In comunità anche se indagato per associazione finalizzata al traffico di stupefacenti

Collocamento in comunità in luogo della custodia cautelare in carcere nessuna preclusione per l’indagato di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti.

La presunzione sancita dall’articolo 89 comma 4 d.p.r. numero 309/90 - secondo cui il reato di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti osta al collocamento in comunità del tossicodipendente indagato - è solo relativa e non assoluta. Ci si deve inchinare al principio affermato dalla Corte costituzionale sent. numero 231/2011 , relativo alla gravità delle esigenze cautelari da fronteggiare e dall’impossibilità di avvalersi di misure meno afflittive. Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza numero 17010/2012, depositata l’8 maggio. Il caso. Un indagato per associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti si vedeva rigettare dal GUP la richiesta di collocamento in comunità quale alternativa alla custodia cautelare in carcere, decisione che anche il Tribunale della Libertà confermava. Il giovane però ricorreva per cassazione denunciando la violazione di legge in cui sarebbero incorsi i giudici nell’applicazione della misura cautelare, assumendo, in particolare, che non era stata rivalutata la sussistenza delle esigenze cautelari e della loro rilevante eccezionalità, anche alla stregua della lettura fatta dalla recente giurisprudenza della Corte Costituzionale. Programma terapeutico in corso per il tossicodipendente Il Testo Unico sugli stupefacenti d.p.r. numero 309/90 ha previsto la possibilità che, quando ricorrono i presupposti per la custodia cautelare in carcere, i provvedimenti restrittivi della libertà da disporre a carico di soggetti tossicodipendenti possano essere eseguiti con la misura degli arresti domiciliari presso i servizi pubblici per l’assistenza degli stessi ovvero nell’ambito di una struttura privata autorizzata. Conditio sine qua non è che il programma terapeutico sia in corso e sussista il pericolo che la sua interruzione pregiudichi il recupero del tossicodipendente. o volontà di sottoporsi a programma terapeutico. Possibile è la sostituzione della custodia cautelare in carcere anche quando il tossicodipendente indagato voglia sottoporsi a programma di recupero, purché non sussistano esigenze cautelari di eccezionale gravità. L’ostacolo dei delitti ex articolo 4 bis L. numero 374/75 e s.m.i. La lettera del d.p.r. citato esclude però la possibilità di sostituzione del carcere con il collocamento in comunità per quei reati previsti come caratterizzanti da una particolare pericolosità da parte della legge sull’ordinamento penitenziario, reati tra i quali rientra proprio la fattispecie addebitata all’indagato, cioè l’associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. superato dal ragionamento analogo effettuato dalla sentenza costituzionale numero 231 del 2011. Il Giudice delle Leggi ha di recente avuto modo di chiarire come l’articolo 275 co. 3 c.p.p. – modificato dal d.l. 11/09 convertito con modificazioni dalla L. 38/09 – disciplinando i criteri di scelta delle misure cautelari alla stregua del principio di adeguatezza, sia incostituzionale nella parte in cui non considera la possibilità di soddisfare, sulla base degli specifici elementi acquisiti in concreto, le esigenze cautelari con misure diverse dalla custodia cautelare in carcere. Distinguo con l’associazione mafiosa. Richiamando la pronuncia costituzionale, la Cassazione distingue la fattispecie in esame da quella mafiosa, sottolineando che il delitto di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti non postula necessariamente una struttura complessa, gerarchica, radicata sul territorio, come tipizzata da quella mafiosa, di talché difetta quella regola di esperienza secondo cui la custodia in carcere rappresenterebbe l’unica via idonea a soddisfare le esigenze cautelari. Le gravi esigenze cautelari. La gravità delle esigenze cautelari necessarie invece a ritenere che la custodia in carcere sia l’unica misura idonea non può desumersi in via assoluta dalla gravità del reato addebitato, deducibile dalla pena edittale comminata in astratto, né dall’esigenza di ridurre o eliminare l’allarme sociale, in quanto detta funzione non rientra tra gli scopi della custodia cautelare.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 18 gennaio – 8 maggio 2012, numero 17010 Presidente Esposito – Relatore Diotallevi Ritenuto in fatto D.L.A. ha proposto ricorso per cassazione avverso l'ordinanza Tribunale della Libertà di Catanzaro in data 1 settembre 2011, con la quale, è stato dichiarato inammissibile il ricorso avverso l'ordinanza del G.U.P., del Tribunale di Catanzaro che in data 5 giugno 2011, ha rigettato la richiesta di collocamento in comunità avanzata ex articolo 89 D.P.R. 309/90. A sostegno dell'impugnazione il D.L. ha dedotto a Violazione dell'articolo 606, comma 1 lett. b c.p.p Il ricorrente lamenta la omessa rivalutazione della sussistenza delle esigenze cautelari e della loro rilevante eccezionalità, con conseguente applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, anche alla luce della sentenza della Corte costituzionale numero 231 del 19 luglio 2011, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3 secondo periodo del c.p.p., nella parte in cui, nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'articolo 74 del d.P.r. 9 ottobre 1990, numero 309, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva altresì l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, come era stato richiesto nel ricorso non accolto. Considerato in diritto 1. - Il ricorso è fondato e deve essere pertanto annullata l'ordinanza impugnata. 2. - Osserva la Corte che, nel provvedimento oggetto di ricorso il Tribunale ha posto a base della sua decisione la previsione normativa di cui all'articolo 89, comma 4 del D.P.R. numero 309/90 secondo cui Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 non si applicano quando si procede per uno dei delitti previsti dall'articolo 4 bis della legge 26 luglio numero 354, tra i quali è menzionato proprio quello sanzionato dall'articolo 74, D.P.R. 309/90, circostanza che precluderebbe a priori l'applicabilità della normativa invocata dal ricorrente il collegio, tuttavia, non ha tenuto in considerazione che nelle more della celebrazione del procedimento, è stata dichiarato costituzionalmente illegittimo l'articolo 275, comma 3, secondo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall'articolo 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, numero 11 Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori , convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, numero 38, nella parte in cui, nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'articolo 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, numero 309 è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure Sent. Corte cost., numero 231 del 19 luglio 2011, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 28 luglio 2011 . Nella circostanza la Corte ha sottolineato che la norma censurata è già stata dichiarata costituzionalmente illegittima sia nella parte in cui configura una presunzione assoluta, anziché soltanto relativa, di adeguatezza della sola custodia in carcere a soddisfare le esigenze cautelari nei confronti della persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza per taluni delitti a sfondo sessuale sent. numero 265 del 2010 , sia nella parte in cui assoggetta a detta presunzione assoluta anche il delitto di Ndr testo originale non comprensibile assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere riferita al delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, rispetto al quale non sussiste la ratio giustificativa del regime derogatorio già ravvisata in rapporto ai delitti di mafia ossia che dalla struttura stessa della fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche deriva, nella generalità dei casi e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in carcere, non essendo le misure minori sufficienti a troncare i rapporti tra l'indiziato e l'ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità. La Corte ha infatti sottolineato che il delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, si concreta in una forma speciale del delitto di associazione per delinquere, qualificata unicamente dalla natura dei reati-fine i delitti previsti dall'articolo 73 del d.P.R. numero 309 del 1990 e non postula necessariamente la creazione di una struttura complessa e gerarchicamente ordinata, né l'esistenza di radicamenti sul territorio o di particolari collegamenti personali e, soprattutto, di specifiche connotazione del vincolo associativo, così difettando quelle peculiari connotazioni idonee a fornire una congrua regola di esperienza, secondo la quale la custodia carceraria sarebbe l'unico strumento idoneo a fronteggiare le esigenze cautelari. Da ciò consegue che la norma censurata viola, in parte qua, sia l'articolo 3 Cost., per l'ingiustificata parificazione del procedimento relativo al delitto considerato a quelli concernenti i delitti di mafia, nonché per l'irrazionale assoggettamento a un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai relativi paradigmi punitivi sia l'articolo 13, primo comma, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale, imponendo il massimo sacrificio di tale bene primario all'esito di un giudizio di bilanciamento non corretto, in quanto non rispettoso del principio di ragionevolezza sia, infine, l'articolo 27, secondo comma, Cost., in quanto attribuisce alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena. Né la presunzione assoluta censurata può trovare legittimazione costituzionale nella gravità astratta del delitto associativo in oggetto, desumibile dalla severità della pena edittale, o nell'esigenza di eliminare o ridurre situazioni di allarme sociale la gravità astratta del reato, considerata in rapporto alla misura della pena o alla natura dell'interesse protetto, è invero elemento significativo in sede di giudizio di colpevolezza, ma inidoneo a fungere da elemento preclusivo della verifica del grado delle esigenze cautelari e all'individuazione della misura concretamente idonea a farvi fronte ed, inoltre, il contenimento dell'allarme sociale causato dal reato non può essere annoverato tra le finalità della custodia cautelare, costituendo una funzione istituzionale della pena, perché presuppone la certezza circa il responsabile del delitto che ha provocato l'allarme. 3 Pertanto, a parere del Collegio, la presunzione assoluta sancita dalla norma censurata va trasformata, anche in rapporto al delitto oggetto dell'odierno proceduto, in presunzione solo relativa. Tale circostanza comporta necessariamente una valutazione del ricorso alla luce del principio di diritto affermato dalla Corte costituzionale, con conseguente annullamento dell'ordinanza impugnata e trasmissione degli atti al Tribunale di Catanzaro per nuovo esame. P.Q.M. Annulla con rinvio, l'ordinanza impugnata e dispone trasmettersi gli atti al Tribunale di Catanzaro per nuovo esame.