Pena confermata per una donna 6 mesi di reclusione e 400 euro di multa. Fatale l’avere acquistato, da una ditta napoletana, numerosi confezioni di profumo, richiamanti illegittimamente dei noti marchi. Irrilevante l’indicazione della dicitura ‘falso d’autore’.
Straordinaria operazione commerciale? No, clamoroso flop, con conseguenze penali rilevanti. Condanna dura, difatti, per una donna – “operatrice nel settore della vendita di articoli di profumeria” –, colpevole di avere acquistato per la commercializzazione, da una ditta napoletana, numerose confezioni di profumo, caratterizzate dalla dicitura ‘falsi d’autore’. Evidente la gravità della condotta tenuta dalla donna, resa ancora più significativa dalla sua esperienza professionale Cass., sent. numero 24516/2015, Seconda Sezione Penale, depositata il 9 giugno 2015 . Commercio. Passaggio decisivo, da un punto di vista giudiziario, la decisione emessa in Appello, laddove una donna è stata condannata «alla pena di 6 mesi di reclusione e 400 euro di multa», perché colpevole di «avere acquistato e posto in vendita confezioni di profumi recanti i marchi di note case produttrici contraffatti e recanti la dicitura ‘falso d’autore’». Numerose le contestazioni da parte della donna per le valutazioni espresse dai giudici di secondo grado. A suo dire, difatti, è da «escludere il carattere ingannevole dei marchi», anche perché «i marchi altrui erano utilizzati per fini descrittivi e non distintivi, in quanto la indicazione era volta a consentire la individuazione della fragranza». E, allo stesso tempo, la donna, anche richiamando l’annullamento del «sequestro preventivo dei prodotti», sostiene la tesi della «inidoneità della condotta, in quanto non ingannevole, essendo visibile la dicitura ‘falso d’autore’». Falso d’autore. Tutte le obiezioni mosse dalla donna in Cassazione, però, si rivelano assolutamente inutili. Per i giudici del ‘Palazzaccio’, difatti, «la dicitura ‘falso d’autore’ non svuota di valenza penale la contraffazione», per la semplice ragione che la «tutela» accordata al «marchio registrato» non può essere «aggirata attraverso diciture artatamente attestative circa l’indebito uso del marchio». Peraltro, viene aggiunto, non è possibile trascurare un dato di fatto «le numerosissime confezioni» recano «l’indicazione di note case produttrici, ciascuna delle quali ha linee diversificate e plurime di prodotti, con la conseguenza che il semplice riferimento alla ‘marca’ non sempre può reputarsi indicativo anche di uno specifico prodotto, avente determinate e peculiari caratteristiche olfattive». E non regge, poi, sempre secondo i giudici, l’ipotesi della «buonafede» della donna, la quale, è bene ricordarlo, vanta «specifiche conoscenze maturate nel settore», essendo ella «una operatrice professionale nel settore della vendita di articoli di profumeria». E in questa ottica è da ritenere rilevante anche la scelta di rivolgersi ad una «più o meno sconosciuta ditta campana, certo non autorizzata dai titolari dei marchi contraffatti a vendere prodotti che riproducevano quei marchi».
Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 22 maggio – 9 giugno 2015, numero 24516 Presidente Fiandanese – Relatore Macchia Osserva Con sentenza del 16 giugno 2014, la Corte di appello di Lecce, in riforma della sentenza emessa il 7 marzo 2013 dal Tribunale della medesima città nei confronti, fra gli altri, di G.M. A., accogliendo l'appello proposto dal pubblico ministero e dalle parti civili, ha condannato la predetta alla pena di mesi sei di reclusione ed euro 400 di multa per aver acquistato e posto in vendita numerose confezioni di profumi recanti i marchi di note case produttrici contraffatti e recanti la dicitura falso d'autore , reputata in sé non scriminante agli effetti della configurabilità del reato di cui all'articolo 474 cod. penumero Propone ricorso per cassazione il difensore dell'imputata il quale lamenta che i giudici dell'appello non si siano misurati con gli argomenti dedotti in una memoria che viene diffusamente rievocata. Si lamenta, poi, che il giudice di primo grado abbia ritenuto superfluo procedere alla audizione dei testi indotti dalla difesa e che il giudice di appello non si sia pronunciato sulla richiesta di rinnovazione della istruzione dibattimentale in appello formulata con una memoria difensiva, violando in tal modo i principi del giusto processo per come affermati nella sentenza della CEDU Dan contro Moldavia. Si sottolinea al riguardo come le deposizioni testimoniali fossero volte ad escludere il carattere ingannevole dei marchi e ad asseverare il fatto che i marchi altrui erano utilizzati per fini descrittivi e non distintivi, in quanto la indicazione era volta a consentire la individuazione della fragranza. La condotta sarebbe quindi non perseguibile alla luce della previsione dettata dall'articolo 6, numero 1, della direttiva 89/104/CEE e dell'articolo 21 del d.lgs. numero 30 del 2005, e si deduce che, comunque, sussisterebbero i presupposti per ritenere il fatto non punibile a norma degli articolo 51 e 59, quarto comma, cod. penumero , sotto il profilo della scriminante putativa. Si sottolineano, inoltre, le considerazioni svolte dal Tribunale di Lecce nel provvedimento con cui era stato annullato il sequestro preventivo dei prodotti per assenza del fumus, e si rimarca la inidoneità della condotta in quanto non ingannevole, contestandosi l'assunto della Corte territoriale secondo la quale, pur essendo visibile la dicitura falso d'autore, ha escluso la grossolanità della falsificazione. Sul punto, le sentenze evocate a sostegno della pronuncia impugnata non sarebbero pertinenti, in quanto riferite a diverse fattispecie. Tutte le considerazioni svolte nella memoria sarebbero state, dunque, immotivatamente disattese, così come trascurata sarebbe stata l'analisi dell'elemento psicologico e dell'affidamento nutrito dall'imputata circa la correttezza della condotta, in ragione delle circostanze evidenziate sulle confezioni dei prodotti. In linea subordinata, si prospetta un errore su legge extrapenale, in ragione delle disposizioni anche comunitarie che individuano ipotesi di uso lecito dl marchio altrui, o errore di diritto scusabile secondo la sentenza della Corte costituzionale numero 364 del 1988. Viene poi prospettata l'assenza di motivazione in ordine all'elemento soggettivo del reato di ricettazione, stante la buona fede dell'imputata si censura la mancata compensazione delle spese, stante la diversità dei giudizi sulla illiceità del fatto, e si lamenta che i giudici dell'appello abbiano applicato, nella liquidazione delle spese in favore delle parti civili, il decreto numero 55 del 2014 anche per il primo grado, conclusosi prima della entrata in vigore del decreto. Sarebbe infine immotivata la determinazione delle spese liquidate in favore delle parti civili nei due gradi di giudizio di merito. In prossimità della udienza sono stati depositati motivi nuovi nei quali sono state ribadite ed articolate le censure già sviluppate sui punti attinti dal ricorso, con particolare riferimento all'elemento soggettivo del reato di cui all'articolo 474 cod. penumero , del quale si segnalano le modifiche normative introdotte dalla legge numero 99 del 2009, che assumerebbero una portata di parziale abolitio criminis. Il ricorso non è fondato. Deve infatti essere anzitutto rammentato che questa Corte, in una fattispecie del tutto analoga alla presente, ha avuto modo di puntualizzare che l'interesse giuridico tutelato dagli articolo 473 e 474 cod. penumero è la pubblica fede in senso oggettivo, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi o segni distintivi che individuano le opere dell'ingegno o i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione, e non l'affidamento del singolo, sicché, ai fini dell'integrazione dei reati non è necessaria la realizzazione di una situazione tale da indurre il cliente in errore sulla genuinità del prodotto al contrario, in presenza di una contraffazione, i reati sono configurabili anche se il compratore sia stato messo a conoscenza dallo stesso venditore della non autenticità del marchio. In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto che la configurabilità del reato di cui all'articolo 474 cod. penumero non era esclusa, nel caso di specie, dalla presenza di locandine che avvertivano della falsità del prodotto offerto in vendita, sulla cui confezione - che riproduceva i marchi originali - figurava la scrittura falso d'autore . Sez. 2, numero 28423 del 27/04/2012 - dep. 16/07/2012, Fabbri e altri, Rv. 253417 . Occorre infatti qui ribadire che la legge accorda una speciale tutela al marchio registrato e la tutela non può essere aggirata attraverso diciture artatamente attestative circa l'indebito uso del marchio, quali falso d'autore o simili, giacchè la contraffazione è, in sè, sufficiente e decisiva per la violazione del bene tutelato. Infatti - ha avuto modo di puntualizzare questa Corte - la confusione che la norma vuole scongiurare è tra i marchi e non tra prodotti, cioè tra quello registrato e quello illecitamente commercializzato in forma dichiaratamente decettiva, dal momento che ciò che la legge punisce è la riproduzione - senza averne titolo - del marchio registrato su di un prodotto industriale il prodotto è quindi il veicolo attraverso il quale si manifestano i marchi e la legge impone che non vengano riprodotti in modo pedissequo o con modifiche che non ne. alterino i caratteri principali che lo connotano illecitamente, su prodotti industriali. Dunque, si è ancora osservato, risulta ininfluente il raffronto tra i prodotti e i connotati di emulazione degli stessi, avendo riguardo la tutela penale solo ai marchi e alla confondibilità di quello registrato con quello illecitamente riprodotto sul bene sequestrato. In tale quadro di riferimento, la dicitura falso d'autore non svuota pertanto di valenza penale la contraffazione, restando la fattispecie integrata . dalla ontologicamente ingannevole riproduzione illecita del marchio registrato, senza che l'impiego improprio della dicitura falso d'autore , eccentrica rispetto alla tutela giuridica del marchio, assuma una qualche portata legittimante, posto che - come si è detto - la mera riproduzione è da sola sufficiente ad integrare l'ipotesi delittuosa. La Giurisprudenza di questa Corte, d'altra parte, non aveva mancato, anche in precedenza, di sottolineare che l'apposizione della dicitura copia d'autore su prodotti industriali recanti marchi contraffatti non esclude l'integrazione del reato di introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi articolo 474 cod. penumero , - il quale tutela la fede pubblica, intesa come affidamento nei marchi o nei segni distintivi - trattandosi di un reato di pericolo per la cui integrazione è necessaria soltanto l'attitudine della falsificazione a ingenerare confusione, con riferimento non solo al momento dell'acquisto, ma anche a quello della successiva utilizzazione. Sez. 5, numero 14876 del 09/01/2009 - dep. 06/04/2009, Chen, Rv. 243596 . Prospettiva, questa, dalla quale non si discosta analogo orientamento, secondo il quale si è ritenuto non sufficiente ad escludere la configurabilità del reato di introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi articolo 474 cod. penumero , la presenza su ricambi commercializzati di una dicitura indicativa del carattere non originale dei prodotti e del marchio di cui l'agente è titolare, in quanto occorre verificare se in concreto la dicitura e il marchio aggiuntivo siano idonei ad escludere il rischio di confusione sulla natura non originale dei prodotti e sulla finalità meramente indicativa della loro funzionalità al ricambio dell'uso del marchio che si assume contraffatto. A tal fine assume rilievo determinante verificare la posizione sul prodotto della dicitura rispetto a quella del marchio altrui - nella prospettiva di un'immediata e contestuale leggibilità di entrambe le indicazioni, che garantisca ai terzi la possibilità di apprezzare il carattere non autentico del marchio - così come rileva la collocazione di quest'ultimo sul prodotto e la sua presentazione grafica in termini tali da evidenziarne la funzione meramente descrittiva della corretta destinazione meccanica del ricambio. Sez. 5, numero 5957 del 30/11/2011 - dep. 15/02/2012, Martinelli, Rv. 252459 . Quanto, poi, alla tesi secondo la quale dovrebbe nel caso di specie essere escluso il carattere ingannevole dei marchi in considerazione del fatto che i marchi delle note case produttrici di prodotti di cosmesi erano utilizzati per fini descrittivi, e non distintivi, in quanto - sostiene la ricorrente - la indicazione era volta a consentire la individuazione della fragranza, l'assunto si rivela del tutto inconsistente, oltre che indimostrato. L'uso del marchio altrui a fini meramente descrittivi , infatti, avrebbe dovuto univocamente emergere dalle stesse caratteristiche dei prodotti, attraverso locuzioni che lasciassero trasparire ictu oculi il riferimento al nomen del profumo evocato come semplice tipologia della fragranza, rendendo certo che si trattasse di prodotto diverso da quello il cui marchio veniva riprodotto con la conseguenza che eventuali avvisi circa il fatto che il nome riportato sulle confezioni valesse solo come indicazione della fragranza non inibisce la configurazione dell'illecito se la confezione reca in bella vista nome, logo e caratteristiche del marchio altrui, il carattere ingannatorio non può certo essere escluso da un avvertimento che non si deduce neppure avesse caratteristiche grafiche di macroscopica evidenza . A dissolvere la fondatezza della deduzione difensiva, d'altra parte, è assorbente il rilievo per il quale, come emerge dallo stesso capo di imputazione, le numerosissime confezioni oggetto di addebito recano l'indicazione di note case produttrici, ciascuna delle quali ha linee diversificate e plurime di prodotti, con la conseguenza che il semplice riferimento alla marca non sempre può reputarsi indicativo anche di uno specifico prodotto, avente determinate e peculiari caratteristiche olfattive. D'altra parte, il comma 2 dell'articolo 21 del d. lgs. numero 30 del 2005, pur evocato dal ricorrente, espressamente prevede che «Non è consentito usare il marchio in modo contrario alla legge, né, in specie, in modo da ingenerare un rischio di confusione sul mercato con altri segni conosciuti come distintivi di imprese, prodotti o servizi altrui, o da indurre comunque in inganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza dei prodotti o servizi, a causa del modo e del contesto in cui viene utilizzato, o da ledere un altrui diritto di autore, di proprietà industriale, o altro diritto esclusivo di terzi.». Neppure conducenti sono le doglianze relative alla mancata rinnovazione della istruzione dibattimentale che il difensore della ricorrente assume aver formato oggetto di richiesta formulata con una memoria, richiamando al riguardo la nota sentenza della Corte EDU Dan contro Moldavia. Al riguardo va senz'altro ribadito che, alla luce dei principi affermati nella richiamata sentenza dalla Corte di Strasburgo, il giudice di appello, qualora intenda riformare in peius una sentenza di assoluzione è obbligato, in base all'articolo 6 CEDU - così come interpretato dalla sentenza della Corte Europea del 5 luglio 2011 resa nel caso Dan c/ Moldavia - alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale per escutere, nel contraddittorio con l'imputato, i testimoni a carico allorché egli avverte la necessità di rivalutarne l'attendibilità. Sez. 5, numero 52208 del 30/09/2014 - dep. 16/12/2014, Marino, Rv. 262115 . La logica della oralità, immediatezza e del contraddittorio, specie nella assunzione delle fonti di prova dichiarativa, postula - nella interpretazione convenzionalmente orientata dei principi del giusto processo - che, affinché sia consentito al giudice di appello di ribaltare lo statuto assolutorio del primo giudice, in forza di una diversa valutazione in punto di attendibilità di dichiarazioni testimoniali, il giudice stesso è chiamato a misurarsi nuovamente e direttamente col teste la cui attendibilità va riesaminata e ciò, nel nuovo contraddittorio fra le parti, sulla prova, in parte qua, nuovamente costituenda , non bastando a questo scopo il mero riesame del già acquisito protocollo testimoniale. Ma ciò non toglie che la rivalutazione del precedente giudizio, ben può fondarsi su altre fonti di prova - in ipotesi - erroneamente apprezzate dal primo giudice, e che, in una ipotesi siffatta, la rinnovazione può essere ritenuta non necessaria, anche in riferimento alle prove richieste e poi non acquisite dal primo giudice perché ritenute manifestamente superflue. Si è infatti affermato, in più circostanze, _che il giudice di appello, per riformare in peius una sentenza di assoluzione, non è obbligato - in base all'articolo 6 CEDU, così come interpretato dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo del 5 luglio 2011, nel caso Dan c. Moldavia - alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale quando compie una diversa valutazione di prove non dichiarative, ma documentali. da ultimo, v. Sez. 2, numero 677 del 10/10/2014 - dep. 12/01/2015, Di Vincenzo, Rv. 261556 . Quanto, poi, alla sussistenza della scriminante putativa dell'esercizio del diritto, va rilevato che l'erronea supposizione circa l'esistenza di una causa di giustificazione non ha effetto scriminante se l'errore attiene all'esistenza o all'efficacia obbligatoria di una norma giuridica. Sez. 5, numero 38596 del 01/10/2008 - dep. 13/10/2008, P.G. in proc. Loyola e altri, Rv. 241954 . Né può ritenersi che l'eventuale error iuris rientri nel perimetro applicativo della sentenza della Corte cost. numero 364 del 1988, prospettato con riferimento ad una ipotesi che sarebbe stata ritenuta reato solo alla luce della più recente giurisprudenza, dal momento che, per un verso, non si tratta di un revirement giurisprudenziale o di una innovazione imprevedibile alla luce dei precedenti e che, comunque, anche la eventuale incertezza derivante da contrastanti orientamenti giurisprudenziali nell'interpretazione e nell'applicazione di una norma, non abilita da sola ad invocare la condizione soggettiva d'ignoranza inevitabile della legge penale al contrario, il dubbio sulla liceità o meno deve indurre il soggetto ad un atteggiamento più attento, fino cioè, secondo quanto emerge dalla sentenza 364 del 1988 della Corte Costituzionale, all'astensione dall'azione se, nonostante tutte le informazioni assunte, permanga l'incertezza sulla liceità o meno dell'azione stessa, dato che il dubbio, non essendo equiparabile allo stato d'inevitabile ed invincibile ignoranza, è inidoneo ad escludere la consapevolezza dell'illiceità. Fattispecie in tema di usura, nella quale la Suprema Corte, in difetto di un orientamento giurisprudenziale di legittimità che ritenesse illecita la prassi bancaria oggetto di contestazione in tema di determinazione del tasso soglia - emerso soltanto dopo lo svolgersi dei fatti - ha ritenuto che nessuna censura potesse essere posta a carico degli imputati, presidenti di banche . Sez. 2, numero 46669 del 23/11/2011 - dep. 19/12/2011, P.G. in proc. De Masi e altri, Rv. 252197 . Solo all'apparenza più suggestiva è la insistita deduzione circa la buona fede dell'imputata in ordine alla legittima origine dei beni posti i commercio ed alla assenza di connotazioni decettive circa l'uso dei marchi delle note case produttrici con le fuorvianti indicazioni circa la dichiarata falsità di autore . Sul punto, come è noto, la giurisprudenza di questa Corte si è espressa nel senso di ritenere che l'elemento psicologico della ricettazione può essere integrato anche dal dolo eventuale, che è configurabile in presenza della rappresentazione da parte dell'agente della concreta possibilità della provenienza della cosa da delitto e della relativa accettazione del rischio, non potendosi desumere da semplici motivi di sospetto, né potendo consistere in un mero sospetto. In motivazione, la Corte ha precisato che, rispetto alla ricettazione, il dolo eventuale è ravvisabile quando l'agente, rappresentandosi l'eventualità della provenienza delittuosa della cosa, non avrebbe agito diversamente anche se di tale provenienza avesse avuto la certezza . Sez. U, numero 12433 del 26/11/2009 - dep. 30/03/2010, Nocera, Rv. 246324 . Si è in particolare sottolineato che, perché possa ravvisarsi il dolo eventuale, si richiede più di un semplice motivo di sospetto, rispetto al quale l'agente potrebbe avere un atteggiamento psicologico di disattenzione, di noncuranza o di mero disinteresse è necessaria una situazione fattuale di significato inequivoco, che impone all'agente una scelta consapevole tra l'agire, accettando l'eventualità di commettere una ricettazione, e il non agire, perciò, richiamando un criterio elaborato in dottrina per descrivere il dolo eventuale, può ragionevolmente concludersi che questo rispetto alla ricettazione è ravvisabile quando l'agente, rappresentandosi l'eventualità della provenienza delittuosa della cosa, non avrebbe agito diversamente anche se di tale provenienza avesse avuta la certezza. Ebbene, nella specie, la sussistenza dell'elemento psicologico del reato, come puntualmente messo in luce dalle parti civili e dai giudici a quibus, non può non essere raccordata alle specifiche conoscenze maturate nel settore e dalle condizioni attraverso e mediante le quali le confezioni di profumo erano state acquistate e poste in vendita. L'imputata, infatti, era una operatrice professionale nel settore specifico della vendita di articoli di profumeria, e ciò presupponeva una particolare esperienza, non soltanto nella conoscenza delle marche dei prodotti posti in vendita e delle relative caratteristiche merceologiche, quanto, e soprattutto, in ordine alla specifica e penetrante tutela giuridica che circonda il marchio e i diritti di privativa, con la conseguenza che l'uso non autorizzato dei titolari dei marchi non poteva non essere apprezzato come fatto illecito, in capo a chi era professionalmente avvezzo ad operare gli acquisti attraverso la rete dei distributori a ciò legittimati. In tale quadro di riferimento non può, dunque, non rappresentare elemento fortemente denotativo del dolo la circostanza che l'imputata si fosse nel frangente rivolta ad una più o meno sconosciuta ditta campana, certo non autorizzata dai titolari dei marchi contraffatti a vendere prodotti che riproducevano quei marchi, con le caratteristiche - indubbiamente decettive - di cui si è detto. Non è senza significato, d'altra parte, che, in tema di errore inescusabile, questa Corte non abbia mancato di sottolineare come la scusabilità dell'ignoranza della legge penale - pure evocata dalla ricorrente - può essere invocata dall'operatore professionale di un determinato settore solo ove dimostri, da un lato, di aver fatto tutto il possibile per richiedere alle autorità competenti i chiarimenti necessari e, dall'altro, di essersi informato in proprio, ricorrendo ad esperti giuridici, così adempiendo il dovere di informazione. In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto inescusabile l'ignoranza, da parte del titolare di uno stabilimento di depurazione e stabulazione di molluschi, delle procedure di rinnovo delle concessioni demaniali marittime, invocata per l'asserita farraginosità della disciplina tale da giustificare l'emanazione di una norma di interpretazione autentica, nonché per la difficoltà di reperire corrette informazioni sul trasferimento di competenze alla Regione . Sez. 3, numero 35694 del 05/04/2011 - dep. 03/10/2011, Pavanati, Rv. 251225 Quanto alle doglianze relative alla liquidazione delle spese in favore delle parti civili, le censure concernenti il preteso vizio di motivazione sono inconsistenti, avendo questa Corte più volte affermato che la ricorribilità per cassazione per vizio di motivazione del punto della sentenza relativa alla condanna alla rifusione delle spese di parte civile, è da ritenersi ammessa solo a condizione che siano indicate, anche in modo sommario, le ragioni di illegittimità della liquidazione e le violazioni dei limiti tariffari relativi alle attività difensive svolte dal patrono di parte civile. Fattispecie in cui la Corte ha dichiarato inammissibile un ricorso che - a fronte di motivazione di condanna alle spese redatta con riferimento al contenuto di una nota presentata per altre parti civili, aventi la medesima posizione processuale - si era limitato a contestare l'analogia delle posizioni, senza motivare tale assunto né fornire elementi a sostegno della pretesa erroneità della liquidazione . Sez. 5, numero 9744 del 12/12/2014 - dep. 05/03/2015, Bertolucci, Rv. 263099 . Del pari infondata è la doglianza relativa al fatto che siano stati applicati i criteri di cui al decreto ministeriale numero 55 del 2014 anche alle spese relative al giudizio di primo grado, dal momento che applicandosi le disposizioni di quella normativa «alle liquidazioni successive alla sua entrata in vigore», secondo quanto previsto dall'articolo 28, è proprio il momento della liquidazione, e non quello in cui il diritto è maturato, a rappresentare il discrimine temporale che segna il regime intertemporale di applicabilità della relativa disciplina. Deve infine essere respinta la richiesta formulata dal difensore in udienza relativa alla applicazione dell'articolo 131-bis cod. penumero al reato di cui all'articolo 474 cod. penumero o, in subordine, l'annullamento con rinvio della sentenza sul punto. Anche a voler prescindere, infatti, dalla fin tropo problematica iscrivibilità del tema relativo alla applicazione della nuova causa personale di non punibilità introdotta dal d. lgs. 16 marzo 2015, numero 28 nel giudizio dì cassazione - attesa la mancanza di una disciplina transitoria - è assorbente rilevare che la nuova causa di non punibilità è assoggettata al doppio limite di legge rappresentato, da un lato, dalla particolare tenuità della offesa e, dall'altro, dalla condotta non abituale, intendendosi per tale il comportamento di chi non abbia commesso «più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità», e sempre che non si tratti di «reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate». Sul versante, dunque, della condotta, la causa di non punibilità - che ontologicamente presuppone la sussistenza di tutti i requisiti, soggettivi ed oggettivi, della fattispecie incriminatrice e la relativa carica di offensività, ma che per il modesto rilievo della lesività in concreto rende alla stregua di una valutazione legale tipica incongrua l'applicazione della pena, secondo la prospettiva additata dall'articolo 27, terzo comma, Cost. - non deve presentare i connotati di abitualità, pluralità di condotte simili o reiterazione di fatti analoghi, anche a prescindere dalla struttura abituale o a condotta plurima ovvero in continuazione della fattispecie incriminatrice che venga in considerazione. Ebbene, alla luce di siffatti requisiti, emerge all'evidenza come l'ipotesi di specie non possa essere in alcun modo ricondotta nel perimetro applicativo della nuova disposizione, giacché, alla luce dello stesso capo di imputazione, la condotta dell'imputata appare senz'altro non estemporanea e isolata ma anzi connotata da abitualità, mentre - tenuto conto del notevole quantitativo e varietà di confezioni detenute per la vendita - l'offesa al bene protetto non può in alcun modo reputarsi di «particolare tenuità» locuzione, quest'ultima, che, evidentemente, evoca un fatto qualitativamente e quantitativamente di modestissimo risalto. Al rigetto del ricorso segue la condanna della percorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso_ e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.