La problematica delle cd. “clausole sociali” nell'ambito dei pubblici appalti, costituisce da tempo un tema controverso proprio per la natura stessa delle clausole medesime, le quali possono incidere nella sfera giuridica dell’appaltatore fino a condizionarne la libertà di iniziativa economica, oltre a suscitare aspetti problematici anche in merito ai principi comunitari in materia di libera concorrenza.
Costituisce, a ben vedere, indubbio merito del nuovo Codice dei contratti pubblici d.lgs. numero 50/2016 aver espressamente regolamentato le predette clausole, attraverso l’introduzione di una disciplina al contempo snella e tendenzialmente esaustiva. Infatti, prima del novello articolo 50, intitolato «clausole sociali del bando di gara e degli avvisi», non esisteva un’espressa ed esplicita disciplina, dal momento che nel pregresso Codice occorreva procedere ad operazioni interpretative di articoli diversi, per poter pervenire all’individuazione di una normativa larvatamente conferente. Quindi, un positivo aspetto di chiarezza normativa, non sempre presente nel nuovo Codice, contrassegnato tuttavia, dal permanere di un contrasto politico in merito alla portata applicativa dell’istituto. Nozione e scenario europeo. In generale, si parla di clausola sociale in riferimento a qualsiasi prescrizione, che abbia l’obiettivo di promuovere finalità di carattere sociale. Più in particolare, si può asserire che le diverse tipologie di clausole sociali, utilizzate negli appalti pubblici, sono riconducibili a due precisi scopi. In primo luogo, la tutela del diritto dei lavoratori sia all’occupazione, sia a condizioni di lavoro dignitose. In secondo luogo, la promozione di standard elevati di tutela sociale. In sede comunitaria, le clausole sociali sono state originariamente oggetto di attenzione da parte della Commissione europea, la quale, a partire dagli anni novanta, ha elaborato ed indicato le diverse e possibili prescrizioni di indole sociale a disposizione delle Pubbliche amministrazioni, in sede di appalti pubblici. Ciò, al fine di indirizzare gli operatori verso comportamenti più responsabili dal punto di vista sociale. Seguendo questo orientamento, le direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE hanno confermato le clausole sociali già in precedenza a disposizione delle Pubbliche amministrazioni, introducendo l’ulteriore istituto degli appalti riservati. A conferma di questa tendenza si rileva come, più di recente, la revisione della disciplina in materia di appalti pubblici, che ha portato all’emanazione della Direttiva 2014/24/UE, non ha mancato di tener conto delle possibili implicazioni di tale istituto nel raggiungimento di obiettivi di carattere sociale, tra i quali la Commissione stessa sottolineava chiaramente la promozione delle opportunità di occupazione, la promozione del lavoro dignitoso e la promozione dell’osservanza dei diritti sociali e di lavoro. La recente direttiva, infatti, già nel secondo considerando ribadisce che “Gli appalti pubblici svolgono un ruolo fondamentale nella strategia Europa 2020, illustrata nella comunicazione della Commissione del 3 marzo 2010 dal titolo «Europa 2020 — Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva», in quanto costituiscono uno degli strumenti, basati sul mercato, necessari alla realizzazione di una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva garantendo contemporaneamente l’uso più efficiente possibile dei finanziamenti pubblici”. Al di là di tale “considerando”, occorre tener conto di quanto dispone l’articolo 18, che al comma 2, dispone che “Gli Stati membri adottano misure adeguate per garantire che gli operatori economici, nell’esecuzione di appalti pubblici, rispettino gli obblighi applicabili in materia di diritto ambientale, sociale e del lavoro stabiliti dal diritto dell’Unione, dal diritto nazionale, da contratti collettivi o dalle disposizioni internazionali in materia di diritto ambientale, sociale e del lavoro elencate nell’allegato X”. Da quanto appena richiamato, si rileva come la finalità sociale degli appalti pubblici sia strumentale al raggiungimento di obiettivi più ampi di crescita economica. Certamente, la disciplina europea in materia di appalti pubblici è finalizzata a garantire, promuovere e tutelare la concorrenza, ma non senza tenere adeguata contezza degli aspetti sociali che si ripercuotono sul benessere e sulla crescita economica e strutturale del mercato europeo. In tale contesto, assume un ruolo rilevante la tendenza, che ormai da qualche anno ha portato l’Europa verso il cosiddetto Modello Sociale, finalizzato a creare un bilanciamento tra gli interessi di carattere strettamente economici, da sempre perseguiti, e gli interessi di carattere sociale che emergono e si impongono con sempre maggiore forza e che addirittura diventano funzionali ai primi. Clausole sociali ed ordinamento nazionale. Nella disciplina nazionale, il tema controverso delle clausole sociali negli appalti pubblici viene alla luce a partire dagli albori degli anni novanta, con la legge numero 381 del 1991, di istituzione delle cooperative sociali. Successivamente, è stato il D. Lgs. 163/2006, il “vecchio” Codice dei contratti, ad introdurre diverse disposizioni volte a contemperare i principi di mercato con le esigenze che possono insorgere dal contesto sociale. Più precisamente, occorre far riferimento all’articolo 2, che dopo aver enunciato i principi generali del codice, al comma 2 ° stabilisce che “il principio di economicità può essere subordinato, entro i limiti in cui sia espressamente consentito dalle norme vigenti e dal presente codice, ai criteri, previsti dal bando, ispirati a esigenze sociali, nonché alla tutela della salute e dell’ambiente e alla promozione dello sviluppo sostenibile”. Segue l’articolo 52, il quale definisce espressamente gli appalti riservati in perfetta assonanza con l’enunciato della direttiva 2004/18/CE. Infine, l’articolo 69 dispone che le stazioni appaltanti possono esigere condizioni particolari per l’esecuzione del contratto, attinenti a esigenze sociali o ambientali, purché compatibili con il diritto comunitario e i principi di parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, e purché siano espressamente indicate nel bando di gara, oppure nell’invito se si tratti di procedure senza bando, o nel capitolato d’oneri. La giurisprudenza nazionale ha privilegiato, anche in sede di definizione, il versante dell’esigenza di tutelare e garantire la continuità del servizio e dell’occupazione, nel caso di discontinuità dell’affidatario. Infatti, è stato affermato che “La clausola sociale anche nota come clausola di «protezione» o di salvaguardia sociale o clausola sociale di assorbimento è un istituto previsto dalla contrattazione collettiva e da specifiche disposizioni legislative statali articolo 69 del d.lgs. 12 aprile 2006, numero 163, l’articolo 63, comma 4, del d.lgs. 13 aprile 1999, numero 112, l’articolo 29, comma 3, del d.lgs. 10 settembre 2003, numero 276 , che opera nell’ipotesi di cessazione d’appalto e subentro di imprese o società appaltatrici e risponde all’esigenza di assicurare la continuità del servizio e dell’occupazione, nel caso di discontinuità dell’affidatario“ Tar Puglia, sez. Lecce I^, numero 2.986 del 1° dicembre 2014 . Quindi, la clausola sociale viene correlata all’esigenza di garantire la stabilità occupazionale, attraverso la continuità del servizio reso dal medesimo soggetto lavoratore prima operante. Pertanto, la clausola sociale può essere considerata legittima se a è preannunciata in modo trasparente e chiaro nel bando di gara b non da luogo ad effetti discriminatori c si estrinseca nell’obbligo ad assumere, solo in via prioritaria, il personale del precedente operatore economico d si rivela compatibile con l’organizzazione dell’imprenditore subentrante. L’espressa disciplina del nuovo Codice. Il nuovo Codice ha introdotto, all’articolo 50, un’esplicita disciplina in tema di clausole sociali, diversamente che nel precedente Codice, ove occorreva ricavarne la previsione da diversi articoli non direttamente dedicati. L’articolo 50 stabilisce quanto segue “Per gli affidamenti dei contratti di concessione e di appalto di lavori e servizi diversi da quelli aventi natura intellettuale, con particolare riguardo a quelli relativi a contratti ad alta intensità di manodopera, i bandi di gara, gli avvisi e gli inviti possono inserire, nel rispetto dei principi dell’Unione europea, specifiche clausole sociali volte a promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato, prevedendo l’applicazione da parte dell’aggiudicatario, dei contratti collettivi di settore di cui all’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, numero 81. I servizi ad alta intensità di manodopera sono quelli nei quali il costo della manodopera è pari almeno al 50 per cento dell’importo totale del contratto”. Come è agevole desumere, i punti salienti dell’assolutamente nuova disciplina sono i seguenti a Le clausole sociali vengono correlate a concessioni ed appalti di lavori e servizi e non ad appalti di fornitura, in ragione della loro tendenziale brevità temporale, oltre che delle loro peculiari caratteristiche. b Le clausole sociali sono finalizzate, nel rispetto dei principi dell’Unione Europea, a promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato, prevedendo l’applicazione, da parte dell’impresa subentrante, dei contratti collettivi di settore. c Gli appalti di servizi aventi natura intellettuale, come pure le concessioni, non possono essere destinatari di clausole sociali. Ciò, ovviamente, in ragione della componente intellettuale delle attività e prestazioni da espletare, che, in un certo senso, tipizzano l’oggetto. d Le clausole sociali trovano il loro più plausibile ambito di applicazione nei contratti “ad alta intensità di manodopera”, cioè quei contratti, le cui prestazioni sono caratterizzare in modo prevalente da attività di manodopera. La previsione del Codice appare ragionevole, in quanto, proprio in tali casi, appare giustificata l’esigenza di garantire la stabilità e la continuità occupazionale. e Le clausole sociali “possono” essere inserite nei bandi di gara od atti equivalenti. “Possono” e non “debbono”! Si tratta, in buona sostanza, di una facoltà, che rimane tale, pur nella tipica fattispecie, prima illustrata, dei contratti ad alta intensità di manodopera. Il punto è indubbiamente delicato ed è stato foriero di contrasti e di alternarsi di diverse discipline. Infatti, nella versione precedente dell’articolo 50, il quale contemplava ben tre commi in luogo dell’unico attuale, si prevedeva che “per gli affidamenti dei contratti di concessione e di appalto di lavori e servizi diversi da quelli aventi natura intellettuale, con particolare riguardo a quelli ad alta intensità di manodopera, i bandi di gara, gli avvisi e gli inviti inseriscono, nel rispetto dei principi dell'Unione Europea, specifiche clausole sociali volte a promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato, “Quindi, la disposizione, nel suo assetto antecedente la definitiva versione, prevedeva non una facoltà come ora , ma un obbligo i bandi e gli avvisi devono inserire le clausole sociali. L’obbligo è diventato facoltà. Contro tale cambiamento, di indubbia importanza, sono insorti diversi parlamentari gli onorevoli Massimo Artini, Giuseppe Civati, Arturo Scotto e Loredana De Petris, che hanno anche presentato una formale lettera di contestazione al Capo dello Stato , lamentando il fatto che il parere della Commissione parlamentare prevedeva un obbligo e non una facoltà. Cosa dire della previsione della facoltà, per le stazioni appaltanti, in luogo dell’obbligo, originariamente previsto? Indubbiamente, alla base della contrapposizione, che si è ingenerata, è evidente la sussistenza di un conflitto di gerarchia dei valori. Coloro che propugnano l’obbligo ritengono che le esigenze sociali debbano avere la primazia sulle diverse esigenze di libertà organizzativa dell’imprenditore. Si tratta, quindi, di un conflitto di “merito”, un conflitto sui “valori”, cioè un conflitto politico, che trascende il parte il ruolo dell’interpretazione giuridica, nel senso che le opzioni politiche diventano più pressanti. Certo, l’obbligo avrebbe garantito maggior tutela alle esigenze sociali e non avrebbe lasciato le stazioni appaltanti sole nel decidere se prevedere o meno la clausola sociale, cioè sole anche nel subire la probabile pressione da parte dei lavoratori dell’impresa precedente. Invero, occorre tener conto del fatto che proprio la recente giurisprudenza nazionale, come già in parte detto, ha assunto una posizione restrittiva in materia, posizione alla quale sembra essersi allineato il novello Legislatore del Codice. Infatti, è stato recentemente statuito che la c.d. clausola sociale deve essere interpretata conformemente ai principi nazionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa imprenditoriale e di concorrenza, risultando, altrimenti, essa lesiva della concorrenza, scoraggiando la partecipazione alla gara e limitando ultroneamente la platea dei partecipanti, nonché atta a ledere la libertà d'impresa, riconosciuta e garantita dall’articolo 41 Cost., che sta a fondamento dell'autogoverno dei fattori di produzione e dell'autonomia di gestione propria dell'archetipo del contratto di appalto, sicché tale clausola deve essere interpretata in modo da non limitare la libertà di iniziativa economica e, comunque, evitando di attribuirle un effetto automaticamente e rigidamente escludente” Consiglio di Stato, sez. III^, numero 1255 del 30 marzo 2016 . Una posizione indubbiamente restrittiva, dove viene posta enfasi sul fatto che la clausola sociale non deve limitare la libertà di iniziativa economica.