La sospensione dal servizio per addebiti disonorevoli si è tradotta nell’alterazione peggiorativa della qualità della vita, dell’organizzazione delle abitudini e degli assetti relazionali, sia familiari, sia interni all’ambiente lavorativo, sia esterni, con evidente compressione della dignità personale e professionale.
E’ il caso affrontato dal Consiglio di Stato con la sentenza numero 906/14, depositata lo scorso 25 febbraio. Il caso. L'ispettore di polizia viene sospeso dal servizio perchè ha truffato lo Stato usufruendo di ferie che non gli sarebbero spettate. Ma la Corte d'appello lo assolve perché il fatto non sussiste ed il TAR gli riconosce il diritto al risarcimento di 15mila euro per il danno subito. Importo che, peraltro, avrebbe potuto ben essere superiore se soltanto la domanda fosse stata presentata nei termini e con le modalità prescritte. Tutto a causa di una situazione di fatto denunciata sia dal GUP che dalla della Corte di appello dalla quale emerge la «grave disorganizzazione dell’ufficio di appartenenza dell’imputato», in particolare «l’irregolarità, la confusione, le lacune e l’incompletezza con la quale era complessivamente tenuta la documentazione rilevante e lo stesso fascicolo personale dell’imputato». Insomma, a giudizio del Giudice una condotta che aggrava senz’altro la colpa dell’Amministrazione per aver illegittimamente privato il medesimo dell’attività lavorativa. Insomma, l'efficienza non è di casa in Polizia. Con la sentenza appellata dalla Questura territorialmente competente e dal Ministero dell'Interno, è stata riconosciuta nei confronti del poliziotto sospeso ai sensi del decreto 3 settembre 2001 del Capo della Polizia ai sensi dell’articolo 9, comma 2, d.P.R. numero 737/1981 il quale prevede la sospensione cautelare facoltativa in pendenza di procedimento penale «quando la natura del reato sia particolarmente grave» per i reati di truffa ottenimento di ferie non spettanti ed occultamento di atti pubblici domande di ferie la sussistenza di danno esistenziale. Per effetto della sospensione dal servizio, l'ispettore di polizia aveva subito la forzata inattività dal lavoro per un apprezzabile ambito temporale, restando privato della possibilità di esplicitare la propria personalità mediante l’esercizio dell’attività lavorativa fatto, questo, costituente elemento da cui inferire il sensibile pregiudizio della qualità della vita, lenito ma non eliso dalla disponibilità di tempo libero, nonché il pregiudizio all’immagine professionale e alla sua dignità professionale, offuscate inevitabilmente da simili provvedimenti. Secondo gli appellanti il Giudice di primo grado aveva deciso in assenza di specifiche allegazioni probatorie testimoniali, documentali o presuntive ma, a tale proposito, secondo il Consiglio di Stato, va ricordato che l’articolo 2059 c.c., interpretato in modo conforme a Costituzione, prevede una categoria unitaria di danno non patrimoniale per lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, in cui rientrano sia il danno alla salute in senso stretto, cosiddetto biologico, sia quello di tipo cosiddetto esistenziale, intesi come tipologie descrittive e non strutturali. È indubbia la necessità che ai fini della sua risarcibilità tale danno debba essere allegato e provato tanto nella sussistenza che nel nesso eziologico. In particolare si ammette, quanto al danno propriamente biologico, che il verificarsi della menomazione dell'integrità psico-fisica della persona possa essere accertato facendo ricorso alle presunzioni e che la sua quantificazione possa avvenire in via equitativa, occorrendo tuttavia che la motivazione indichi gli elementi di fatto i quali, nel caso concreto, sono stati tenuti presenti e i criteri adottati nella liquidazione equitativa. Quanto al danno esistenziale, a maggior ragione si ammette il ricorso a presunzioni, trattandosi di pregiudizio ad un bene immateriale, diverso dal biologico e consistente nel danno, di natura non meramente emotiva ed interiore ma oggettivamente accertabile, arrecato alle attività non remunerative del soggetto passivo, costretto ad alterare le proprie abitudini ed i propri assetti relazionali ed a sottostare a scelte di vita diverse dalle precedenti in ordine all'espressione ed alla realizzazione della sua personalità anche nel mondo esterno. Presunzioni a riferimento . Quanto alle presunzioni, esse vanno intese nel senso tecnico di presunzioni semplici e non assolute, ossia di «conseguenze che il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato» articolo 2727 c.c. , che sono «lasciate alla prudenza del giudice» stesso «il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti» articolo 2729 c.c. , e che non costituiscono, nella gerarchia dei mezzi di prova, uno strumento probatorio di rango secondario rispetto alla prova diretta o rappresentativa, valendo sostanzialmente, come la presunzione legale, a facilitare l'assolvimento dell'onere della prova da parte di chi ne è onerato mediante trasferimento sulla controparte l'onere della prova contraria. Ne consegue che il convincimento del giudice può ben fondarsi anche su una sola presunzione, purché grave e precisa, e non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo regole di esperienza Cons. St., Ad. plenumero , numero 7/2013 . Bene ha fatto, quindi, a giudizio della Sezione, a fare ricorso alla sola presunzione semplice, senza che occorresse altra prova testimoniale o documentale. La domanda risarcitoria. In merito alla prova del “fatto-base” su cui si basava la domanda risarcitoria, va rilevato che il ricorrente in primo grado esponeva di essere stato privato dell’attività lavorativa per quasi 2 anni e, perciò, di aver subito la lesione del diritto ad esplicare la propria personalità attraverso il lavoro diritto che trova fondamento negli articolo 1, 2, 4, 35 e 36 Cost. , nonché la lesione del diritto alla propria immagine e dignità sociale e professionale diritto tutelato dai citt. articolo 1, 2, 35 e 36 Cost. , specie nei confronti dei familiari, conoscenti, colleghi e superiori, tenuto conto del lavoro svolto di ispettore di Polizia, inteso alla prevenzione ed alla lotta contro i reati, e del fatto che la privazione del lavoro è dipesa dalla contestazione infamante del reato, onde dalla stessa privazione dell’attività lavorativa non può che essere derivato un peggioramento della qualità della vita. In tal modo lo stesso ricorrente in primo grado ha rappresentato circostanze incontroverse ed ha svolto allegazioni sufficienti a costituire prova di una serie concatenata di fatti noti avente i requisiti della gravità, precisione e concordanza, ossia del fatto-base dal quale è agevole inferire il fatto-conseguenza del lamentato pregiudizio subìto tanto in applicazione di regole di esperienza, vale a dire di tecniche di apprezzamento dei fatti di carattere generale, derivanti dall'osservazione reiterata di fenomeni naturali e socioeconomici, di cui ai sensi dell'articolo 115, comma 2, c.p.c. il giudice è tenuto ad avvalersi come regola di giudizio destinata a governare sia la valutazione delle prove che l'argomentazione di tipo presuntivo Cass., sez. II, numero 20313/2011, richiamata dalla cit. Ad. plenumero numero 7/2013 . Lavorare non stanca . In sostanza, in base a dette regole di esperienza ed in assenza di prova contraria da parte dell’Amministrazione, appare oggettivamente indiscutibile che le circostanze in parola, cioè la forzata astensione dall’attività lavorativa intesa non come mera fonte di reddito, bensì come strumento di estrinsecazione della personalità , per un consistente periodo, a causa della sospensione dal servizio per addebiti disonorevoli ed in relazione alla particolare tipologia dell’attività lavorativa stessa, si traducono nell’alterazione peggiorativa della qualità della vita, dell’organizzazione delle abitudini e degli assetti relazionali, sia familiari, sia interni all’ambiente lavorativo, sia esterni, con evidente compressione della dignità personale e professionale. L’elemento della colposità per negligenza ed imperizia ravvisato dal primo giudice e l’inescusabilità del cattivo esercizio del potere amministrativo ha correttamente quindi determinato il risarcimento. Risarcimento che, peraltro, afferma la sentenza, relativo al ritardo nell’esecuzione della sentenza, il disinvestimento dei risparmi e la rinuncia ad una polizza di previdenza per far fronte alle spese legali ed al sostentamento, la perdita di indennità, chance di avanzamento di carriera e premi, attengono a profili introduttivi di voci di danno anche patrimoniale nuove rispetto alla domanda formulata in ricorso, non esaminabili in virtù del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, bensì suscettibili di trattazione solo se si traducono a loro volta in domanda ritualmente proposta nel rispetto dei principi di difesa e del contraddittorio. Il ché, tuttavia, non è avvenuto, e certamente non è sufficiente una semplice memoria non notificata e solo depositata. Né, del resto, una siffatta domanda poteva essere ammissibile in appello, stante il divieto di ius novorum .
Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 16 gennaio – 25 febbraio 2014, numero 906 Presidente Romeo – Estensore Dell’Utri Fatto Con atto notificato i giorni 12 e 17 giugno 2008 e depositato il 26 seguente il Ministero dell’interno e la Questura di Savona hanno appellato la sentenza 30 gennaio 2008 numero 118, non risultante notificata, con la quale il TAR per la Liguria, sezione seconda, in parziale accoglimento del ricorso proposto dall’ispettore capo della Polizia di Stato Giuliano Venturino per il risarcimento del danno derivante da provvedimenti annullati con la precedente sentenza numero 1134/2002, ha condannato l’Amministrazione resistente al pagamento della somma liquidata in via equitativa in € 15.000,00 a titolo di risarcimento per danno esistenziale, nonché al pagamento delle spese di causa quantificate in € 3.000,00. Premessa la lunga vicenda che ha dato luogo alla pronuncia, a sostegno dell’appello le Amministrazioni deducono 1.- Il primo giudice ha ritenuto sussistenti l’evento dannoso ed il nesso di causalità pur in assenza di specifiche allegazioni probatorie. Per il Collegio, infatti, sarebbe sufficiente che un soggetto venga sospeso dal servizio per poter considerare lese la sua immagine e dignità personali e professionali, quale conseguenza naturale del provvedimento di sospensione e della connessa astensione dal lavoro. Di contro, v’è necessità di prova testimoniale, documentale o presuntiva che dimostri nel processo i concreti cambiamenti di vita che il presunto illecito ha apportato in senso peggiorativo alla qualità della vita dell’interessato, ammettendo la prova per presunzioni, ma in relazione alla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno del luogo di lavoro, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nella vita del lavoratore, ecc. , dai quali, attraverso un prudente apprezzamento, si possa risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno. Nella specie, non vi erano prove testimoniali né documentali, mentre né nella sentenza, né nei documenti depositati in giudizio sono rintracciabili i parametri prescritti ai fini della formazione della prova presuntiva. 2.- Il TAR ha ritenuto colposa la condotta della p.a. in quanto la sospensione cautelare dal servizio ex articolo 9, co. 2, del d.P.R. numero 737 del 1981 sarebbe stata disposta in assenza dei presupposti di indubbia gravità e ricorrendo a giustificazioni di stile. Sussisteva invece il presupposto della “particolare gravità”, richiesta dalla norma, dei delitti di truffa, distruzione di atti pubblici e falsità materiale commessa da pubblico ufficiale, per i quali il dipendente risultava, al momento dell’adozione della sospensione, rinviato a giudizio. Né la carenza di motivazione significa che l’annullamento giustifichi l’esistenza di una condotta colposa e fondata la pretesa risarcitoria, tenuto anche conto della natura cautelare del provvedimento, tesa ad evitare che un appartenente ai ruoli della P.S. continui ad espletare servizio in ragione della particolarità delle funzioni svolte. In data 24 luglio 2008 l’appellato si è costituito in giudizio e con memoria del giorno seguente ha svolto controdeduzioni, poi con atto notificato i giorni 12, 15 e 16 settembre 2008 e depositato il 18 seguente ha proposto appello incidentale per la riforma della sentenza appellata in merito alla somma quantificata, a suo avviso irrisoria rispetto al danno subito, ed all’esclusione del pregiudizio per la salute dal novero delle voci di danno risarcibile. All’uopo ha dedotto 1.- Violazione e falsa applicazione degli articolo 1226 c.c. Violazione e falsa applicazione degli articolo 2056 e 2059. Difetto di motivazione. Contraddittorietà intrinseca. È stata omessa l’indicazione dei criteri logici seguiti per la quantificazione, essendo richiamati solo concetti generici in ogni caso, a fronte della risonanza “necessaria” e dell’impatto “significativo” del provvedimento appare contraddittoria la quantificazione di un risarcimento pari a poco più di € 500 per ogni mese di forzata, illegittima astensione dal lavoro. Non è stato tenuto conto che è stato privato per quasi due anni del lavoro per fatti assolutamente infondati, tanto che neppure è stato rinviato a giudizio, e derivati esclusivamente dalla disorganizzazione dell’Amministrazione è stato costretto ad attivare l’ottemperanza per ottenere le differenze retributive ed essere riassunto, peraltro dapprima presso la Questura di Torino e poi quella di Genova ove presta attualmente servizio , con ulteriori pregiudizi della vita familiare e lavorativa per far fronte alle spese legali e per esigenze di sostentamento è stato costretto ad utilizzare i propri risparmi e rinunciare al pagamento della polizza vita con conseguente vanificazione dell’atto di previdenza la sospensione, ancorché revocata a tutti gli effetti, non gli ha consentito di percepire le indennità di produttività e, comunque, ha comportato la perdita di innumerevoli chance lavorative la sospensione ha comportato una lesione della dignità professionale e sociale e alla vita di relazione nei confronti dei familiari, dei conoscenti, e soprattutto dei colleghi e dei superiori, tenuto conto, da un lato, del tipo di lavoro svolto e delle responsabilità ad egli assegnate, e dall’altro che la privazione del lavoro è dipesa dall’infamante contestazione di un reato la lesione della dignità professionale è aggravata dalla condotta lavorativa sempre irreprensibile, tanto da meritare note caratteristiche ottime, encomi, lodi e premi sia prima che dopo la vicenda. Pertanto, alla luce della durata e della gravità della lesione, nonché della rilevanza delle descritte e documentate circostanze, l’importo liquidato risulta particolarmente incongruo anche alla luce della giurisprudenza che, nel caso di un illegittimo trasferimento di un agente di polizia neppure eseguito, ha liquidato il danno esistenziale nella somma di € 15.000. 2.- Violazione e falsa applicazione dell’articolo 1126 c.c. Violazione e falsa applicazione degli articolo 2056 e 2059. Difetto di motivazione. Difetto di presupposto. La sentenza ha escluso il risarcimento del danno alla salute in quanto chiesto in semplice memoria. In realtà, nell’atto introduttivo era chiesto il risarcimento di tutti i danni patiti e patiendi, in tal modo includendo tutti i danni non patrimoniali di cui all’articolo 2059, quindi anche il comprovato danno alla salute che, del resto, è una specie del danno esistenziale. Con memorie dell’11 e 17 dicembre 2013 il Ministero e la Questura e, rispettivamente, l’ispettore capo Venturino hanno insistito nelle rispettive tesi e richieste. Infine, con atto datato 19 dicembre 2013 l’appellante incidentale ha replicato a parte avversaria. Diritto 1.- Com’è esposto nella narrativa che precede, si controverte del risarcimento, chiesto dall’ispettore capo della Polizia di Stato Giuliano Venturino, già in servizio presso la Questura di Savona, del danno derivante dai provvedimenti annullati con sentenza 25 novembre 2002 numero 1134 del TAR per la Liguria, consistenti negli atti del procedimento culminato nella sospensione cautelare dal servizio disposta con decreto 3 settembre 2001 del Capo della Polizia ai sensi dell’articolo 9, co. 2, del d.P.R. 25 ottobre 1981 numero 737 sospensione cautelare facoltativa in pendenza di procedimento penale “quando la natura del reato sia particolarmente grave” per i reati di truffa ottenimento di ferie non spettanti ed occultamento di atti pubblici domande di ferie . In particolare, con detta sentenza numero 1134/2002 che fa seguito ad altre concernenti precedenti provvedimenti di sospensione dal servizio e di destituzione, tutti annullati la domanda annullatoria è stata accolta, non ravvisandosi la sussistenza di elementi di reale gravità tali da giustificare ai sensi di legge la sospensione cautelare in attesa dell’accertamento giudiziale dei fatti per i quali era stato avviato anche il procedimento disciplinare, tenuto conto come affermato con sentenza relativa a precedente sospensione che la gravità degli addebiti non può poggiare sulle responsabilità affidate dall’ordinamento agli agenti di polizia onde parlare di gravità dei reati e delicatezza dei fatti si traduce in “una motivazione di stile” , che la misura appare pertanto sproporzionata, che non è stata valutata la possibilità offerta dall’articolo 3 della legge numero 97 del 2001 di applicare misure cautelari minori quali il trasferimento ad altra sede o l’attribuzione di altro incarico, che non sono stati presi in considerazione gli ottimi precedenti di servizio del ricorrente. È stata invece respinta la domanda risarcitoria per lesione dell’immagine e della dignità personale e professionale, tale lesione essendo constatabile all’esito della vicenda penale, allo stato sub iudice, e solo in caso di pronuncia di piena assoluzione o proscioglimento. Tale vicenda penale si è conclusa con sentenza 23 settembre 2005 numero 11/04 della Corte di Appello di Genova, dichiarativa di non luogo a procedere “perché il fatto non sussiste”. Ne è derivata – anche a seguito di giudizio di ottemperanza – la reintegrazione giuridica ed economica dell’ispettore capo Venturino. 2.- Con la sentenza appellata in questa sede è stata riconosciuta la sussistenza di danno esistenziale, vale a dire riguardante aspetti oggettivi della vita della persona che per effetto dell’illecita condotta altrui vengono modificati in maniera apprezzabile, rilevandosi che il ricorrente per effetto della sospensione dal servizio ha subito la forzata inattività dal lavoro per un apprezzabile ambito temporale, restando privato della possibilità di esplicitare la propria personalità mediante l’esercizio dell’attività lavorativa fatto, questo, costituente elemento da cui inferire il sensibile pregiudizio della qualità della vita, lenito ma non eliso dalla disponibilità di tempo libero, nonché il pregiudizio all’immagine professionale e alla sua dignità professionale, offuscate inevitabilmente da simili provvedimenti. Non è stato invece riconosciuto il danno c.d. biologico alla salute, suscettibile di valutazione medico legale ed autonomo rispetto al danno esistenziale , in quanto la relativa domanda era stata proposta solo in memoria non notificata, mentre in ricorso si faceva riferimento solo al danno esistenziale. In relazione a quest’ultimo, ha affermato la sussistenza del nesso di causalità tra comportamento della p.a. e danno, derivante direttamente dai plurimi provvedimenti di sospensione e destituzione, tutti rimossi in sede giurisdizionale, nonché l’elemento soggettivo dell’illecito, identificato nel comportamento quanto meno colposo della p.a. per aver adottato provvedimenti di indubbia gravità in assenza dei presupposti di legge e ricorrendo a giustificazioni di stile. Infine, ha quantificato il danno in questione equitativamente in € 15.000, avuto riguardo alla durata dell’allontanamento dal lavoro, alla risonanza che detto allontanamento ha avuto nel luogo di lavoro ed al significativo impatto sull’organizzazione delle abitudini di vita del ricorrente. 3.- Ciò posto, non è fondato il primo motivo dell’appello principale, col quale l’Amministrazione si duole, in estrema sintesi, che il primo giudice abbia ritenuto la sussistenza dell’evento dannoso e del nesso di causalità in assenza di specifiche allegazioni probatorie testimoniali, documentali o presuntive. 3.1.- Al riguardo, va ricordato che l’articolo 2059 cod. civ., interpretato in modo conforme a Costituzione, prevede una categoria unitaria di danno non patrimoniale per lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, in cui rientrano sia il danno alla salute in senso stretto, cosiddetto biologico, sia quello di tipo cosiddetto esistenziale, intesi come tipologie descrittive e non strutturali. È indubbia la necessità che ai fini della sua risarcibilità tale danno debba essere allegato e provato tanto nella sussistenza che nel nesso eziologico. In particolare si ammette, quanto al danno propriamente biologico, che il verificarsi della menomazione dell'integrità psico-fisica della persona possa essere accertato facendo ricorso alle presunzioni e che la sua quantificazione possa avvenire in via equitativa, occorrendo tuttavia che la motivazione indichi gli elementi di fatto i quali, nel caso concreto, sono stati tenuti presenti e i criteri adottati nella liquidazione equitativa. Quanto al danno esistenziale, a maggior ragione si ammette il ricorso a presunzioni, trattandosi di pregiudizio ad un bene immateriale, diverso dal biologico e consistente nel danno, di natura non meramente emotiva ed interiore ma oggettivamente accertabile, arrecato alle attività non remunerative del soggetto passivo, costretto ad alterare le proprie abitudini ed i propri assetti relazionali ed a sottostare a scelte di vita diverse dalle precedenti in ordine all'espressione ed alla realizzazione della sua personalità anche nel mondo esterno. Quanto alle presunzioni, esse vanno intese nel senso tecnico di presunzioni semplici e non assolute, ossia di “conseguenze che il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato” articolo 2727 cod. civ. , che sono “lasciate alla prudenza del giudice” stesso “il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti” articolo 2729 cod. civ. , e che non costituiscono, nella gerarchia dei mezzi di prova, uno strumento probatorio di rango secondario rispetto alla prova diretta o rappresentativa, valendo sostanzialmente, come la presunzione legale, a facilitare l'assolvimento dell'onere della prova da parte di chi ne è onerato mediante trasferimento sulla controparte l'onere della prova contraria. Ne consegue che il convincimento del giudice può ben fondarsi anche su una sola presunzione, purché grave e precisa, e non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo regole di esperienza cfr. Cons. St., Ad. plenumero , 19 aprile 2013 numero 7 . 3.2.- Alla stregua dei principi appena esposti, condivisi dalla Sezione, deve perciò affermarsi che nella specie bene il primo giudice ha fatto ricorso alla sola presunzione semplice, senza che occorresse altra prova testimoniale o documentale. 3.3.- Altra questione è se sia stata fornita dall’interessato la prova del “fatto-base” su cui basava la domanda risarcitoria, dal quale possa inferirsi la ricorrenza del fatto rilevante ai fini dell’accoglimento della stessa domanda. In proposito, va rilevato che il ricorrente in primo grado esponeva di essere stato privato dell’attività lavorativa per quasi due anni e, perciò, di aver subito la lesione del diritto ad esplicare la propria personalità attraverso il lavoro diritto che trova fondamento negli articolo 1, 2, 4, 35 e 36 Cost. , nonché la lesione del diritto alla propria immagine e dignità sociale e professionale diritto tutelato dai citt. articolo 1, 2, 35 e 36 Cost. , specie nei confronti dei familiari, conoscenti, colleghi e superiori, tenuto conto del lavoro svolto di ispettore di Polizia, inteso alla prevenzione ed alla lotta contro i reati, e del fatto che la privazione del lavoro è dipesa dalla contestazione infamante del reato, onde dalla stessa privazione dell’attività lavorativa non può che essere derivato un peggioramento della qualità della vita. In tal modo lo stesso ricorrente in primo grado ha rappresentato circostanze incontroverse ed ha svolto allegazioni sufficienti a costituire prova di una serie concatenata di fatti noti avente i requisiti della gravità, precisione e concordanza, ossia del fatto-base dal quale è agevole inferire il fatto-conseguenza del lamentato pregiudizio subìto tanto in applicazione di regole di esperienza, vale a dire di tecniche di apprezzamento dei fatti di carattere generale, derivanti dall'osservazione reiterata di fenomeni naturali e socioeconomici, di cui ai sensi dell'articolo 115, co. 2, cod. proc. civ. il giudice è tenuto ad avvalersi come regola di giudizio destinata a governare sia la valutazione delle prove che l'argomentazione di tipo presuntivo cfr. Cass., sez. II, 4 ottobre 2011 numero 20313, richiamata dalla cit. Ad. plenumero numero 7 del 2013 . Invero, in base a dette regole di esperienza ed in assenza di prova contraria da parte dell’Amministrazione attuale appellante principale, appare oggettivamente indiscutibile che le circostanze in parola, cioè la forzata astensione dall’attività lavorativa intesa non come mera fonte di reddito, bensì come strumento di estrinsecazione della personalità , per un consistente periodo, a causa della sospensione dal servizio per addebiti disonorevoli ed in relazione alla particolare tipologia dell’attività lavorativa stessa, si traducono nell’alterazione peggiorativa della qualità della vita, dell’organizzazione delle abitudini e degli assetti relazionali, sia familiari, sia interni all’ambiente lavorativo, sia esterni, con evidente compressione della dignità personale e professionale. Non è in via logica contrastabile, poi, la sussistenza di nesso causale tra l’attività provvedimentale della p.a. e l’evento dannoso. 4.- È infondato anche il secondo ed ultimo motivo dell’appello principale, avente ad oggetto l’elemento soggettivo dell’illecito, contestandosi, per un verso, che la sospensione cautelare dal servizio ai sensi dell’articolo 9, co. 2, del d.P.R. numero 737 del 1981 sia stata disposta in assenza dei presupposti di legge e, per altro verso, che il vizio motivazionale da cui sarebbe dipeso l’annullamento costituisca indice di colpa. A tanto è agevole opporre che – come si è visto - non con la sentenza appellata, ma con la precedente numero 1134 del 2002 è stato affermato come non ricorressero i gravi motivi prescritti dalla norma richiamata, peraltro ribadendosi quanto già rilevato in ordine all’anteriore sospensione dal servizio ai sensi dell’articolo 92 del d.P.R. numero 3 del 1957 con la sentenza numero 117 dello stesso anno 2002. E l’annullamento non è stato pronunciato per l’insufficienza della motivazione, laddove quanto ivi addotto è stato ritenuto “motivazione di stile, se non ricerca da parte del provvedimento di presupposti di fatto in realtà inesistenti”. Nel descritto, reiterato quadro, non contestabile in questa sede, risulta evidente l’elemento della colposità per negligenza ed imperizia ravvisato dal primo giudice e l’inescusabilità del cattivo esercizio del potere amministrativo. Non senza dire che sia la sentenza del GUP del Tribunale di Savona, sia quella della Corte di appello di Genova evidenziano la “grave disorganizzazione dell’ufficio di appartenenza dell’imputato”, in particolare “l’irregolarità, la confusione, le lacune e l’incompletezza con la quale era complessivamente tenuta la documentazione rilevante e lo stesso fascicolo personale dell’imputato” stesso condotta della p.a., questa, che aggrava senz’altro la colpa dell’Amministrazione per aver illegittimamente privato il medesimo dell’attività lavorativa. 5.- Viene ora in esame l’appello incidentale, il quale è a sua volta infondato. Con i proposti due mezzi di gravame, che possono essere esaminati congiuntamente, l’originario ricorrente deduce l’incongruità della quantificazione in € 15.000,00 del risarcimento e la mancata considerazione del danno alla salute quale specie del danno esistenziale in quanto oggetto di memoria non notificata. Sta di fatto che con l’atto introduttivo del giudizio l’ispettore capo Venturino chiedeva, si, il risarcimento per “i danni patiti e patiendi” per effetto degli atti annullati con la sentenza numero 1134 del 2002, ma precisava che trattavasi di “un evidente ed ingiusto danno esistenziale all’immagine ed alla dignità personale ” pag. 8 , affermandone ripetutamente la sussistenza pagg. 9 ss. , da distinguersi rispetto sia al “danno morale soggettivo concretantesi nella perturbatio dell’animo della vittima ”, sia al “danno biologico in senso stretto o danno all’integrità fisica e psichica ”, inferibile dalle circostanze di cui si è discusso innanzi e valutato “in una somma che non pare possibile quantificare in misura superiore a € 20.000,00” pag. 13 . Ciò premesso, in primo luogo appare congrua la quantificazione da parte del TAR in € 15.000,00, motivata con la disponibilità di tempo libero, in parte lenitiva del pregiudizio lamentato. In secondo luogo, non pare dubbio che la deduzione in ordine all’autonoma tipologia ancorché descrittiva e rientrante nella categoria del danno non patrimoniale del danno biologico, così come la diversa stima in € 100.000,00 e l’allegazione di ulteriori circostanze, quali la riassunzione presso la Questura di Torino e poi il trasferimento a quella di Genova, il ritardo nell’esecuzione della sentenza, il disinvestimento dei risparmi e la rinuncia ad una polizza di previdenza per far fronte alle spese legali ed al sostentamento, la perdita di indennità, chance di avanzamento di carriera e premi, attengono a profili introduttivi di voci di danno anche patrimoniale nuove rispetto alla domanda formulata in ricorso, non esaminabili in virtù del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, bensì suscettibili di trattazione solo se si traducono a loro volta in domanda ritualmente proposta nel rispetto dei principi di difesa e del contraddittorio il ché non è avvenuto, essendo all’uopo evidente l’insufficienza della semplice memoria non notificata e solo depositata. Né, del resto, una siffatta domanda è ammissibile in appello, stante il divieto di ius novorum. 6.- In definitiva, la sentenza appellata dev’essere confermata, sia pure con le integrazioni e precisazioni di cui innanzi, con conseguente reiezione sia dell’appello principale che di quello incidentale. La reciproca soccombenza comporta la compensazione tra le parti delle spese del grado. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza , definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, respinge l’appello principale e l’appello incidentale. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.