Significativo episodio relativo ad alcuni messaggi pubblicati su Facebook. La persona condannata ha utilizzato il proprio profilo personale, ma è evidente, alla luce dello strumento utilizzato, il carattere pubblico del contesto e la potenziale incontrollata diffusione della comunicazione messa ‘nero su bianco’.
Rabbia repressa da sfogare. Per una storia d’amore finita male, per il tradimento di un amico, per un licenziamento improvviso e inaspettato E l’elenco potrebbe proseguire ancora Ma ciò che conta è che ci si ricordi di non utilizzare i social network come ‘sfogatoio’ personale. Soprattutto se epiteti poco gradevoli sono resi pubblici non in maniera generale e generica, ma specificando addirittura il destinatario. Perché, in quest’ultimo caso, bisogna fare i conti con la giustizia, come sancito, almeno in primo grado, dalla pronunzia numero 38912, depositata il 31 dicembre 2012 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Livorno. Post incriminato. Casus belli , nella vita reale, un rapporto di lavoro complicato una ragazza riesce ad entrare a far parte dello staff di un centro estetico, ma l’esperienza dura poco, e lascia strascichi pesanti A dimostrarlo la rabbia espressa dalla ragazza con alcuni post sul proprio profilo personale di Facebook , post certo non simpatici tra l’altro, si legge “vi consiglio vivamente di non andare al centro ”, “sono dei pezzi di m ”, e “sei un albanese di m ”, passaggio, quest’ultimo, rivolto alla persona del titolare del centro. Ma così come i post su Facebook rimangono sempre visibili, seppur sostituiti, almeno come evidenza sulla page personale, da quelli più recenti in ordine cronologico, altrettanto visibili possono essere le conseguenze nella realtà Spazio pubblico. Esemplare testimonianza la reazione del titolare del centro, che ha presentato querela nei confronti della ex dipendente, ricordando che quest’ultima «aveva prestato attività lavorativa presso il centro, ma il rapporto aveva avuto breve durata», essendo stata, la ragazza, «licenziata per le inadempienze nello svolgimento delle mansioni lavorative», e ponendo in evidenza che successivamente al licenziamento l’ex dipendente «aveva pubblicato un messaggio sulla bacheca del proprio profilo Facebook dal contenuto volgare e dal tenore chiaramente denigratorio a proposito della professionalità del centro» per aggiungere poi «epiteti offensivi» nei confronti del titolare. Altrettanto esemplare, poi, la valutazione compiuta dal Gip, che ritiene assolutamente fondata la contestazione del reato di diffamazione. In premessa, comunque, viene ritenuta non credibile l’ipotesi, avanzata dal legale della ragazza, del «furto d’identità» online , anche perché «vi sono affermazioni come quella riferita al fatto di non avere ancora riscosso le retribuzioni arretrate che riconducono univocamente al trascorso rapporto lavorativo» col centro estetico. Di conseguenza, «non vi sono dubbi sulla riferibilità soggettiva degli scritti incriminati» e sul fatto che «i pregressi rapporti professionali tra le parti abbiano costituito il movente per l’uso improprio del mezzo informatico di comunicazione». Altrettanto indubbio è il «danno del decoro e della reputazione» dell’ex datore di lavoro «contro cui erano diretti i pubblici sfoghi», manifestati «nel trattare l’argomento con altri soggetti partecipanti» alla realtà virtuale del web e «facenti parte del medesimo gruppo di ‘amici’». Ma ciò che conta, ed è assolutamente acclarato, evidenzia il Gip, è la volontà di rendere pubblici quegli sfoghi. Perché «gli utenti del social network sono consapevoli, e anzi in genere tale effetto non è solo accettato ma è indubbiamente voluto, del fatto che altre persone possano prendere visione delle informazioni scambiate in rete». Difatti, sottolinea ancora il Gip, «è nota agli utenti di Facebook l’eventualità che altri possano, in qualche modo, individuare e riconoscere le tracce e le informazioni lasciate in un determinato momento sul sito, anche a prescindere dal loro consenso», tanto da sottrarre il materiale pubblicato «dalla disponibilità dell’autore» e destinato addirittura a sopravvivere «alla stessa eventuale cancellazione dal social network ». Conseguenze? Lapalissiane, secondo il Gip, perché l’uso di «espressioni di valenza denigratoria», senza dubbio, «integra gli estremi della diffamazione», proprio alla luce «del detto carattere pubblico del contesto in cui quelle espressioni sono manifestate della sua conoscenza da parte di più persone della possibile sua incontrollata diffusione tra i partecipanti alla rete del social network ». Volendo sintetizzare, ci si trova di fronte, in questa vicenda, a un episodio di «diffamazione aggravata dall’avere arrecato l’offesa con un mezzo di pubblicità» ed equiparata «alla diffamazione connessa con il mezzo della stampa», soprattutto tenendo presente «la precisa individuabilità del destinatario delle manifestazioni ingiuriose» «la comunicazione con più persone alla luce del carattere pubblico dello spazio virtuale in cui si diffonde la manifestazione del pensiero del partecipante, che entra in relazione con un numero potenzialmente indeterminato di partecipanti e quindi la conoscenza da parte di più persone e la possibile sua incontrollata diffusione» «la coscienza e volontà di usare espressioni oggettivamente idonee a recare offesa al decoro, onore e reputazione del soggetto passivo». Consequenziale è l’affermazione della «penale responsabilità» della ragazza, condanna a pagare 1.000 euro di multa e a versare 3.000 euro come risarcimento dei danni all’ex datore di lavoro.
Tribunale di Livorno, ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari, sentenza 2 ottobre – 31 dicembre 2012, numero 38912 Dr. Antonio Pirato Motivi della decisione in fatto e in diritto Con richiesta di rinvio a giudizio depositata dal P.m. il 5.1.2012 M. R. veniva tratta a giudizio con l'accusa di avere commesso il reato di cui all'articolo 595 comma 3 c.p. pubblicando si Facebook i messaggi offensivi descritti nel capo d'imputazione in epigrafe trascritti, a proposito del centro estetico gestito a Livorno dal querelante G.P Quest'ultimo, ritenendosi leso nella sua reputazione, in data 10.5.2011 proponeva atto di querela contro la M. affinché venisse perseguita penalmente per il reato di cui all'articolo 595 e all'udienza preliminare si costituiva parte civile. Il difensore dell'imputata nel corso dell'udienza preliminare otteneva che il procedimento venisse trattato con le forme del rito abbreviato e all'odierna udienza, udita la discussione e le conclusioni delle parti, veniva pronunciata sentenza mediante lettura del dispositivo. Nell'atto di querela la persona offesa rappresentava in particolare che l'odierna prevenuta aveva prestato attività lavorativa alle sue dipendenze presso il centro estetico ma il rapporto aveva avuto breve durata essendo stata la dipendente licenziata per le inadempienze nello svolgimento delle mansioni lavorative. Lamentava il querelante che il successivo 9 maggio 2011 la ex dipendente aveva pubblicato un messaggio sulla bacheca del proprio profilo Facebook dal contenuto volgare e tenore chiaramente denigratorio a proposito dell'aspetto della professionalità del centro estetico . sono persone che non lavorano seriamente” fa onco ai bai 1 sconsigliando a chiunque di frequentarlo cfr. doc. numero 5 allegato alla querela . La M., inoltre, nel conversare con altri amici sempre su facebook si esprimeva con epiteti offensivi con riferimento al gestore del centro estetico sei proprio un a .e di merda 2 . sono dei pezzi di merda . Valuta questo G.U.P. che le risultanze istruttorie siano idonee a fondare l'ipotesi accusatoria. Non v'è dubbio che le espressioni sopra riportate provengano da M.R Le argomentazioni difensive svolte in sede di discussione finale si sono incentrate essenzialmente sulla pretesa impossibilità di attribuire con certezza la paternità di uno scritto o un messaggio al titolare apparente del profilo dalla cui fonte quello scritto proviene potendo sotto quella apparente identità celarsi un soggetto autore diverso dal titolare del profilo che avrebbe operato sostanzialmente un furto d'identità , scrivendo sotto falso nome utilizzando indebitamente l'altrui profilo. La tesi difensiva non ha pregio. È pacifico e non è contestato dalla difesa il presupposto antefatto e cioè che la M. abbia lavorato presso il suddetto Centro Estetico ed infatti uno dei partecipanti alla conversazione si rivolge a R. M. - che aveva appena pubblicato sulla propria bacheca la frase vi consiglio vivamente di non andare x chi lo conosca al centro estetico . perché fa onco ai bai, sono persone che non lavorano seriamente - dicendole perché? Non ci lavoravi?. e la M. risponde si, ma ora è un mesetto che non ci lavoro più, e meno maleV e poi, aggiunge la frase sopra riportata sei proprio un a******e di merda cfr. a pag 5 del fascicolo delle indagini preliminari . Vi sono inoltre altre affermazioni della M. come quella riferita al fatto di non avere ancora riscosso le retribuzioni arretrate che riconducono univocamente al trascorso rapporto lavorativo tra lei e il Centro estetico gestito dal querelante. Non vi sono perciò dubbi sulla riferibilità soggettiva degli scritti incriminati all'odierna imputata e che i pregressi rapporti professionali tra le parti abbiano costituito il movente per l'uso improprio del mezzo informatico di comunicazione in danno del decoro e della reputazione del proprio ex datore di lavoro contro cui erano diretti i pubblici sfoghi manifestati dalla M. nel trattare l'argomento con altri soggetti partecipanti e facenti parte del medesimo gruppo di amici. Ai fini della valutazione relativa alla configurabilità del reato di diffamazione in contestazione giova premettere brevi notazioni sul funzionamento del sito web denominato Facebook che oggi è considerato il più diffuso e popolare dei social network ad accesso gratuito, vale a dire una cosiddetta rete sociale in cui può essere coinvolto un numero indeterminato di utenti o di navigatori Internet che tramite questo sito web entrano in relazione tra loro pubblicando e/o scambiandosi contenuti che sono visibili altri utenti facenti parte dello stesso gruppo o comunque a questo collegati. All'interno di esso gli utenti possono creare propri profili personali su cui pubblicare fotografie, video, informazioni personali e liste di interessi e aderire ad un gruppo di cosiddetti amici . Per ciò che qui maggiormente rileva, Facebook consente agli utenti di fruire di alcuni servizi tra i quali l'invio e la ricezione di messaggi, rilascio di commenti, fino alla possibilità di scrivere sulla bacheca di altri amici, decidendo di impostare diversi livelli di condivisione di tali informazioni. È evidente che gli utenti del social network sono consapevoli, e anzi in genere tale effetto non è solo accettato ma è indubbiamente voluto, del fatto che altre persone possano prendere visione delle informazioni scambiate in rete. Infatti, è nota agli utenti di Facebook l'eventualità che altri possano in qualche modo individuare e riconoscere le tracce e le informazioni lasciate in un determinato momento sul sito, anche a prescindere dal loro consenso trattasi dell'attività di ed. tagging che consente, ad esempio, di copiare messaggi e foto pubblicati in bacheca e nel profilo altrui oppure email e conversazioni in chat , che di fatto sottrae questo materiale dalla disponibilità dell'autore e sopravvive alla stessa sua eventuale cancellazione dal social network. L'uso di espressioni di valenza denigratoria e lesiva della reputazione del profilo professionale della parte civile integra sicuramente gli estremi della diffamazione alla luce del detto carattere pubblico del contesto in cui quelle espressioni sono manifestate, della sua conoscenza da parte di più persone e della possibile sua incontrollata diffusione tra i partecipanti alla rete del social network. Lo specifico episodio in trattazione va più esattamente qualificato come delitto di diffamazione aggravato dall'avere arrecato l'offesa con un mezzo di pubblicità fattispecie considerata al comma terzo dell'articolo 595 c.p. e equiparata, sotto il profilo sanzionatorio, alla diffamazione commessa con il mezzo della stampa . Della diffamazione sussistono tutti gli estremi essenziali - la precisa individuabilità del destinatario delle manifestazioni ingiuriose nel caso di specie la M. ha espressamente fatto riferimento al Centro Estetico ETEREA nel quale ha lavorato come dipendente - la comunicazione con più persone alla luce del cennato carattere pubblico dello spazio virtuale in cui si diffonde la manifestazione del pensiero del partecipante che entra in relazione con un numero potenzialmente indeterminato di partecipanti e quindi la conoscenza da parte di più persone e la possibile sua incontrollata diffusione. - La coscienza e volontà di usare espressioni oggettivamente idonee a recare offesa al decoro, onore e reputazione del soggetto passivo. Si giunge agevolmente a ritenere che l'utilizzo di Internet integri l'ipotesi aggravata di cui all'articolo 595, co. 3, c.p. offesa recata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità , poiché la particolare diffusività del mezzo usato per propagare il messaggio denigratorio rende l'agente meritevole di un più severo trattamento penale. Affermata conclusivamente la penale responsabilità dell'imputata in riferimento al reato a lei contestato, in ragione della sua incensuratezza e del concreto contesto da cui ha preso spunto il fatto nonché valutato il concreto grado del dolo ,possono riconoscersi alla M. le attenuanti generiche e quantificare la pena in quella di euro 1.000,00 di multa per effetto della riduzione di un terzo per effetto della scelta del rito . All'accertamento del reato consegue ex lege la condanna dell'imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile nei termini di cui al dispositivo che segue. P.Q.M. Visti gli articolo 438 e ss., 533 e 535, c.p.p. DICHIARA M.R. colpevole del reato a lei ascritto e concesse le attenuanti generiche, la CONDANNA alla pena di euro 1.000,00 di multa. Visti gli articolo 163 e 175, c.p. CONCEDE All'imputata i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna sul certificato del casellario giudiziale a richiesta dei privati. Visto l'articolo 538 c.p.p. CONDANNA M.R. a risarcire il danno sofferto dalla parte civile costituita, P.G., che si liquida in euro 3.000,00 oltre interessi di mora al tasso legale dalla odierna liquidazione al saldo oltre alla rifusione delle spese di costituzione di parte civile che si liquidano in complessive euro 1.500 oltre IVA e CAP di legge Motivazione entro giorni 90. 1 Espressione gergale tipica del dialetto livornese che può essere tradotto in questi termini fa vomitare i bachi vermi 2 alludendo chiaramente alla nazionalità di G.P. che infatti è a lbanes e.