L’uomo vince la battaglia contro la tecnologia nonostante le foto in 3D siano frutto di una apparecchiatura ad hoc, senza la ‘mano’ del professionista non potrebbe esserci alcuna opera. Legittima, quindi, la condanna per un’azienda che aveva diffuso e venduto immagini virtuali, senza riconoscere i diritti all’autore delle foto originarie.
Per i profani la definizione è ‘tour virtuale’, per gli addetti ai lavori si può ricorrere a un tecnicismo, ossia ‘fotografie immersive’. Praticamente il prodotto finito, realizzato con apparecchiature di ultima generazione, è una immagine tridimensionale – magari di un luogo turistico, oppure di un appartamento –, ‘visitabile’ a distanza, con un click su un personal computer. Ma ciò che conta davvero è la mano umana, più che il ricorso alla tecnologia. Ecco perché anche su questa opera va garantita la tutela del diritto d’autore Cassazione, sentenza numero 34237/2012, Terza Sezione Penale, depositata oggi . 3D. Protagonisti, sul ring giudiziario, un fotografo professionista e un’azienda impegnata nell’area della grafica, anche multimediale. Oggetto della contesa i diritti relativi all’impiego, da parte dell’azienda, di alcune immagini virtuali, nate dagli scatti realizzati dal fotografo durante una collaborazione professionale. Secondo il fotografo, la diffusione e il commercio delle immagini tridimensionali sono assolutamente illegittimi, e quindi violano la tutela prevista per il diritto d’autore. Ma, in Tribunale, la richiesta viene respinta, vedendo assolti i legali rappresentanti dell’azienda. Questione chiusa? Assolutamente no, perché la prospettiva viene ribaltata in Appello, laddove viene sì richiamata la tecnica delle fotografie cosiddette immersive – «tecnica che è funzionale, di per sé stessa, alla creazione di una realtà virtuale» – ma, allo stesso tempo, viene evidenziato il valore dell’immagine ‘tracciata’ dal fotografo fondata, quindi, la richiesta di risarcimento dei danni avanzata dal professionista. Opera umana. Per i rappresentanti dell’azienda, però, è erronea la valutazione compiuta in Appello, soprattutto considerando la distinzione tra «fotografia e opera fotografica». Ebbene, secondo tale visione, «nessun carattere di creatività può essere attribuito alle fotografie» – meglio, i negativi ceduti dal fotografo –, perché «solo la tecnologia utilizzata», e messa a disposizione dall’azienda, «ha costituito l’elemento di specificità dell’opera». Ottica 3.0, quella proposta dai rappresentanti dell’azienda, ottica che, però, non viene condivisa dai giudici della Cassazione, i quali, invece, sottolineano il valore dell’opera umana. Più precisamente, il ricorso a un fotografo professionista e «alla qualità della sua prestazione», spiegano i giudici, è incompatibile con la tesi, sostenuta dall’azienda, secondo cui «l’opera fotografica sarebbe tale esclusivamente per merito della tecnologia utilizzata», messa a disposizione del fotografo, e, quindi, «la rappresentazione fotografica» sarebbe «elemento secondario, non coperto da alcuna protezione diversa dalla mera remunerazione». Per i giudici della Cassazione, quindi, è giusto dare adeguato riconoscimento alla capacità dell’uomo – del fotografo, in questo caso –, non solo, quindi, attraverso un’adeguata ricompensa economica, ma anche attraverso le garanzie previste per il diritto d’autore. Da confermare, quindi, la condanna, emessa in Appello, per i rappresentanti dell’azienda.
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 12 luglio – 7 settembre 2012, numero 34237 Presidente Squassoni – Relatore Marini Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 19/2/2010 il Tribunale di Genova ha assolto gli odierni ricorrenti, quali legali rappresentarti della “G.S. Sas”, dai reati ex articolo 110 cod. penumero , articolo 171, commi 1 e 2, articolo 171-ter legge 22 aprile 1941, numero 633 loro contestati per avere posto in commercio, diffuso via internet e abusivamente utilizzato immagini virtuali create dal sig. M.A.F. 2. Con la sentenza del 27/4/2011 la Corte di appello di Genova sulla impugnazione della sola parte civile ha riformato la prima decisione e ritenuto sussistere la lamentata violazione del diritto d’autore che il Tribunale aveva negato. Premesso che il sig. F. non ha mai rivestito la qualifica di dipendente della società degli imputati ed ha operato dietro incarico professionale, la Corte di appello afferma che il Tribunale “è incorso in una serie di equivoci tecnici, giuridici e fattuali” che riguardano a L’uso della tecnica relativa alle “fotografie c.d. immersive”, tecnica che “è funzionale di per sé stessa alla creazione di una realtà virtuale, in cui l’oggetto della rappresentazione costituisce il presupposto materiale dell’interpretazione creativa” b L’affermazione della prima sentenza secondo cui “qualsiasi fotografia in sé è meritevole di tutela”, affermazione cui non corrisponde il restante argomentare di quella sentenza e la conclusione cui il Tribunale è giunto c La distinzione fra “consegna” del supporto del materiale fotografico e la r d L’esistenza di prove di un “patto contrario” che limitava l’utilizzo del materiale all’ambito del G8 e conservava il diritto d’autore in capo all’autore delle fotografie. 3. Avverso tale decisione i sigg. L. e P. propongono ricorso personalmente, in sintesi lamentando l’errata applicazione di legge ai sensi dell’articolo 606, lett. b cod. proc. penumero in relazione agli articolo 88 e 89 della legge 22 aprile 1941, numero 633 per avere la Corte di appello applicato la disciplina in vigore anteriormente alla citata legge del 1941 che ha, invece, introdotto la distinzione fra fotografia e opera fotografica e siccome la cessione del negativo comporta articolo 89 citato anche la cessione del diritto dell’autore delle fotografie e, nessun carattere di creatività può essere attribuito alle fotografie in sé, è evidente che solo la tecnologia utilizzata dalla società dei ricorrenti e messa a disposizione del fotografo ha costituito l’elemento di specificità dell’opera. Inoltre, nessun elemento la parte civile ha fornito in ordine all’esistenza di un patto contrario alla cessione del diritto sulle immagini. 4. Con memoria depositata il 22/6/12 la parte civile ha chiesta che sia dichiarata la inammissibilità del ricorso. Considerato in diritto 1. In considerazione del contenuto dei motivi di ricorso la Corte deve osservare in via preliminare che il giudizio di legittimità rappresenta lo strumento di controllo della corretta applicazione della legge sostanziale e processuale e non può costituire un terzo grado volto alla ricostruzione dei fatti oggetto di contestazione. Si tratta di principio affermato in modo condivisibile dalla sentenza delle Sezioni Unite Penali, numero 2120, del 23 novembre 1995-23 febbraio 1996, Fachini rv 203767 e quindi dalla decisione con cui le Sezioni Unite hanno definito concetti di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione numero 47289 del 2003, Petrella, rv 226074 . Una dimostrazione della sostanziale differenza esistente tra i due giudizi può essere ricavata, tra l’altro, dalla motivazione della sentenza numero 26 del 2007 della Corte costituzionale, che punto 6.1 , argomentando in ordine alla modifica introdotta dalla legge numero 46 del 2006 al potere di impugnazione del pubblico ministero, afferma che la esclusione della possibilità di ricorso in sede di appello costituisce una limitazione effettiva degli spazi di controllo sulle decisioni giudiziali in quanto il giudizio avanti la Corte di cassazione è “rimedio che non attinge comunque alla pienezza del riesame di merito, consentito invece dall’appello”. Se, dunque, il controllo demandato alla Corte di cassazione non ha “la pienezza del riesame di merito” che è propria del controllo operato dalle corti di appello ben si comprende come il nuovo testo dell’articolo 606, lett. e c.p.p. non autorizzi affatto il ricorso a fondare le richiesta di annullamento della sentenza di merito chiedendo al giudice di legittimità di ripercorrere l’intera ricostruzione della vicenda oggetto di giudizio. Ancora successivamente alla modifica della lett. e dell’articolo 606 c.p.p. apportata dall’articolo 8, comma primo, lett. b della legge 20 febbraio 2006, numero 46, l’impostazione qui ricordata è stata ribadita da plurime decisioni di legittimità, a partire dalle sentenze della Seconda Sezione Penale, numero 23419 del 23 maggio-14 giugno 2007, PG in proc. Vignaroli rv 236893 e della Prima Sezione Penale, numero 24667 del 15-21 giugno 2007, Musumeci rv 237207 . Appare, dunque, del tutto convincente la costante affermazione giurisprudenziale secondo cui è “preclusa al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti” fra tutte Sez. 6, numero 22256 del 26 aprile-23 giugno 2006, Bosco rv 234148 . 2. L’applicazione di questi principi al caso in esame comporta il rigetto del ricorso. Appare, infatti, evidente che le censure rubricate sotto la voce errata applicazione della legge sollecitano, piuttosto, una diversa valutazione dei fatti e la ricostruzione di un diverso rapporto contrattuale tra le parti. La circostanza che i ricorrenti abbiano dovuto fare ricorso a un fotografo professionale e alla qualità della sua prestazione appare incompatibile logicamente con la tesi secondo cui l’opera fotografica sarebbe tale esclusivamente per merito della tecnologia utilizzata, messa a disposizione dai ricorrenti, mentre la realizzazione della rappresentazione fotografica diverrebbe elemento secondario e come tale non coperto da alcuna protezione diversa dalla mera remunerazione. Del tutto condivisibili, appaiono, dunque le motivazioni della corte territoriale e non possono trovare ingresso in questa sede le diverse ricostruzioni e valutazioni, attinenti il merito della decisione, prospettate dai ricorrenti. 3. Al rigetto del ricorso consegue sia la condanna dei ricorrenti, ex articolo 616 cod. proc. penumero , al pagamento delle spese processuali sia la condanna alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, che si liquidano in complessivi duemila euro, oltre Iva e accessori di legge. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, che si liquidano in complessivi duemila euro, oltre Iva e accessori di legge.