Addio alle ‘annunciatrici’, lei passa dietro una scrivania: risarcita dalla Rai

Condanna definitiva per l’azienda, destinataria degli strali di una dipendente, assunta come ‘annunciatrice’ e andata in onda, per diverso tempo, come conduttrice del telegiornale di ‘Rai 3’. Fatale la decisione di cancellare la figura dell’‘annunciatrice’ e di collocare la dipendente dietro una scrivania, togliendole le originarie mansioni e impoverendone il bagaglio professionale.

Volto storico del telegiornale di Rai 3, in qualità di annunciatrice. Poi, all’improvviso, il passaggio dietro una scrivania, con l’addio allo schermo e alle case degli italiani. Evoluzione, anzi involuzione, di carriera difficile da digerire per una dipendente di ‘mamma Rai’ Ecco spiegato il lungo conflitto con l’azienda, conflitto chiuso ora, in via definitiva, con una netta vittoria della lavoratrice, la quale dovrà ricevere ben 110mila euro come risarcimento per il demansionamento subito Cassazione, sentenza numero 12253, sez. Lavoro, depositata il 12 giugno 2015 . Dallo schermo alla scrivania Sul tavolo, nella battaglia con la Rai, il curriculum professionale di una donna, «assunta in qualità di ‘annunciatrice’ ed assegnata, dal gennaio 1992, alla redazione giornalistica del Tg3 nazionale, con vari compiti» e poi, a partire da marzo 1999, «rimossa dall’incarico e posta in situazione di inoperosità, a parte poche decine di minuti di ‘annunci’». A completare il quadro, infine, a novembre 1999, «la modifica della qualifica da ‘annunciatore’ ad ‘aiuto regista - assistente alla regia’», con «assegnazione al Centro di produzione di Roma», e da marzo 2000 il passaggio al «Centro di produzione televisiva», però, lamenta la lavoratrice, «senza che le venisse richiesta la benché minima prestazione lavorativa», limitandosi l’azienda «ad esigere la mera presenza fisica». Tutto chiarissimo, secondo i giudici d’appello, i quali, con visione opposta a quella del Tribunale, ritengono cristallina «l’illegittimità del provvedimento di assegnazione a mansioni inferiore» a partire da marzo 1999. In sostanza, «il mutamento di mansioni» non ha consentito alla «‘annunciatrice’ di mantenere il bagaglio professionale raggiunto, con particolare riferimento alla presenza in video e al fattivo contributo alla realizzazione del programma, che, pur non integrando gli estremi del lavoro giornalistico, certamente rientra nello sviluppo di capacità professionali, tipico di una carriera lavorativa». Ciò conduce ad accogliere la «richiesta di risarcimento» della lavoratrice, a cui, secondo i giudici, l’azienda dovrà versare ben 110mila euro. Lesa professionalità. E ora, nel contesto della Cassazione, nonostante le obiezioni mosse dai legali della Rai – e centrate soprattutto sulla «soppressione della figura della ‘annunciatrice’» –, viene confermata la concretezza del «demansionamento» lamentato dalla lavoratrice. Rilevante, in particolare, la «sostanziale inoperosità» forzata della lavoratrice, alla luce della «privazione di compiti di rilievo, quali la presenza in video e il contributo fattivo alla realizzazione del programma». Non è discutibile, per i giudici del ‘Palazzaccio’, l’«assegnazione» della lavoratrice «a mansioni inferiori». E ciò costituisce «fatto idoneo a produrre una pluralità di conseguenze dannose, sia di natura patrimoniale che di natura non patrimoniale», anche tenendo presente che «quel complesso di capacità e di attitudini, definibile con il termine ‘professionalità’, è, di certo, bene economicamente valutabile, posto che esso rappresenta uno dei principali parametri per la determinazione del valore di un dipendente sul mercato del lavoro», e, peraltro, «la modifica in peius delle mansioni è potenzialmente idonea a determinare un pregiudizio a beni di natura immateriale, anche ulteriori rispetto alla salute». Riferimento ulteriore, in questo contesto, aggiungono i giudici, è il «riconoscimento costituzionale della personalità morale e della dignità del lavoratore», da cui deriva «il diritto fondamentale al pieno ed effettivo dispiegamento del suo professionalizzarsi, espletando le mansioni che gli competono». Tornando a bomba, ossia alla vicenda vissuta dalla lavoratrice, pare evidente, anche per i giudici del ‘Palazzaccio’, «il danno» alla sua «professionalità», alla luce delle «modalità del demansionamento» e del «suo perdurare nel tempo». In sostanza, «il divario rispetto ai compiti in precedenza assolti, sconfinante nella totale erosione delle funzioni», e la «durata della dequalificazione, con un deupaperamento che si aggrava con il decorso del tempo», rendono «plausibile il convincimento circa l’esistenza di un danno inferto alla professionalità della lavoratrice», visto e considerato che «la duratura assegnazione a mansioni non equivalenti» le ha impedito di «esercitare il quotidiano diritto di professionalizzarsi lavorando, cagionando il progressivo impoverimento del suo bagaglio di conoscenze e di esperienze, con pregiudizi attinenti allo svolgimento della vita professionale». Consequenziale la decisione di confermare, in via definitiva, il «risarcimento» riconosciuto alla storica ‘annunciatrice’ del telegiornale di Rai 3.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 17 marzo – 12 giugno 2015, numero 12253 Presidente Macioce – Relatore Amendola Svolgimento del processo 1. Con ricorso al Tribunale di Roma L.U., premesso di esser dipendente della RAI assunta in qualità di annunciatrice ed assegnata dal gennaio 1992 alla Redazione giornalistica del Telegiornale 3 Nazionale o TG3 con vari compiti, esponeva che in data 21 marzo 1999 era stata rimossa dall'incarico e posta in situazione di assoluta inoperosità, a parte poche decine di minuti di annunci che, con nota del 4 novembre 1999, le era stata comunicata l'assegnazione al Centro di Produzione di Roma e la modifica della qualifica da annunciatore di 1° livello classe numero 1 ad aiuto regista-assistente alla regia di 3° livello classe numero 5 , con mantenimento ad personam dell'inquadramento in classe di retribuzione numero 1 che dal marzo 2000 era stata collocata presso il Centro di Produzione TV senza che le venisse richiesta la benché minima prestazione lavorativa, limitandosi la RAI ad esigere la mera presenza fisica nei locali/studi aziendali. Pertanto chiedeva per quanto qui ancora rileva dichiararsi la illegittimità/nullità dei provvedimento/comportamento con cui la RAI, a partire dal 22.3.99, ha rimosso la ricorrente dalle sue mansioni lavorative, riducendola e mantenendola inoltre e di poi del tutto inoperosa , con condanna della datrice di lavoro al risarcimento del danno sino al ripristino della situazione originaria o in posizione lavorativa equivalente. La Corte di Appello di Roma, in riforma della pronuncia di rigetto del giudice di primo grado, con sentenza non definitiva numero 7484 depositata il 7 marzo 2006, dichiarava l'illegittimità del provvedimento di assegnazione a mansioni inferiori del 22 marzo 1999 ed ordinava alla RAI di adibire la U. alle mansioni precedentemente espletate o ad altre equivalenti inoltre condannava l'azienda al risarcimento del danno pari alla metà delle retribuzioni mensili dovute, in relazione all'inquadramento come annunciatrice dal di del demansionamento 22.3.99 , da quantificarsi a mezzo di consulenza tecnica d'ufficio disposta con il prosieguo del giudizio. All'esito, con sentenza definitiva numero 4769 dell'8 novembre 2007, la Corte liquidava il danno per i medesimi titoli già accertati nella somma di euro 96.882,21 rivalutata ad oggi in euro 110.000,00 oltre interessi a decorrere da oggi sino al soddisfo . La Corte territoriale ha ritenuto che per stessa ammissione di parte appellata non vi è corrispondenza tra livello di appartenenza e livello cui appartengono le mansioni di aiuto regista assistente alla regia di 3° livello come peraltro dimostrato anche dal mantenimento ad personam della classe retributiva posseduta in precedenza , essendo quest'ultimo certamente inferiore e che non vi può esser dubbio che il mutamento di mansioni non consentisse alla U. di mantenere il bagaglio professionale raggiunto nello svolgimento di attività di annunciatrice, con particolare riferimento alla presenza in video e al fattivo contributo alla realizzazione dei programma che, pur non integrando gli estremi dei lavoro giornalistico, certamente rientra nello sviluppo di capacità professionali, tipico di una carriera lavorativa . Circa le domande risarcitorie i giudici distrettuali, richiamandosi alla giurisprudenza della Suprema Corte secondo cui è ammissibile una liquidazione dei danno su basi equitative tenuto conto di presunzioni semplici o anche di elementi acquisiti agli atti, hanno stimato equo, in relazione alle modalità del demansionamento, al suo perdurare nel tempo, alla avvenuta adibizione a mansioni non rientranti nel livello di appartenenza , determinare il danno alla professionalità subito dalla U. in una misura pari alla metà della retribuzioni dovute dal demansionamento , poi quantificate a mezzo CTU. 2. Con ricorso del 7 novembre 2008 la RAI Radiotelevisione Italiana Spa ha domandato la cassazione della sentenza per sette motivi. Ha resistito con controricorso l'intimata. Entrambe le parti hanno depositato memorie ex articolo 378 C. p. C Motivi della decisione 3. II Collegio giudica il ricorso non meritevole di accoglimento per le ragioni di seguito esposte. 4. Con il primo motivo di ricorso principale si denuncia carenza o contraddittorietà della motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo costituito dall'illegittimità o meno del provvedimento della RAI del 22 marzo 1999 alla luce delle circostanze di fatto relative alla progressiva soppressione della posizione mansionistica degli annunciatori. Con il secondo mezzo si denuncia violazione e falsa applicazione dell'articolo 2103 c.c. interrogando la Corte sul “se integri o meno un vizio di violazione o falsa applicazione dell'articolo 2103 c.c. la sentenza d'appello che, in presenza di una situazione di fatto tale da evidenziare un processo di graduale soppressione delle mansioni proprie della qualifica di appartenenza del lavoratore, ometta di considerare la possibilità che tale situazione determini un affievolimento del diritto del ricorrente all'attribuzione di mansioni equivalenti, sancito dall'articolo 2103 c.c., con la conseguente legittimità dell'esercizio dello ius variandi in tal caso . I due motivi, che per logica connessione possono essere scrutinati congiuntamente, sono infondati. Secondo l'articolo 2103, co. 1, c.c., il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto . ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte . II disposto è violato, avuto riguardo alla libertà ed alla dignità del lavoratore nei luoghi in cui presta la sua attività ed al sistema di tutela del suo bagaglio professionale, quando il dipendente venga assegnato a mansioni inferiori. Si tratta di protezione tradizionalmente intesa come di contenuto inderogabile v. Cass. numero 25897 del 2009 Cass. numero 8835 del 1991 , rispetto alla quale il secondo comma dell'articolo 2103 c.c. sancisce la nullità di ogni patto contrario. Possibili deroghe al divieto di reformatio in peius delle mansioni sono espressamente previste dalla legge. Come nel caso dell'articolo 4, co. 11, I. numero 223 dei 1991, secondo il quale gli accordi sindacali stipulati nel corso delle procedure di mobilità, al fine di garantire il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori ritenuti eccedenti, possono stabilire l'assegnazione dei lavoratori esuberanti, in deroga al secondo comma dell'articolo 2103 c.c., a mansioni diverse e quindi anche inferiori in tal senso, da ultimo, Cass. numero 14994 del 2014 . Parimenti l'articolo 4, co. 4, 1. numero 68 del 1999 ammette l'adibizione a mansioni inferiori per il lavoratore divenuto inabile in conseguenza di infortunio o malattia, al fine di evitare il licenziamento e nel caso in cui non possa essere adibito a mansioni equivalenti. Ancora l'articolo 7, co. 5, d.lgs. numero 151 del 2001, in materia di tutela della maternità, prevede che possa essere adibita a mansioni inferiori a quelle abituali la lavoratrice in gravidanza nel caso in cui quelle di assunzione siano ricomprese tra le mansioni a rischio o comunque interdette in relazione al peculiare stato della dipendente. Anche la giurisprudenza di questa Corte, sin da Sezioni unite numero 7755 del 7 agosto 1998, ha ritenuto che la sopravvenuta infermità permanente e la conseguente impossibilità della prestazione lavorativa oggetto del contratto possono giustificare oggettivamente il recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato, ai sensi della L. numero 604 del 1966, articolo 1 e 3 normativa specifica in relazione a quella generale dei contratti sinallagmatici di cui agli arti. 1453, 1455, 1463 e 1464 se risulti ineseguibile non soltanto l'attività svolta in concreto dal prestatore, ma se è esclusa anche la possibilità, alla stregua di un'interpretazione del contratto secondo buona fede, di svolgere altra attività riconducibile alle mansioni assegnate o ad altre equivalenti ai sensi dell'articolo 2103 e, persino, in difetto di altre soluzioni, a mansioni inferiori conforme Cass. numero 15500 dei 2009 . Nella medesima prospettiva di tutela dell'interesse del lavoratore al mantenimento dei posto di lavoro, prevalente rispetto a quello garantito dall'articolo 2013 c.c., questa Corte da tempo è orientata a riconoscere la validità del cd. patto di demansionamento fra le tante, Cass. numero 6822 del 1992 Cass. numero 9386 del 1993 Cass. numero 4790 del 2004 sempre che vi sia il consenso dei lavoratore non affetto da vizi della volontà e sussistano le condizioni che avrebbero legittimato il licenziamento in mancanza dell'accordo Cass. numero 2375 del 2005 . Al di fuori di tali ipotesi non sussiste, come preteso da parte ricorrente, un principio generale in base al quale, in caso di soppressione delle mansioni proprie della qualifica di appartenenza del lavoratore, si determini un affievolimento del diritto garantito dall'articolo 2103 c.c In proposito occorre ribadire, come già affermato da questa Corte Cass. numero 1575 del 2010 , che certamente la soppressione delle mansioni proprie della qualifica di appartenenza può giustificare l'esercizio dello ius variandi tuttavia, quali che siano le ragioni della modifica delle mansioni tanto nel caso in cui le mansioni originarie siano assegnate ad altro dipendente, che nel caso in cui le stesse siano esaurite , lo spostamento del lavoratore ad altre mansioni deve attenersi alla regola della equivalenza tutt'altro problema è costituito dalla eventuale mancanza di soluzioni in tal senso e quindi della necessità di estinguere il rapporto di lavoro o, in via alternativa, adibire il lavoratore a mansioni inferiori . Nella specie un tale problema di mancanza di alternative non si è posto, sicchè, fermo l'esercizio discrezionale dello ius varíandi datoriale ed a prescindere dalle ragioni che lo avevano determinato, esso era soggetto al giudizio di equivalenza delle mansioni di destinazione rispetto a quelle originarie. 5. Con il terzo motivo si lamenta ancora carenza o contraddittorietà di motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo in quanto la sentenza impugnata avrebbe omesso di considerare l'allegazione, non contestata, della RAI in ordine alle mansioni di nuova assegnazione alla U Nel caso di motivo ex articolo 360, co. 1, numero 5, c.p.c., in ipotesi di sentenze impugnate nella vigenza dell'articolo 366 bis c.p.c., esso deve essere concluso da un momento di sintesi o di riepilogo, a pena di inammissibilità. Si è infatti affermato che, per le doglianze di vizio di motivazione, occorre la formulazione con articolazione conclusiva e riassuntiva di uno specifico passaggio espositivo del ricorso di un momento di sintesi o di riepilogo v. Cass. numero 16002 del 2007 SS.UU, numero 20603 del 2007 Cass. numero 27680 del 2009 , il quale indichi in modo sintetico, evidente ed autonomo rispetto al tenore testuale del motivo, il fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, come pure se non soprattutto le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione tale requisito non può ritenersi rispettato quando solo la completa lettura dell'illustrazione del motivo all'esito di una interpretazione svolta dal lettore, anziché su indicazione della parte ricorrente consenta di comprendere il contenuto ed il significato delle censure da ultimo, Cass. numero 12248 del 2013 . Nella specie il momento di sintesi o di riepilogo, con enucleazione dei fatto decisivo controverso, manca radicalmente. 6. Con il quarto motivo si denuncia ancora violazione dell'articolo 2103 c.c. e si chiede alla Corte se violi o applichi falsamente al caso di specie la norma dell'articolo 2103 c.c. la sentenza d'appello che, con riferimento al caso di un lavoratore privato di due aspetti dei suo più ampio bagaglio mansionistico ritenga per ciò stesso integrata una dequalificazione . La doglianza non può essere condivisa. Per pacifica giurisprudenza di legittimità, la verifica del legittimo esercizio dello íus varíandi da parte del datore di lavoro compete al giudice di merito – con giudizio di fatto incensurabile in cassazione ove adeguatamente motivato valutando l'omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente cfr., da ultimo, Cass. numero 17624 del 2014 tra le molte, Cass. numero 25033 del 2006, Cass. numero 10091 del 2006 . Nel caso che ci occupa la Corte romana, accogliendo una domanda in cui era stata dedotta una sostanziale inoperosità della lavoratrice, ha adeguatamente motivato il suo giudizio, atteso che la pertinenza delle mansioni di destinazione di aiuto regista-assistente alla regia ad un livello contrattuale non corrispondente a quello di appartenenza e la privazione di compiti di rilievo, quali la presenza in video ed il contributo fattivo alla realizzazione del programma , possono costituire sintomo sufficiente a formare il convincimento del giudice dei merito circa l'assegnazione a mansioni inferiori. 7. Con la quinta censura si eccepisce violazione o falsa applicazione degli articolo 1218, 1223 e 2697 c.c., in relazione all'articolo 2103 c.c., per avere la sentenza impugnata affermato la sussistenza di un danno risarcibile, in presenza di un fatto di dequalificazione, senza previamente verificare l'esistenza di allegazioni, ad opera dei lavoratore ricorrente, di fatti di perdita di utilità personali o patrimoniali di vita, quali derivanti dalla lamentata dequalificazione. Con il sesto motivo si denuncia carenza o contraddittorietà della motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo non avendo la Corte verificato l'esistenza o meno di idonee allegazioni della ricorrente sui fatti costitutivi della domanda risarcitoria. I motivi, esaminabili contestualmente in quanto attengono al risarcimento del danno riconosciuto nella sentenza impugnata, risultano infondati. 7.1. L'assegnazione a mansioni inferiori pacificamente rappresenta fatto potenzialmente idoneo a produrre una pluralità di conseguenze dannose, sia di natura patrimoniale che di natura non patrimoniale. Innanzi tutto l'inadempimento datoriale può comportare un danno da perdita della professionalità di contenuto patrimoniale che può consistere sia nell'impoverimento della capacità professionale dei lavoratore e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare, sia nel pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali tra le altre v. Cass. numero 11045 del 2004 Cass. numero 14199 del 2009 . Invero la violazione dell'articolo 2103 c.c. può pregiudicare quel complesso di capacità e di attitudini definibile con il termine professionalità, che è di certo bene economicamente valutabile, posto che esso rappresenta uno dei principali parametri per la determinazione del valore di un dipendente sul mercato del lavoro. Inoltre la modifica ín peius delle mansioni e potenzialmente idonea a determinare un pregiudizio a beni di natura immateriale, anche ulteriori rispetto alla salute, atteso che, nella disciplina del rapporto di lavoro, numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata del lavoratore, con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, con la configurabilità di una danno non patrimoniale risarcibile ogni qual volta vengano violati, superando il confine dei sacrifici tollerabili, diritti della persona del lavoratore oggetto di peculiare tutela al più alto livello delle fonti. Infatti questa Corte, a Sezioni unite sent. nnumero 26972, 26973, 26974, 26975 dell'i1 novembre 2008 , dichiarando risarcibile il danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale che determini, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona, ha considerato che l'esigenza di accertare se, in concreto, il contratto tenda alla realizzazione anche di interessi non patrimoniali, eventualmente presidiati da diritti inviolabili della persona, viene meno nel caso in cui l'inserimento di interessi siffatti nel rapporto sia opera della legge, come appunto nel caso del contratto di lavoro, da considerare ipotesi di risarcimento dei danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista. Lo stesso Collegio dedica adeguato rilievo alla dignità personale del lavoratore che, in riferimento agli articolo 2, 4 e 32 della Costituzione, costruisce come diritto inviolabile descrive quale lesione di tale diritto proprio i pregiudizi alla professionalità da dequalificazione, che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall'impresa . Dunque dal riconoscimento costituzionale della personalità morale e della dignità del lavoratore deriva il diritto fondamentale di questi al pieno ed effettivo dispiegamento dei suo professionalizzarsi espletando le mansioni che gli competono la lesione di tale posizione giuridica soggettiva ha attitudine generatrice di danni a contenuto non patrimoniale, in quanto idonea ad alterare la normalità delle relazioni dei lavoratore con il contesto aziendale in cui opera, del cittadino con la società in cui vive, dell'uomo con se stesso. Quanto alla liquidazione di tali danni, la non patrimonialità per non avere il bene persona un prezzo del diritto leso, comporta che, diversamente da quello patrimoniale, il ristoro pecuniario del danno non patrimoniale non può mai corrispondere alla relativa esatta commisurazione, imponendosene pertanto la valutazione equitativa, anche attraverso il ricorso alla prova presuntiva, che potrà costituire pure l'unica fonte di convincimento del giudice ancora Cass. SS.UU. numero 26972/2008 cit. . 7.2. Chiarita l'astratta potenzialità lesiva dell'assegnazione a mansioni inferiori ad opera dei datore di lavoro, si è precisato che la produzione di siffatti pregiudizi è soltanto eventuale dall'inadempimento datoriale non deriva automaticamente l'esistenza di un danno, il quale non è immancabilmente ravvisabile solo in ragione della potenzialità lesiva dell'atto illegittimo Cass. SS.UU. numero 6572 del 2006 . Fermi gli oneri di allegazione e di prova gravanti su chi denuncia di aver subito il pregiudizio, compete tuttavia al giudice di merito non solo ogni accertamento e valutazione di fatto circa la concreta sussistenza e la individuazione della specie dei danno, ma anche la sua liquidazione in ipotesi anche equitativa sindacabile, in sede di legittimità, soltanto per vizio di motivazione in tal senso, v. Cass. numero 14199 del 2001 altresì Cass. numero 9138 del 2011, Cass. numero 2352 del 2010, Cass. numero 10864 del 2009, Cass. numero 5333 del 2003 Cass. numero 10268 dei 2002 Cass. numero 18599 del 2001, Cass. numero 104 del 1999 . I criteri di valutazione equitativa, la cui scelta ed adozione è rimessa alla prudente discrezionalità del giudice, debbono consentire una valutazione che sia adeguata e proporzionata v. Cass. numero 12408 del 2011 , in considerazione di tutte le circostanze concrete dei caso specifico, al fine di ristorare il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato e permettere la personalizzazione del risarcimento v. Cass. SS.UU. numero 26972/2008 cit. Cass. numero 7740 del 2007 Cass. numero 13546 del 2006 . Essendo la liquidazione dei quantum dovuto per il ristoro del danno non patrimoniale inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimazione, si esclude che l'esercizio del potere equitativo dei giudice di merito possa di per sé essere soggetto a controllo in sede di legittimità, se non in presenza di totale mancanza di giustificazione che sorregga la statuizione o di macroscopico scostamento da dati di comune esperienza o di radicale contraddittorietà delle argomentazioni cfr. Cass. numero 12918 del 2010 Cass. numero 1529 dei 2010 conforme, più di recente, Cass. numero 18778 dei 2014 . In particolare, in tema di dequalificazione, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza dei danno, determinandone anche l'entità in via equitativa, con processo logico giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze dei caso concreto cfr., ex plurimis, Cass. numero 19778 del 2014 Cass. numero 4652 del 2009 Cass. numero 28274 del 2008 Cass. SS.UU numero 6572/2006 cit. . 7.3. Nella specie la sentenza impugnata, seppur sinteticamente, indica gli elementi di fatto in base ai quali ha ritenuto accertato un danno alla professionalità, avuto riguardo alle modalità dei demansionamento ed al suo perdurare nel tempo. Invero il divario rispetto ai compiti in precedenza assolti dalla U., sconfinante nella totale erosione delle funzioni, unitamente alla durata della dequalificazione, con un depauperamento che si aggrava vieppiù con il decorso del tempo, rendono plausibile il convincimento espresso dal giudice dei merito circa l'esistenza di un danno inferto alla professionalità della lavoratrice, atteso che la duratura assegnazione a mansioni non equivalenti ha impedito alla stessa di esercitare il quotidiano diritto di professionalizzarsi lavorando, cagionando, secondo un criterio eziologico di normalità sociale, il progressivo impoverimento del suo bagaglio di conoscenze e di esperienze, con pregiudizi -per dirla con le parole di SS.UU. numero 26972/2008 citata attinenti allo svolgimento della vita professionale del lavoratore . La Corte di Appello ha poi liquidato il danno medesimo stimando equo commisurarlo alla metà delle retribuzioni dovute per il periodo del demansionamento. Già questa Corte ha giudicato non privo di concretezza il ricorso in via parametrica alla retribuzione per la determinazione in termini quantitativi del danno da violazione dell'articolo 2103 c.c., posto che, indubbiamente, non può negarsi che elemento di massimo rilievo nella determinazione della retribuzione è il contenuto professionale delle mansioni sicché essa costituisce, in linea di massima, espressione per qualità e quantità, ai sensi dell'articolo 36 della Costituzione anche dei contenuto professionale della prestazione l'entità della retribuzione ben può, dunque, essere assunta, nell'ambito di una valutazione necessariamente equitativa, a parametro dei danno da impoverimento professionale derivato dall'annientamento delle prestazioni proprie della qualifica Cass. numero 9228 del 2001 cfr. pure Cass. numero 7967 del 2002 e Cass. numero 835 del 2001 . In definitiva si tratta di un percorso motivazionale che, senza discostarsi da dati di comune esperienza e non palesando radicale contraddittorietà delle argomentazioni, sorregge a sufficienza l'esercizio del potere discrezionale di valutazione equitativa, idoneo a precludere la cassazione della sentenza impugnata sulla base delle censure che parte ricorrente muove. 8. Con il settimo motivo si deduce ancora carenza o contraddittorietà della motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo rappresentato dalla determinazione della somma di spettanza della U. a titolo di risarcimento dei danno. Ci si duole che il giudice dei merito abbia quantificato il danno sulla scorta di una consulenza tecnica d'ufficio che aveva computato nelle retribuzioni da utilizzare come parametro anche i ratei del trattamento di fine rapporto. Si lamenta che, nonostante la società avesse criticato anche il supplemento di CTU, la Corte territoriale avrebbe omesso di motivare sul punto. Il motivo, oltre a difettare di un adeguato momento finale di sintesi o di riepilogo in cui venga enucleato chiaramente il fatto controverso, è inammissibile per mancanza di autosufficienza, in quanto non viene indicato il contenuto della criticata consulenza tecnica d'ufficio cui il giudice del merito ha prestato adesione. 9. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto. Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la società al pagamento delle spese liquidate in euro 4.100,00 per compensi professionali, di cui euro 100,00 per esborsi, oltre accessori secondo legge e spese generali al 15%.