Inutile il ricorso proposto da un dipendente di una Provincia che aveva chiesto e ottenuto il passaggio al Ministero della Giustizia. Fatale per lui l’avere dichiarato il falso, specificando di non avere riportato condanne penali.
Viziato il trasferimento dalla Provincia alla Procura. Nella domanda di mobilità volontaria, difatti, il dipendente ha dichiarato falsamente di non aver riportato condanne penali. E ora questa bugia gli costa il posto di lavoro Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza numero 15117/21, depositata il 31 maggio . Concordi i giudici di merito prima in Tribunale e poi in Corte d’Appello viene confermato il « licenziamento disciplinare senza preavviso » intimato a un dipendente dal Ministero della Giustizia. Respinta la richiesta del lavoratore, mirata ad ottenere la reintegra e il risarcimento del danno. Evidente, secondo i giudici, la gravità della condotta da lui tenuta, poiché si è appurato che «egli, già dipendente dai una Provincia, al momento della presentazione di domanda di mobilità volontaria al Ministero della Giustizia, ha dichiarato falsamente di non aver riportato condanne penali», mentre invece «il Procuratore della Repubblica ha trasmesso al Ministero della Giustizia estratto della sentenza penale con cui il lavoratore era stato condannato alla pena di tre anni e sei mesi di reclusione per il reato di peculato continuato, con interdizione perpetua dai pubblici uffici». Per i giudici di secondo grado, in particolare, «l’uomo ha dichiarato il falso in modo doloso e consapevole», poiché «nel modulo per la mobilità erano indicate alcune attestazioni e bisognava cancellare quelle che non interessavano e cioè quelle che riguardavano fatti non attribuibili al dichiarante» mentre, invece, «il dipendente della Provincia aveva cancellato la parte relativa al “non aver procedimenti penali in corso/di aver riportato le seguenti condanne penali” e poi aveva sbarrato lo spazio relativo all’indicazione delle condanne penali riportate» e «non aveva cancellato l’attestazione relativa a “non aver riportato condanne penali”». Secondo i giudici «la mancata cancellazione di tale ultima dicitura non ha eliminato il carattere di falsità ma anzi lo ha rafforzato, in quanto il dichiarante avrebbe dovuto indicare non solo di aver un procedimento penale in corso ma anche di aver riportato una sentenza di condanna». Impossibile, quindi, sempre secondo i giudici, sostenere «l’assenza di dolo», sia per «aver l’uomo subito da poco tempo la condanna» sia per essere «egli laureato e ben consapevole, perciò, del significato delle domande» presenti nel «modulo compilato». A rendere più grave la condotta dell’uomo, poi, anche la constatazione che «egli, dopo le false dichiarazioni, era andato a lavorare proprio presso la Procura che aveva svolto le indagini a suo carico». Tirando le somme, «il licenziamento è assolutamente proporzionato alla gravità della condotta», secondo i giudici d’Appello, anche perché tale sanzione è applicabile non solo quando le «falsità dichiarative» riguardano un nuovo rapporto di lavoro ma anche quando concernono, come in questo caso, «una situazione di mobilità». La linea di pensiero tracciata in Appello è condivisa in pieno dai Giudici della Cassazione, che, difatti, confermano il licenziamento adottato dal Ministero della Giustizia. Respinta l’ipotesi difensiva secondo cui ci si trova di fronte a «una dichiarazione frutto di leggerezza e di disattenzione e non di dolo». Decisivo il richiamo alla circostanza che «il lavoratore, per rendere una dichiarazione veritiera, non si sarebbe dovuto limitare a non sbarrare la dicitura “di non avere procedimenti penali in corso” e cioè una dicitura riguardante fatti attribuibili al dichiarante ma avrebbe dovuto fare altrettanto anche con la dicitura “di non avere riportato condanne penali” ed anzi avrebbe dovuto indicare quale sentenza di condanna lo avesse riguardato e per quali reati, laddove, nella specie, risultavano sbarrati i puntini destinati a tali indicazioni». Giustamente, quindi, sono state valorizzate, sottolineano i magistrati, «le modalità insidiose con cui il lavoratore destinatario da poco tempo della sentenza penale di condanna e perfettamente in grado di comprendere il significato delle frasi di cui al modulo da riempire aveva compilato la domanda di mobilità ». Peraltro, è emerso che «la domanda di mobilità era stata accolta, nonostante la presenza di carichi pendenti », e ciò smentisce l’assunto difensivo secondo cui «già solo tale dichiarazione equivaleva, per il richiedente, a rappresentare all’amministrazione il non possesso di un requisito essenziale per l’accoglimento della domanda». Il lavoratore ha anche osservato che «il licenziamento disciplinare» è previsto per «le falsità commesse ai fini dell’instaurazione del rapporto di lavoro o della progressione di carriera e, quindi non è applicabile alla mobilità che non determina l’instaurazione di un nuovo rapporto ma solo la modifica soggettiva del datore». Su questo fronte, però, i magistrati ribattono, come già fatto dai giudici d’Appello, che è logico parlare di « giusta causa di licenziamento », poiché «la condotta posta in essere» dal lavoratore, e «costituente anche reato», è chiaramente «violativa di valori radicati nella coscienza sociale quale minimum etico» e sufficiente per ritenere «integrata una lesione irreversibile del vincolo fiduciario» col datore di lavoro.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 27 ottobre 2020 – 31 maggio 2021, numero 15117 Presidente Di Paolantonio – Relatore Marotta Fatti di causa 1. Con ricorso al Tribunale di Avellino, proposto ai sensi della L. numero 92 del 2012, articolo 1, commi 47 e segg., D.G.F. impugnava il licenziamento disciplinare senza preavviso intimatogli in data 18.3.2016 dal datore di lavoro Ministero della Giustizia, ai sensi del D.Lgs. numero 165 del 2001, articolo 55 quater, comma 1, lett. d , e chiedeva, previa declaratoria di illegittimità del recesso sotto diversi profili, la condanna del convenuto a reintegrarlo nel posto di lavoro e a risarcirgli il danno. Il suddetto provvedimento era stato adottato in quanto il D.G. , già dipendente della Provincia di Avellino, al momento della presentazione di domanda di mobilità volontaria, D.Lgs. numero 165 del 2001, ex articolo 30, da tale datore di lavoro al Ministero della Giustizia 5.1.2015 , aveva dichiarato falsamente di non aver riportato condanne penali laddove, in data 1.12.2015, il Procuratore della Repubblica di Avellino aveva trasmesso al Ministero della Giustizia estratto della sentenza penale emessa, a carico del D.G. , dal Tribunale di Avellino il 25.3.2014 con la quale il predetto era stato condannato alla pena di anni tre e mesi sei di reclusione per il reato di peculato continuato con interdizione perpetua dai pubblici uffici. 2. Il Tribunale, all’esito della fase sommaria, respingeva la domanda e la decisione era confermata in sede di opposizione. 3. Il reclamo era rigettato dalla Corte d’appello di Napoli. Riteneva la Corte territoriale che il D.G. avesse dichiarato il falso in modo doloso e consapevole. In particolare, evidenziava che nel modulo per la mobilità erano indicate alcune attestazioni e bisognava cancellare quelle che non interessavano e cioè quelle che riguardavano fatti non attribuibili al dichiarante. Orbene, il reclamante aveva cancellato la parte relativa al non aver procedimenti penali in corso di aver riportato le seguenti condanne penali e poi aveva sbarrato lo spazio relativo all’indicazione delle condanne penali riportate non aveva cancellato l’attestazione relativa a non aver riportato condanne penali . Riteneva la Corte territoriale che la mancata cancellazione di tale ultima dicitura non avesse eliminato il carattere di falsità ma anzi lo avesse rafforzato in quanto il dichiarante avrebbe dovuto indicare, non solo di aver un procedimento penale in corso ma anche di aver riportato una sentenza di condanna. Evidenziava che non potesse sostenersi l’assenza di dolo sia per aver il D.G. subito da poco tempo la condanna sia per essere lo stesso laureato e ben consapevole, perciò, del significato delle domande di cui al modulo compilato. Aggiungeva, sottolineando che il D.G. dopo le false dichiarazioni era andato a lavorare proprio presso la Procura di Avellino che aveva svolto le indagini a suo carico, che il licenziamento era assolutamente proporzionato alla gravità della condotta. Escludeva che il D.Lgs. numero 165 del 2001, articolo 55 quater, lett. d fosse riferito alla sola ipotesi di instaurazione di un nuovo rapporto e ne riteneva, pertanto, l’applicabilità anche alla situazione di mobilità. In ogni caso, riteneva che l’elencazione contenuta nella norma non vietasse al giudice di considerare il licenziamento legittimo qualora la condotta, pur non rientrando pienamente in una delle ipotesi previste, fosse tuttavia tale da integrare una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo di recesso. 4. Per la cassazione della sentenza D.G.F. ha proposto ricorso con tre motivi. 5. Il Ministero della Giustizia è rimasto intimato. Motivi della decisione 1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia omessa, perplessa e insussistente motivazione, risultante dal testo della sentenza, circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Premette di non aver mai negato di aver reso una dichiarazione non veritiera ma evidenzia di aver sempre sostenuto che tale dichiarazione fosse stata frutto di leggerezza e disattenzione e non di dolo e che ciò risultasse dalla stessa domanda di mobilità. Sostiene che la Corte territoriale avrebbe contraddittoriamente motivato sulla falsità della dichiarazione e non avrebbe considerato quanto evidenziato anche in sede di reclamo in ordine alla circostanza che l’aver dichiarato di avere carichi pendenti equivaleva per il richiedente a rappresentare all’Amministrazione il non possesso di un requisito essenziale per l’accoglimento della sua domanda di mobilità, il che rendeva obiettivamente inutile l’indicazione della sentenza di condanna. Sottolinea, sul punto, l’inconciliabile contraddittorietà della sentenza e ne deduce la nullità ex articolo 360 c.p.c., numero 4. 2. Il motivo non è fondato. 2.1. Si rilevano innanzitutto profili di inammissibilità atteso che non è trascritto il contenuto del modulo di domanda per la mobilità intorno al quale ruota la ritenuta e contrastata falsità della dichiarazione, irrilevante essendo che tale domanda sia stata prodotta a corredo del ricorso per cassazione. Si ricorda, infatti, che ai fini della specificità del ricorso, l’articolo 366 c.p.c., numero 6, come modificato dal D.Lgs. numero 40 del 2006, articolo 5, richiede che al giudice di legittimità vengano forniti già con il ricorso tutti gli elementi necessari per avere la completa cognizione della controversia, senza necessità di accedere a fonti esterne, mentre la produzione è finalizzata a permettere l’agevole reperibilità del documento o dell’atto la cui rilevanza è invocata ai fini dell’accoglimento del ricorso stesso fra le più recenti, sulla non sovrapponibilità dei due requisiti, Cass. 28 settembre 2016, numero 19048 . Neppure è riportato il contenuto degli atti della fase di prime cure dei quali a pag. 8 e 9 del ricorso sono trascritti solo limitati passaggi e delle relative pronunce del Tribunale che solo avrebbe consentito di avere cognizione dei termini delle questioni poste dal ricorrente e delle soluzioni adottate. 2.2. Si aggiunga che la Corte territoriale ha valorizzato la circostanza che il D.G. , per rendere una dichiarazione veritiera, non si sarebbe dovuto limitare a non sbarrare la dicitura di non avere procedimenti penali in corso e cioè una dicitura riguardante fatti attribuibili al dichiarante ma avrebbe dovuto fare altrettanto anche con la dicitura di non avere riportato condanne penali ed anzi avrebbe dovuto indicare quale sentenza di condanna lo avesse riguardato e per quali reati, laddove, nella specie, risultavano sbarrati i puntini destinati a tali indicazioni. Non si rileva, in tale ragionamento, alcuna contraddizione risultando valorizzate dai giudici partenopei le modalità in qualche modo insidiose con cui il D.G. destinatario da poco tempo della sentenza penale di condanna e perfettamente in grado di comprendere il significato delle frasi di cui al modulo da riempire aveva compilato la domanda di mobilità. Nè del resto il ricorrente fornisce elementi, anche fattuali, a sostegno della pretesa non autonomia delle suddette differenziate informazioni che avrebbe reso di fatto superflua quella relativa alla riportata condanna penale rispetto all’altra, più generica, della pendenza di un procedimento penale, di carattere asseritamente assorbente rispetto alla prima ai fini della completezza e ritualità della domanda. Si aggiunga che dalla stessa sentenza impugnata si evince che la domanda di mobilità era stata accolta nonostante la presenza di carichi pendenti, il che smentisce l’assunto attoreo secondo cui già solo tale dichiarazione equivaleva, per il richiedente, a rappresentare all’Amministrazione il non possesso di un requisito essenziale per l’accoglimento di detta domanda. 3. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione degli articolo 2016 e 2119 c.c., D.Lgs. numero 165 del 2001, articolo 55 quater, lett. d . Sostiene che non poteva essere ritenuto volontario e doloso il falso, con la conseguenza che doveva essere esclusa, anche per il principio di proporzionalità, la giusta causa di licenziamento. Insiste nell’affermare che la dichiarazione, pacificamente resa, in merito alla pendenza di un procedimento penale, era sintomatica dell’assenza del necessario elemento soggettivo. Aggiunge che l’obbligo di dichiarare le sentenze di condanna si riferisce a quelle passate in giudicato che siano idonee ad impedire la costituzione del rapporto di impiego e pertanto il ricorrente aveva agito nella convinzione di non avere violato alcuna norma perché al momento della domanda la sentenza era ancora appellabile. 4. Il motivo è inammissibile. Il ricorrente sovrappone profili di fatto e di diritto e svolge considerazioni che sono principalmente volte a censurare l’accertamento, che è di merito, sulla sussistenza dell’elemento soggettivo. Peraltro, nella specie, l’indagine svolta dalla Corte territoriale si sottrae alle censure articolate non presentando la inferenza tratta dal giudice di merito alcuna incongruità o illogicità. 5. Con il terzo motivo il ricorrente addebita alla sentenza impugnata la violazione del D.Lgs. numero 165 del 2001, articolo 55 quater, lett. d . Assume che la fattispecie tipizzata si riferisce alle falsità commesse ai fini dell’instaurazione del rapporto di lavoro o della progressione di carriera e, quindi non è applicabile alla mobilità che non determina l’instaurazione di un nuovo rapporto ma solo la modifica soggettiva del datore. 6. Il motivo è inammissibile. Il ricorrente non ha trascritto gli atti rilevanti lettera di contestazione e provvedimento di licenziamento che solo avrebbero consentito di avere un quadro chiaro della situazione e di apprezzare le doglianze. Si aggiunga che non è censurata l’autonoma ratio decidendi relativa alla sussistenza, nella specie, di una giusta causa di licenziamento per essere stata la condotta posta in essere, costituente anche reato, violativa di valori radicati nella coscienza sociale quale minimum etico ed al potere del giudice e del datore di lavoro di qualificare diversamente il fatto, a prescindere dalla previsione di cui al D.Lgs. numero 165 del 2001, articolo 55 quater, e ritenere comunque integrata una lesione irreversibile del vincolo fiduciario. Occorre ribadire il principio secondo cui, ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza cfr. fra le tante Cass. 27 luglio 2017, numero 18641 . 7. Da tanto deriva che il ricorso deve essere rigettato e, pertanto, non occorre disporre la rinnovazione della notifica, erroneamente effettuata presso indirizzi di posta elettronica certificata che si riferiscono all’Avvocatura Distrettuale di Napoli OMISSIS OMISSIS , laddove l’indirizzo dell’Avvocatura Generale è OMISSIS . Nella giurisprudenza di questa Corte è ormai consolidato il principio secondo cui il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo impone al giudice ai sensi degli articolo 175 e 127 c.p.c. di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato a produrre i suoi effetti. Se ne è tratta la conseguenza che, in caso di ricorso per cassazione inammissibile o prima facie infondato, appare superfluo disporre la rinnovazione di una notifica nulla o inesistente, atteso che l’adempimento si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in una dilatazione dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti Cass. numero 15106/2013, Cass. numero 12515/2018, Cass. numero 33557/2018, Cass. numero 33399/2019 . 8. La mancata costituzione in giudizio dell’Avvocatura esime dal provvedere sulle spese del giudizio di legittimità. 9. Ai sensi del D.P.R. numero 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, numero 228, deve darsi atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. numero 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso nulla per le spese. Ai sensi del D.P.R. numero 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.