Lavoratore dice ‘no’ al direttore dello stabilimento e lo offende davanti agli altri operai: licenziato

Scontro duro tra il dipendente e il dirigente. Casus belli una specifica prestazione lavorativa. L’operaio, però, non solo si rifiuta, ma prende a male parole il direttore dello stabilimento, a chiusura del litigio. Condotta gravissima. Corretta la scelta dell’azienda di optare per il licenziamento.

Catena di montaggio bloccata. L’operaio dice no alla prestazione di lavoro richiestagli dal direttore dello stabilimento. E accompagna questo rifiuto con parole offensive nei confronti del dirigente. Condotta gravissima. Consequenziale e definitivo il licenziamento. In questo senso si è pronunciata la Corte di Cassazione, con la sentenza numero 22611, depositata oggi. Rifiuto. Vittoria in Tribunale per il lavoratore, che ottiene la «reintegra». Ma la soddisfazione dura pochissimo Per i giudici d’Appello, difatti, è clamorosa la «gravità dell’infrazione disciplinare commesso» dell’operaio di un’azienda del settore della forgiatura dei metalli. L’uomo, in sostanza, ha avuto «un acceso diverbio col direttore dello stabilimento», e, a fronte della «richiesta di una specifica prestazione», si è «allontanato alla presenza dei colleghi, rifiutandosi di compierla». Allo stesso tempo, l’operaio ha insultato pesantemente il «dirigente», rivolgendogli un «epiteto ingiurioso». Ciò ha comportato problemi all’azienda, risolti però dal direttore, il quale ha provveduto ad eseguire «la prestazione direttamente, con l’ausilio di un operaio di un altro reparto». Ma tale soluzione d’emergenza, per i giudici di secondo grado, è irrilevante, e non rende meno grave la condotta del lavoratore. Legittimo, quindi, il «licenziamento» deciso dalla società. Licenziamento. Decisione, quella d’Appello, mal digerita dal lavoratore, che contesta duramente le valutazioni compiute dai giudici. In particolare, il legale dell’uomo pone in evidenza la «qualifica del lavoratore», qualifica che «lo poneva al di sotto del direttore nella scala gerarchica» e che, di conseguenza, «gli attribuiva una facoltà discrezionale», esercitata legittimamente, a suo dire «in occasione del diverbio» col dirigente. Tutto ciò avrebbe dovuto portare i giudici a considerare non eccessivamente grave la condotta dell’operaio, conclude il legale. Ma la linea difensiva, finalizzata a minimizzare l’episodio, si rivela perdente. Anche per i giudici di Cassazione, difatti, è evidente la «gravità dell’inadempimento posto in essere dal dipendente», inadempimento «contraddistinto dalla insubordinazione, dall’offesa rivolta al superiore e dal litigio con quest’ultimo». A rendere ancora più indifendibile il lavoratore, poi, il fatto che tutto sia avvenuto «in presenza di altri colleghi di lavoro, e in modo tale da porre il superiore gerarchico in seria difficoltà nei confronti degli altri dipendenti – per l’ipotesi di una sua mancanza di adeguata reazione disciplinare – e da compromettere irreparabilmente il vincolo fiduciario», non potendo il datore di lavoro «confidare nella futura puntualità e correttezza della prestazione lavorativa». Irrilevante è anche il richiamo difensivo alla circostanza che «la qualifica posseduta dal dipendente potesse consentirgli margini di discrezionalità nell’esecuzione dell’operazione». Così come è trascurabile il fatto che «il rapporto gerarchico col superiore non fosse diretto». Ciò che appare chiarissimo, ribattono i giudici del ‘Palazzaccio’, è l’«inadempimento nei confronti della parte datoriale, determinato da una precisa volontà di non voler eseguire la prestazione lavorativa legittimamente richiesta da un superiore nell’interesse» dell’azienda. Inequivocabile, quindi, la condotta tenuta dal lavoratore, «gravemente inadempiente e contraria agli interessi datoriali» e idonea, sottolineano i giudici, a «ledere in maniera irreparabile il vincolo fiduciario» con l’azienda, anche «in considerazione del comportamento offensivo nei confronti del superiore gerarchico, alla presenza di altri dipendenti». Legittimo, di conseguenza, il «licenziamento» dell’operaio.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 11 giugno – 5 novembre 2015, numero 22611 Presidente Venuti – Relatore Berrino Svolgimento dei processo Con sentenza del 12/7 - 31/12/2012 la Corte d'appello di Torino - sezione lavoro ha accolto l'impugnazione proposta dalla società Valbormida s.p.a. avverso la sentenza dei giudice dei lavoro dei Tribunale di Acqui Terme, che l'aveva condannata a reintegrare nel posto di lavoro G.B., previa dichiarazione d'illegittimità dei licenziamento intimato a quest'ultimo il 25/11/2008, e conseguentemente ha respinto le domande dei lavoratore. Nel riformare la sentenza di primo grado, la Corte territoriale ha rilevato che dagli atti di causa risultava provata la gravità dell'infrazione disciplinare contestata al lavoratore il quale, all'esito di un acceso diverbio avuto coi direttore dello stabilimento, dr. A.C., alla richiesta di eseguire una specifica prestazione si era allontanato alla presenza di altri colleghi di lavoro, rifiutandosi di compierla con alto tono di voce ed insultando il predetto dirigente con epiteto ingiurioso, il quale provvedeva ad eseguirla direttamente con l'ausilio di un operaio di un altro reparto. Per la cassazione della sentenza propone ricorso B. G. con due motivi, illustrati da memoria ai sensi dell'articolo 378 c.p.c. Resiste con controricorso la società Valbormida s.p.a. Motivi della decisione 1. Col primo motivo il ricorrente si duole della insufficienza e contraddittorietà della motivazione con riferimento al fatto controverso e decisivo dell'esistenza in concreto di una ipotesi di plateale inadempimento e di grave insubordinazione, nonché dell'omesso esame dell'elemento soggettivo con riferimento anche alla inesistenza di precedenti provvedimenti disciplinari, alla carriera lavorativa e alla anzianità di servizio e dell'erronea ricognizione della fattispecie concreta inoltre, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell'articolo 5 della legge 15 luglio 1966,numero 604. In pratica, si imputa alla Corte territoriale una errata ricognizione del materiale probatorio rappresentato dalle testimonianze e l'omessa considerazione della norma collettiva di riferimento che delinea il contenuto delle mansioni della qualifica di appartenenza del ricorrente, per dedurne che nella fattispecie non era stato adeguatamente motivato il capo della sentenza secondo cui quest'ultimo avrebbe dovuto eseguire immediatamente la specifica prestazione richiestagli dal suo dirigente, dal momento che la sua qualifica lo poneva al di sotto dei direttore nella scala gerarchica e gli attribuiva una facoltà discrezionale che fu appunto espressa in occasione del diverbio del 28.10.2008 che diede origine ai fatti di causa. Da tutto ciò il ricorrente trae la convinzione della mancanza di proporzionalità della sanzione applicatagli e della insussistenza della gravità dei fatti addebitatigli, con conseguente denunzia di illegittimità del licenziamento intimatogli. II motivo è infondato. Invero, per quel che concerne la parte riguardante il segnalato vizio di motivazione, si osserva che le doglianze contengono una inammissibile rivisitazione dei merito istruttorio adeguatamente vagliato dalla Corte d'appello con argomentazione congrua ed esente da rilievi di ordine logico-giuridico. In realtà, la Corte d'appello ha dimostrato di aver esaminato compiutamente il fatto addebitato nei vari aspetti oggettivi e soggettivi, spiegando che il lavoratore non aveva contestato di aver pronunziato l'epiteto ingiurioso nei confronti del suo superiore, essendosi limitato a minimizzare l'entità dell'accaduto, che dall'istruttoria svolta era chiaramente emerso che il medesimo si era rifiutato di svolgere l'attività richiestagli dal superiore, al quale aveva voltato le spalle andandosene dopo averlo insultato, che tra i due vi era stato un acceso diverbio e che alla fine il superiore aveva dovuto avvalersi della collaborazione di un altro operaio per portare a termine l'operazione che B. G. si era rifiutato di eseguire. La Corte territoriale ha, così, tratto il convincimento, congruamente motivato, della gravità dell'inadempimento posto in essere dal dipendente, contraddistinto dalla insubordinazione, dall'offesa rivolta al superiore e dal litigio con quest'ultimo, il tutto in presenza di altri colleghi di lavoro ed in modo tale da porre il superiore gerarchico in seria difficoltà nei confronti degli altri dipendenti, per l'ipotesi di una sua mancanza di adeguata reazione disciplinare, e da compromettere irreparabilmente il vincolo fiduciario, non potendo il datore di lavoro confidare nella futura puntualità e correttezza della prestazione lavorativa. Egualmente infondata è la parte della doglianza incentrata sull'asserita illegittimità dei licenziamento, a nulla potendo rilevare, a fronte del netto rifiuto di esecuzione della prestazione e della pronunzia di un epiteto ingiurioso rivolto al superiore, la circostanza che la qualifica posseduta dal dipendente potesse consentire al medesimo margini di discrezionalità nell'esecuzione dell'operazione e che il rapporto gerarchico col superiore non fosse diretto, in quanto rimane insuperato l'accertato inadempimento nei confronti della parte datoriale, determinato da una precisa volontà di non voler eseguire la prestazione lavorativa legittimamente richiesta da un superiore nell'interesse della datrice di lavoro. Giova, altresì, ricordare che in caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, dovendosi ritenere determinante, a tal fine, l'influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento dei lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza. Spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un'utile prosecuzione dei rapporto di lavoro Cass. sez. lav. numero 17514 dei 26/7/2010 2. Coi secondo motivo il ricorrente censura l'impugnata sentenza per falsa applicazione degli articolo 2119, 2104 e 2106 c.c., con conseguente violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli articolo 1, 3 e 5 della legge 15.7.1966, numero 604 e 18 della legge 20.5.1970, numero 300. Inoltre, il ricorrente lamenta l'erronea sussunzione del fatto in concreto accertato nell'ipotesi normativa applicata, anche in considerazione dei dati qualificanti dell'elemento soggettivo, quali l'inesistenza di procedimenti disciplinari, l'anzianità di servizio ultratrentennale e lo sviluppo della carriera con corresponsione di superminimi retributivi. II motivo è infondato. Invero, il ricorrente non spiega la ragione giuridica per la quale la Corte territoriale sarebbe incorsa in errore rispetto al contesto normativo sopra indicato nel momento in cui ha valutato l'entità dell'addebito ai fini della verifica della legittimità del licenziamento. In effetti, in relazione al lamentato vizio di violazione di norme di legge il ricorrente non deduce nemmeno qual'è stata l'interpretazione datane dalla Corte d'appello, a suo giudizio errata, e quale avrebbe dovuto essere, invece, quella corretta alla quale attenersi e per quale motivo. Invece, per quel che concerne la lamentata mancanza di proporzionalità della sanzione inflitta, si osserva che la Corte d'appello, seguendo un ragionamento contraddistinto da congrua motivazione esente da rilievi di legittimità, ha adeguatamente valutato la proporzionalità dell'intimato licenziamento nel momento in cui ha posto in risalto il comportamento del lavoratore gravemente inadempiente e contrario agli interessi datoriali, per le ragioni sopra illustrate, come tale idoneo, anche in considerazione del comportamento offensivo tenuto nei confronti dei superiore gerarchico alla presenza di altri dipendenti, a ledere in maniera irreparabile il vincolo fiduciario. D'altronde, il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito, la cui valutazione non è censurabile in sede di legittimità, ove sorretta da motivazione sufficiente e non contraddittoria Cass. sez. lav. numero 8293 del 25/5/2012 . Nè la denunzia del vizio di violazione di norme di legge può essere intesa nel senso di richiesta al giudice di legittimità di verificare se i fatti oggetto di causa, racchiusi nella contestazione disciplinare posta a base del licenziamento, abbiano rappresentato o meno la manifestazione di un inadempimento sanzionato dalle norme asseritamente violate, in quanto una tale richiesta di tipo esplorativo finisce per investire questa Corte di una indagine di merito che non è consentita nel presente giudizio. In definitiva, la Corte d'appello di Torino, nel sancire la legittimità dell'impugnato licenziamento, ha seguito un adeguato percorso motivazionale esente da vizi logici e giuridici, pienamente aderente ai consolidati principi di legittimità sopra richiamati, sottraendosi, pertanto, alle censure mosse col presente ricorso. Ne consegue che il ricorso va rigettato. Le spese dei presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e vanno liquidate come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese dei presente giudizio nella misura di € 3000,00 per compensi professionali e di € 100,00 per esborsi, oltre accessori di legge.