Certificazioni tardive, lavoro anche nell’ottavo mese di gravidanza: salvi i cinque mesi di indennità di maternità

Nessuna possibilità, per l’INPS, di operare una riduzione arbitraria dell’indennità, perché il periodo dei 5 mesi di astensione obbligatoria dal lavoro non è in discussione. Acclarata la flessibilità nello ‘spalmare’ quei 60 giorni di stop, la donna che lavora anche nell’ottavo mese di gravidanza può usufruire dell’astensione sino al quarto mese successivo, con relativa copertura dell’INPS.

5 mesi garantiti totem assolutamente indiscutibile per tutelare le lavoratrici in gravidanza. Ecco perché l’azione, messa in atto dall’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, di ridurre l’indennità a 4 mensilità è da annullare ab origine. Anche se, come in questo caso, la documentazione è stata presentata in ritardo Cassazione, sentenza numero 10180/2013, Sezione Lavoro, depositata oggi . Flessibilità. Netto, e sfavorevole all’INPS, già il giudizio di Tribunale e Corte d’Appello, che hanno ‘reintegrato’ la «indennità di maternità» a favore di una lavoratrice, riportandola alla quota prevista di 5 mensilità. E a questa visione viene data ulteriore forza anche in Cassazione, laddove il ricorso dell’Istituto è respinto in via definitiva. Riferimento fondamentale, per i giudici, è, guardando al ‘Testo unico su maternità e paternità’, la «flessibilità del congedo di maternità», che consente alla lavoratrice di ‘gestire’ i 5 mesi di «astensione obbligatoria», prevedendo «la facoltà di astenersi dal lavoro a partire dal mese precedente la data presunta del parto e nei 4 mesi successivi al parto». Sempre che, è ovvio, siano garantite la salute della donna e quella del nascituro. Esiste, quindi, è chiaro, «la possibilità di far slittare il periodo di astensione dal lavoro». E se, come in questa vicenda, «il certificato» venga presentato oltre il termine del settimo mese, allora «la lavoratrice, che aveva continuato a lavorare nell’ottavo mese, usufruirà dell’astensione sino al quarto mese successivo alla nascita, percependo dall’INPS la relativa indennità». Nessuna possibilità, quindi, di toccare il totem dei «5 mesi». Perché, chiariscono i giudici, «la mancata presentazione preventiva delle certificazioni comporta che il lavoro nell’ottavo mese» è sì «in violazione del divieto di legge, con le conseguenze previste dal ‘Testo unico’» ma «non comporta conseguenze sulla misura della indennità di maternità». Ciò comporta che «la riduzione della indennità, da 5 mesi a complessivi a 4 mesi», operata in questa vicenda dall’INPS, «non ha fondamento legislativo e si risolve in una sanzione, a carico della lavoratrice, estranea alle regole ed alle finalità della normativa a tutela delle lavoratrici madri».

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 20 marzo - 30 aprile 2013, numero 10180 Presidente Roselli – Relatore Curzio Ragioni della decisione 1. L’INPS ha corrisposto alla signora L.comma 1’indennità di maternità per l’astensione obbligatoria dal lavoro, ma ha detratto una parte della somma, relativa al quarto mese successivo al parto, sostenendo che la lavoratrice non poteva fruire del c.d. periodo flessibile di maternità. 2. Tanto il Tribunale di Lucca e la Corte d’appello di Firenze hanno dato torto all’Istituto, accogliendo il ricorso della lavoratrice. 3. L’INPS ricorre per cassazione denunziando violazione degli articolo 16 e 20 del t.u. in materia di maternità e della paternità. La lavoratrice non si è difesa. 4. Il ricorso non è fondato. 5. In base all’articolo 16 del testo unico sulla maternità e la paternità decreto legislativo 26 marzo 2001, numero 151 l’astensione obbligatoria dal lavoro, in caso di gravidanza, riguarda i due mesi precedenti la data presunta del parto ed i tre mesi successivi alla nascita. 6. L’articolo 20 del medesimo testo unico, intitolato “flessibilità del congedo di maternità”, consente una deroga. La norma così recita “Ferma restando la durata, complessiva del congedo di maternità, le lavoratrici hanno la facoltà di astenersi dal lavoro a partire dal mese precedente la data presunta del parto e nei quattro mesi successivi al parto, a condizione che il medico specialista del Servizio sanitario nazionale o con esso convenzionato e il medico competente ai fini della prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro attestino che tale opzione non arrechi pregiudizio alla salute della gestante e del nascituro”. 7. La norma prevede quindi la possibilità di far slittare il periodo di astensione dal lavoro, lavorando sino ad un mese prima del parto, ma astenendosi dal lavoro comunque per cinque mesi complessivi. Tale facoltà è sottoposta alla Omissis sanzione dell’articolo 18, sempre che chi adibisce la donna al lavoro sia consapevole dello stato di gravidanza. 15. Le regole e le sanzioni sono queste. Non ne sono previste altre. Tanto meno sono previste sanzioni a carico della lavoratrice, che è destinataria della tutela, non delle sanzioni. 16. Se accade, come nel caso in esame, che il certificato venga presentato oltre il settimo mese e la lavoratrice abbia continuato a lavorare, il datore di lavoro, salve le sue eventuali responsabilità di natura penale, dovrà corrisponderle la retribuzione e quindi l’INPS non corrisponderà la indennità di maternità per l’ottavo mese di gravidanza. Se la certificazione viene nelle more acquisita, la lavoratrice che aveva continuato a lavorare nell’ottavo mese usufruirà dell’astensione sino al quarto mese successivo alla nascita, percependo dall’INPS la relativa indennità. Il periodo complessivo di cinque mesi non è disponibile. 17. La mancata presentazione preventiva delle certificazioni comporta che il lavoro nell’ottavo mese è in violazione del divieto di legge con le conseguenze previste dal testo unico, ma non comporta conseguenze sulla misura della indennità di maternità. 18. La riduzione della indennità da cinque mesi complessivi a quattro che l’INPS ha ritenuto di operare, non ha fondamento legislativo e si risolve in una sanzione, a carico della lavoratrice, estranea alle regole ed alle finalità della normativa a tutela delle lavoratrici madri. 19. Per tali ragioni il ricorso dell’INPS deve essere rigettato. Nulla sulle spese perché l’intimata non ha svolto attività difensiva. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Nulla sulle spese.