Confermata la linea già adottata dal Giudice del lavoro prima e dalla Corte d’Appello poi episodio reale, ma di rilevanza minore, non tale da giustificare l’allontanamento del lavoratore. Nessun dubbio sul ‘prelievo’ non autorizzato nella zona dei prodotti ‘in avaria’, ma rilevante è anche la consapevolezza della mancanza di danno arrecato alla società proprietaria del supermercato.
Crisi economica può significare anche dovere ‘accontentarsi’ di cibarie oramai scadute. E destinate ad essere tolte dai banconi del supermercato per essere distrutte. Azione assolutamente impensabile, fino a qualche anno fa E se a compierla è il dipendente del supermercato, rischia di diventare ancora più grave per la giustizia, però, questo ‘prelievo’ non autorizzato non è punibile col licenziamento Cassazione, sentenza numero 16654, sezione lavoro, depositata oggi . Fatto minore. Secondo la società proprietaria del supermercato, però, l’episodio contestato al lavoratore è abnorme, tanto da essere punito col licenziamento. Ma questa visione viene completamente smentita prima il Giudice del lavoro e poi la Corte d’Appello dichiarano illegittima la scelta di allontanare il dipendente. Secondo i giudici, è evidente la «sproporzione della sanzione inflitta rispetto all’addebito», ossia l’«impossessamento di merce non più in vendita» e «destinata alla distruzione», addebito di «scarsa rilevanza» e che, quindi, «non poteva aver determinato la irrimediabile lesione del vincolo fiduciario». Nessun danno. Per la società, però, il minor peso attribuito al ‘prelievo’ non autorizzato compiuto dal lavoratore è un errore fondamentale. Difatti, su questo elemento è fondato il ricorso proposto in Cassazione, e finalizzato a una valutazione diversa del licenziamento. Decisivo, secondo il legale che rappresenta la società, il divieto assoluto di «prelevare merce dai locali, anche se posta nella zona riservata a quella in avaria». Per i giudici, però, in premessa, nessun dubbio è possibile sulla dinamica dell’episodio. Più precisamente, la merce sottratta «faceva parte di quella destinata alla distruzione, in quanto non vendibile», era già posta nella zona della merce ‘in avaria’, quindi non più «in vendita». A questo quadro, poi, viene aggiunta la consapevolezza del lavoratore che, trattandosi di «beni destinati alla distruzione», non poteva derivare «danno all’azienda». Evidente, quindi, secondo i giudici, la mancanza dell’elemento decisivo, ossia la «irrimediabile lesione del rapporto di fiducia», per giustificare il licenziamento adottato dall’azienda, licenziamento che, quindi, anche in terzo grado viene ritenuto, in via definitiva, illegittimo.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 17 luglio – 1° ottobre 2012, numero 16654 Presidente Stile – Relatore Berrino Svolgimento del processo Con sentenza dell’11/12/07 – 12/1/08 la Corte d’appello di Messina ha rigettato l’appello proposto dalla società SMA s.p.a. avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Messina con la quale era stato dichiarato illegittimo il licenziamento intimato il 20-12-02 a G.S. per la ritenuta sproporzione della sanzione massima inflitta rispetto all’addebito contestatogli, rappresentato dall’impossessamento di merce della società non più in vendita, in quanto destinata alla distruzione. La Corte territoriale è pervenuta al rigetto del gravame dopo aver condiviso il convincimento del primo giudice in ordine alla ritenuta sproporzione tra il licenziamento e l’addebito contestato che non poteva aver determinato, in considerazione della sua scarsa rilevanza, la irrimediabile lesione del vincolo fiduciario. Per la cassazione della sentenza propone ricorso la SMA s.p.a. che affida l’impugnazione a due motivi di censura. Resiste con controricorso G.S. Motivi della decisione 1. Col primo motivo è denunziata, ai sensi dell’articolo 360 numero 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli articolo 113, 115 e 116 c.p.c., in relazione all’articolo 2697 c.c. Si sostiene, in particolare, la violazione del principio codicistico in materia di onere della prova in quanto la Corte d’appello non avrebbe considerato che il ricorrente non aveva chiesto di provare le circostanze addotte a propria discolpa rispetto al contestato addebito, cioè che la merce della società, di cui egli si era impossessato e che aveva occultato all’interno delle maniche del giubbotto, proveniva dalla zona in cui veniva riposta quella in avaria, come tale non vendibile. Aggiunge la ricorrente che tali circostanze non potevano ritenersi provate per effetto delle testimonianze rese in sede penale, stante l’autonomia dei due giudizi e la mancala acquisizione di queste ultime nel procedimento civile. 2. Col secondo motivo ci si duole della insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza, ai sensi dell’articolo 360 numero 5 c.p.c., sostenendosi che la Corte avrebbe omesso qualsiasi motivazione sul comportamento tenuto dal G., sul contesto in cui il fatto oggetto d’addebito era avvenuto così pervenendo ad un giudizio erroneo sulla gravità dell’infrazione commessa e sull’intensità dell’elemento intenzionale del lavoratore. Osserva la Corte che entrambi i motivi sono infondati. Anzitutto, per quel che concerne il quesito di diritto formulato a conclusione del primo motivo di censura, attraverso il quale si chiede di accertare se era onere del lavoratore quello di provare che la merce della società, di cui il medesimo era stato trovato in possesso, era inidonea alla vendita, si osserva che lo stesso è inconferente rispetto a quanto accertato a tal riguardo dal giudice d’appello - Invero, con motivazione adeguata, il giudicante ha spiegato che la circostanza per la quale appariva verosimile quanto affermato dal lavoratore ai carabinieri nell’immediatezza del fatto, vale a dire che la merce sottratta faceva parte di quella destinata alla distruzione in quanto non vendibile, derivava dalla considerazione che la stessa era stata confermata nel giudizio penale dai testi escussi, aveva trovato riscontro nei riferimenti operati dai testi sentiti nel giudizio di primo grado ed aveva ricevuto conforto nell’affermazione della società, contenuta nella memoria difensiva della fase cautelare del procedimento, secondo cui il comportamento del lavoratore era avvenuto in violazione del divieto assoluto di prelevare merce dai locali, anche se posta nella zona riservata a quella in avaria. In definitiva, non si è verificata la lamentata violazione del principio dell’onere della prova, in quanto le affermazioni difensive rese nell’immediatezza del fatto dal dipendente hanno trovato riscontro nelle risultanze testimoniali, sia del procedimento penale che di quello civile di primo grado oltre che nella suddetta affermazione difensiva della società, il tutto liberamente valutato dal giudice d’appello con apprezzamento che, in quanto esente da vizi di carattere logicogiuridico, sfugge ai rilievi di legittimità. Né va sottaciuto che il giudice d’appello ha rilevato che nemmeno vi era la prova contraria che la merce fosse stata sottratta dai banchi di vendita e tale passaggio motivazionale non è scalfito dalla apodittica affermazione della ricorrente secondo la quale si trattava di merce posta in vendita. Quanto al secondo motivo, attraverso il quale si denunzia l’insufficienza e la contraddittorietà della motivazione, non può che rilevarsene l’infondatezza - Invero, la doglianza per la quale il giudice d’appello avrebbe omesso di valutare il comportamento del lavoratore ed il contesto in cui si era svolto il fatto addebitato non inficia la congruità delle motivazioni esplicitate in sentenza circa l’entità dello stesso fatto, il comportamento dell’incolpato ed i suoi aspetti psicologici oltre che riguardo alla verifica della proporzione della sanzione inflitta. Infatti, una volta evidenziato correttamente che l’estrema sanzione della risoluzione del rapporto può trovare giustificazione solo in presenza di fatti che rivestano il carattere della grave negazione dell’elemento fiduciario posto a base del rapporto lavorativo, il giudice d’appello ha spiegato che nella fattispecie le verificate circostanze della sottrazione di beni destinati alla distruzione e della consapevolezza del lavoratore che da ciò non poteva derivare un danno all’azienda, unitamente al suo riconoscimento dell’illiceità del comportamento ed alla non particolare tipologia delle mansioni svolte, consentivano di ritenere che non si era determinata una irrimediabile lesione del rapporto di fiducia atta a giustificare l’adozione della massima sanzione. Tale convincimento della Corte d’appello riposa su argomentazioni adeguatamente motivate che traggono spunto dall’esame del materiale istruttorio e che si sottraggono, pertanto, alle censure mosse nel presente giudizio di legittimità. Pertanto, il ricorso va rigettato. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno poste a suo carico nella misura liquidata come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio nella misura di € 3000,00 per onorario e di € 40,00 per esborsi, oltre I.V.A., C.P.A e spese generali ai sensi di legge.