Fatale la penna la lettera scritta agli esponenti dell’azienda si rivela un boomerang per l’uomo. Decisivo l’utilizzo del termine ‘lestofante’, che, nonostante l’evoluzione dei tempi e del linguaggio, conserva intatto il suo potenziale offensivo E la posizione non è resa meno grave dall’ipotesi della reazione, che non regge è legittimo, di fronte a una pretesa controversa, l’atteggiamento della parte che a quella pretesa intende resistere.
Diritto leso? Pretesa giuridica ancora senza alcuna risposta? Legittimo il malumore, meno il ricorso all’opzione dell’aggressione verbale. Soprattutto se il termine utilizzato è, nonostante l’evoluzione dei tempi e del linguaggio, da considerare ancora assolutamente offensivo Cassazione, sentenza numero 45663/2012, Quinta Sezione Penale, depositata oggi . Pecunia. Sistemate su un ideale tavolo le competenze che spettano – spetterebbero – a un rappresentante di gioielli. Ma la materializzazione di quei soldi è bloccata, a causa della linea tenuta dall’azienda – che punta tutto sull’arte orafa italiana –, una linea basata sul prender tempo e sul rivendicare, a proprio favore, «somme trattenute» dall’oramai ex collaboratore. Atteggiamento, quello degli esponenti dell’azienda, che irrita, e non poco, il rappresentante, che reagisce scrivendo loro una dura lettera. Che si trasforma, però, in un clamoroso boomerang Fatale è l’utilizzo del termine ‘lestofanti’, più precisamente la frase «il vostro modo di operare da lestofanti » e così l’uomo si ritrova condannato – prima dinanzi al Giudice di pace, poi in Tribunale – per il reato di ingiuria, con annesso risarcimento del danno. Dilazione legittima. Secondo il rappresentante, però, la pronunzia di condanna è minata alle fondamenta da una tara la mancata considerazione del contesto in cui si è verificato l’episodio, ora all’attenzione dei giudici. Ossia, per essere più espliciti, la ‘guerra di nervi’, tra azienda e collaboratore, relativa alle pendenze economiche connesse alla chiusura del rapporto. Secondo l’uomo, in questa ottica «la lettera indirizzata alla ditta costituiva una comprensibile reazione» di fronte all’atteggiamento «omissivo e dilatorio» tenuto dalla ditta stessa. Non di offesa, ma di critica, piuttosto, si sarebbe dovuto parlare, secondo l’uomo E, in effetti, il quadro complessivo viene valutato dai giudici della Cassazione, i quali non nascondono che «tra soggetti che abbiano rapporti commerciali, e, dunque, reciproche posizioni debitorie e creditorie, sia possibile la contestazione delle altrui pretese», anche col ricorso a «una particolare forma di critica», ma, in questa specifica vicenda, è stato superato il «limite della continenza». Perché nessun dubbio può esistere sul significato del termine ‘lestofante’, ossia ‘imbroglione’ – come da vocabolario ‘Treccani’ –, né è lecito considerare la linea seguita dalla ditta – che «non aveva versato il dovuto e non documentava, in tempi ragionevoli, la situazione debito-credito» coll’ex collaboratore – come «atteggiamento aprioristicamente arbitrario e provocatorio», soprattutto tenendo presente che ci si trova di fronte a una «pretesa giuridica controversa». Conseguenza logica, quindi, è la conferma, anche in Cassazione, della condanna per ingiuria nei confronti dell’uomo.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 9 ottobre – 22 novembre 2012, numero 45663 Presidente Teresi – Relatore Fumo Rilevato in fatto 1. Il tribunale di Macerata, giudice di secondo grado, con la sentenza di cui in epigrafe, ha rigettato l’appello proposto da C.M. avverso la sentenza del giudice di pace di Civitanova Marche, con la qua e il predetto era stato condannato alla pena di giustizia - oltre risarcimento danno - perché riconosciuto colpevole del delitto di cui all’articolo 594 c.p. per avere offeso l’onore e il decoro di M.G. cui indirizzava una lettera, quale legale rappresentante della O.G., lettera che conteneva e seguenti, espressioni ingiuriose “il vostro modo di operare da lestofanti Il vostro modo di agire ambiguo”. 2. Ricorre per cassazione il difensore dell’imputato e deduce inosservanza ed errata applicazione della legge penale con particolare riferimento all’esercizio del diritto di critica, omessa applicazione della causa di non punibilità di cui all’articolo 599 c.p. e mancanza e illogicità manifesta della motivazione, argomentando come segue. 2.1. I giudici di merito non hanno tenuto conto del contesto in cui la lettera fu sottoscritta e inviata. L’imputato, rappresentante di gioielli, richiedeva alla ditta O. l’estratto-conto e la liquidazione delle sue competenze. La O., a sua volta, chiedeva al C. il versamento di somme che, a suo dire, il predetto aveva illecitamente trattenuto. Ebbene, non si comprende per quale motivo non sia stato riconosciuto l’esercizio del diritto di critica, al limite come esercizio putativo, atteso che - ad esempio - la giurisprudenza ha ritenuto che l’attribuzione del termine “latitante” a un amministratore di condominio rappresentava espressione di una legittima critica nei confronti dell’operato del predetto. La lettera indirizzata alla ditta O. costituiva una comprensibile reazione ad un atteggiamento omissivo e dilatarlo della stessa. E’ errato ritenere, come fa il giudice di appello, che l’imputato pretenda di essere titolare di un diritto all’insulto, anche perché il termine “lestofante” ha un contenuto sostanzialmente scherzoso. Considerato in diritto 1. Non è dubbio che tra soggetti che abbiano rapporti commerciali e, dunque, reciproche posizioni debitorie e creditorie, sia possibile, oltre che frequente, la contestazione delle altrui pretese e - dunque - una particolare forma di diritto di critica. 1.1. Come noto, però, consolidata giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, anche nel diritto di critica, va rispettato, tra gli altri, il limite della continenza, che consiste nel non adoperare espressioni gratuitamente offensive, quando lo stesso concetto possa essere espresso con frasi e parole corrette. Orbene il termine “lestofante” sta a significare ciurmatore, imbroglione, persona disonesta. In relazione a tale censura, dunque, il ricorso appare infondato. 2. Il ricorrente, tuttavia, come anticipato, sostiene – subordinatamente - la sussistenza della causa di non punibilità di cui all’articolo 599 c.p., affermando che le sua fu una reazione a una condotta scorretta da parte della ditta O., che non aveva versato il dovuto e che non documentava - in tempi ragionevoli - le situazione debito/credito con il C. Sul punto, in realtà, i giudici di merito non sembrano aver ricostruito compiutamente la vicenda e tuttavia si deve osservare che, in presenza di una pretesa giuridica controversa, non può ritenersi aprioristicamente arbitrario e quindi provocatorio l’atteggiamento di chi a tale pretesa intenda resistere, dovendo essere attivati ben altri strumenti diversi dalla aggressione verbale per l’accertamento del diritto. 3. Conclusivamente il ricorso merita rigetto e il ricorrente va condannato alle spese del grado. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.