla vendita del bene, deve essere interpretato ed applicato secondo correttezza e buona fede, con la conseguenza che a se al momento in cui il concedente esige il proprio credito restitutorio e/o risarcitorio nei confronti dell'utilizzatore il bene è stato già rivenduto, il concedente dovrà portare in diffalco il ricavato, salva la responsabilità del concedente ex articolo 1227 c.c ., comma 2, nel caso di vendita ad un prezzo vile per propria negligenza b se al momento in cui esige il proprio credito nei confronti dell'utilizzatore il bene non è stato ancora rivenduto, il concedente dovrà portare in diffalco il valore commerciale del bene, stimato col criterio del valore equo di mercato. 5. Col quinto motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell 'articolo 360 c.p.c ., numero 3, la violazione degli articolo 138 4 e 1526 c.c ., nonché la nullità della sentenza per apparenza della motivazione. Il motivo investe la sentenza d'appello nella parte in cui ha ritenuto di non ridurre la penale concordata tra le parti. Deduce, da un lato, che la Corte d'appello non si è avveduta che la A-Leasing aveva determinato il proprio credito sottostimando il valore del capannone, e conseguendo così un vantaggio non proporzionato al danno effettivamente subito. Sotto altro profilo, deduce che la motivazione impiegata dalla Corte d'appello per rigettare il motivo di gravame con cui si invocava la riduzione della penale è incomprensibile, in quanto consistente nella seguente affermazione avendo nella specie la società appellata ha agito per un importo sensibilmente inferiore al valore del bene . 5.1. Il motivo resta assorbito dall'accoglimento del quarto. 6. Col sesto motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell 'articolo 360 c.p.c ., numero 3, la violazione degli articolo 1375,1384 e 1526 c.c . lamenta altresì il vizio di omesso esame d'un fatto decisivo. Sostiene che la Corte d'appello avrebbe erroneamente ritenuto assorbita la censura con cui l'odierno ricorrente aveva lamentato in grado d'appello la violazione, da parte della società concedente, del dovere di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto. Sostiene che tali doveri erano stati violati. Se dalla società concedente nell'attribuire al capannone oggetto del contratto un valore sensibilmente inferiore a quello di mercato aggiunge che il giudice di primo grado aveva omesso di pronunciarsi su tali e deduzione, la Corte d'appello li aveva ritenuti assorbite . 6.1. Anche tale motivo resta assorbito dall'accoglimento del quarto motivo. 7. Col settimo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell 'articolo 360 c.p.c ., numero 3, la violazione degli articolo 1346,1418 e 1938 c.c . lamenta altresì il vizio di omesso esame d'un fatto decisivo. Il motivo investe la sentenza d'appello nella parte in cui ha escluso che la fideiussione prestata da C.D. fosse nulla per indeterminatezza dell'oggetto. Deduce che la Corte d'appello ha escluso la nullità della fideiussione sul presupposto che la garanzia era stata prestata per tutti i debiti scaturenti dal contratto di leasing, sicché il suo oggetto non poteva ritenersi indeterminato. Osserva in contrario il ricorrente che il contratto obbligava il fideiussore a manlevare l'utilizzatore non solo con riferimento al credito scaturente dal contratto di leasing, ma anche con riferimento ai crediti conseguenti ad eventuali novazioni dell'operazione accordata , e che tale previsione rendeva indeterminato l'oggetto del contratto. 7.1. Il motivo è inammissibile per difetto di decisività. Nel caso di specie, infatti, è pacifico che nessuna novazione è mai stata stipulata tra concedente utilizzatore, e dunque anche a voler supporre che fosse nulla la clausola che obbligava il fideiussore a garantire anche i crediti scaturenti da novazioni, una ipotetica pronuncia di nullità colpirebbe non l'intero contratto, ma solo la suddetta pattuizione, in virtù del principio utile per inutile non vitiatur. 8. Le spese del presente giudizio di legittimità saranno liquidate dal giudice del rinvio. P.Q.M. la Corte di cassazione - rigetta il primo ed il secondo motivo di ricorso - dichiara inammissibile il settimo motivo di ricorso - accoglie il terzo ed il quarto motivo di ricorso nei limiti indicati in motivazione, dichiara assorbiti il quinto ed il sesto motivo di ricorso cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte d'appello di Venezia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.