Il licenziamento per cessata attività esclude l’indennità di maternità per la lavoratrice madre

Respinta definitivamente la richiesta presentata dalla donna nei confronti dell’INPS. Decisiva, secondo i giudici, la constatazione che ella è stata licenziata a causa della cessazione dell’attività alla quale era addetta.

Cessata l’attività dell’azienda e la dipendente in gravidanza deve dire addio al posto di lavoro e deve rinunciare all’indennità di maternità Cassazione, ordinanza numero 13861/21 sez. VI Civile, depositata il 20 maggio 2021 Concordi i giudici di merito priva di fondamento la richiesta della lavoratrice nei confronti dell’INPS, richiesta mirata all’ottenimento della indennità di maternità nel periodo di astensione facoltativa per puerperio. In particolare, in Appello viene evidenziato che «la lavoratrice è stata licenziata per cessazione dell’attività della azienda» nell’estate del 2012 e quindi «non ha diritto alla indennità, trattandosi di causa di recesso derogativa rispetto al generale divieto di licenziamento della lavoratrice madre stabilito dalla legge numero 151 del 2001». Col ricorso in Cassazione la lavoratrice contesta le valutazioni dei giudici di merito, sostenendo che essi hanno compiuto un errore con l’affermare che «il divieto di licenziamento della lavoratrice madre è escluso solo nel caso di cessazione totale dell’attività aziendale, non valutando l’operatività del divieto anche nel caso di cessazione dell’attività di un ramo d’azienda o reparto autonomo cui la lavoratrice è addetta». In premessa, però, i Giudici di terzo grado osservano che, come evidenziato in Appello, «la lavoratrice è stata licenziata a causa della cessazione dell’attività alla quale era addetta e che ella non ha mai eccepito nel corso del giudizio, neppure incidenter tantum e neppure a seguito della costituzione in giudizio dell’INPS, la nullità del licenziamento, così come mai ha dedotto che la cessazione dell’attività alla quale era addetta riguardasse solo una unità produttiva e non l’intera azienda». Correttamente, quindi, si è ritenuto «non operativo il divieto di licenziamento sancito dalla l. numero 151/2001, in quanto riferito, secondo le circostanze acquisite nel processo, ad una situazione di totale cessazione della attività dell’azienda alla quale la lavoratrice era addetta», chiariscono i Giudici. A inchiodare l’azienda è la mancanza di prove in merito alla ipotesi di «cessazione solo parziale dell’attività aziendale del singolo ramo o reparto cui era addetta ». Ciò porta alla conferma della decisione presa in secondo grado, laddove si è applicata «la norma relativa al divieto di licenziamento della lavoratrice madre» con inevitabili «conseguenze quanto alle tutele indennità di maternità ». Decisione in linea, infine, col principio secondo cui «in tema di tutela della lavoratrice madre, la deroga al divieto di licenziamento, dall’inizio della gestazione fino al compimento dell’età di un anno del bambino, opera solo in caso di cessazione dell’intera attività aziendale, sicché, trattandosi di fattispecie normativa di stretta interpretazione, essa non può essere applicata in via estensiva od analogica alle ipotesi di cessazione dell’attività di un singolo reparto dell’azienda, ancorché dotato di autonomia funzionale».

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – L, ordinanza 11 febbraio – 20 maggio 2021, numero 13861 Presidente Doronzo – Relatore Leone Rilevato che La Corte di appello di Bari con la sentenza numero 1111/2019 aveva rigettato l’appello proposto da M.A.R. avverso la decisione con cui il tribunale aveva rigettato la domanda proposta nei confronti dell’Inps, diretta ad ottenere l’indennità di maternità nel periodo di astensione facoltativa per puerperio. La Corte territoriale aveva ritenuto, confermando la decisione di primo grado, che, essendo stata la lavoratrice licenziata per cessazione dell’attività della azienda, alla quale era addetta, in data 4.6.2012, non avesse diritto alla indennità, trattandosi di causa di recesso derogativa rispetto al generale divieto di licenziamento della lavoratrice madre stabilito dalla L. numero 151 del 2001 articolo 54 . Avverso detta decisione la M. proponeva ricorso affidato ad un motivo cui resisteva l’Inps con controricorso. Veniva depositata proposta ai sensi dell’articolo 380-bis c.p.c., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di Consiglio. La M. depositava successiva memoria. Considerato che 1 Con unico motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. numero 151 del 2001, articolo 54, comma 3, lett. b , per avere, la corte di appello, erroneamente affermato che il divieto di licenziamento della lavoratrice madre è escluso solo nel caso di cessazione totale dell’attività aziendale, non valutando l’operatività del divieto anche nel caso di cessazione dell’attività di un ramo d’azienda o reparto autonomo cui la lavoratrice è addetta. Deve premettersi che la corte territoriale ha posto in evidenza nella sua decisione che la ricorrente era stata licenziata a causa della cessazione dell’attività alla quale era addetta e che la stessa non aveva mai eccepito nel corso del giudizio, neppure incidenter tantum e neppure a seguito della costituzione in giudizio dell’Inps, la nullità del licenziamento, così come mai aveva dedotto che la cessazione dell’attività alla quale era addetta riguardasse solo una unità produttiva e non l’intera azienda. Sulla base di tali premesse in fatto il giudice d’appello ha ritenuto non operativo il divieto di licenziamento sancito dalla L. numero 151 del 2001 articolo 54 , in quanto riferito, secondo le circostanze acquisite nel processo, ad una situazione di totale cessazione della attività dell’azienda alla quale la lavoratrice era addetta. Rispetto a tale statuizione la ricorrente rileva in questa sede che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto non applicabile il divieto di licenziamento alla ipotesi di cessazione di un ramo dell’attività aziendale o di un autonomo reparto cui la lavoratrice era addetta. A tal proposito ha richiamato precedente di questa Corte Cass. numero 14515/2018 attestativo del divieto in tal senso esistente. Deve rilevarsi che la censura non coglie il decisum. La ricorrente, a fronte della statuizione circa l’assenza di allegazioni in ordine alla ipotesi di cessazione solo parziale dell’attività aziendale del singolo ramo o reparto cui era addetta , nulla ha controdedotto e specificamente allegato, limitandosi soltanto a richiamare principi di diritto circa l’automaticità della tutela rispetto allo status in cui versava al momento del recesso. La ricorrente non ha infatti allegato ed inserito nella censura la lettera di recesso, le circostanze di fatto circa la parziale chiusura aziendale e la indicazione di dove, come e quando tali circostanze fossero state poste concretamente all’interno degli atti processuali. Il motivo di violazione di legge proposto non trova, pertanto, nessun appiglio nella statuizione in quanto la corte di merito non ha errato nell’applicare la norma relativa al divieto di licenziamento della lavoratrice madre ed a trarne conseguenze quanto alle tutele indennità di maternità , poiché la circostanza di parziale cessazione dell’attività è rimasta estranea alle allegazioni proposte. Pertanto, in continuità con il principio secondo cui in tema di tutela della lavoratrice madre, la deroga al divieto di licenziamento di cui al D.Lgs. numero 151 del 2001, articolo 54, comma 3, lett. b , dall’inizio della gestazione fino al compimento dell’età di un anno del bambino, opera solo in caso di cessazione dell’intera attività aziendale, sicché, trattandosi di fattispecie normativa di stretta interpretazione, essa non può essere applicata in via estensiva od analogica alle ipotesi di cessazione dell’attività di un singolo reparto dell’azienda, ancorché dotato di autonomia funzionale Cass. 22720/2017 , deve ritenersi che nel caso in esame unitamente alla oggettività dello status di lavoratrice madre della ricorrente, al fine della tutela invocata, dovevano essere allegate nel processo le circostanze di fatto necessarie alla applicazione del disposto normativo, quali la parzialità della chiusura aziendale e la ragione concreta del recesso datoriale. La censura risulta quindi priva della necessaria specificazione rispetto alla statuizione assunta nella decisione impugnata. Il ricorso va rigettato. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in favore della parte controricorrente nella misura di cui al dispositivo. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, numero 115, articolo 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, numero 228, articolo 1, comma 17 legge di stabilità 2013 . P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 1.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per spese oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. numero 115 del 2002, articolo 13, comma quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis.