Rotti i rapporti, vuole indietro i costi della ristrutturazione. La suocera chiede invece 90mln di lire per i pasti arretrati

La suocera lamenta violazione dell’articolo 936 c.c., perché per l’integrazione di tale fattispecie sarebbe necessario che l’opus oggetto di trasformazione sia dotato di autonomia. Ma la Cassazione rileva che stabilire quali e quante opere possano considerarsi finalisticamente destinate all’accrescimento del valore del bene immobile del terzo costituisce una questione di fatto rimessa all’insindacabile valutazione del giudice di merito.

Così ha deciso la Corte di Cassazione, con la sentenza numero 5063, depositata il 28 febbraio 2013. Lavori di ristrutturazione nella futura casa coniugale. Una coppia convive nella casa di lei, o meglio, della madre di lei. La prospettiva è quella di sposarsi e di rendere quella, la loro casa coniugale. Lui si prodiga per renderla anche un po’ sua e fa ampi lavori di ristrutturazione. Poi qualcosa si rompe, la coppia si separa. Si separano, ma la casa è di proprietà della suocera persi i costi dei lavori? Lui vede persi tutti i suoi sforzi, anche economici, li ritiene sostenuti invano. Agisce allora contro la suocera per avere la restituzione di 54mln di lire, pari al costo della mano d’opera e dei materiali impiegati per la ristrutturazione. Questa propone domanda riconvenzionale per 93mln di lire per i danni da lui arrecati all’immobile e «per i pasti consumati durante il fidanzamento». Condanna al pagamento per accessione. Il Tribunale accoglie la domanda, respingendo quella riconvenzionale. Condanna quindi la suocera al pagamento di 21mila euro, in base all’articolo 936, comma 2, c.c Tale norma prevede che nel caso di opere o costruzioni fatta nell’altrui proprietà, il proprietario ha il diritto di ritenerle o di obbligare chi le ha fatte a levarle. Nel caso di ritenzione, il proprietario «deve pagare a sua scelta il valore dei materiali e il prezzo della mano d’opera oppure l’aumento di valore recato al fondo». Ma come deve essere considerata un’opera di modificazione? La suocera lamenta violazione e falsa applicazione della norma civilistica. Innanzitutto perché non si potrebbero ricomprendere nell’indennizzo previsto dalla norma «le opere dirette alla demolizione, manutenzione o modificazione di manufatti già esistenti», ritenendo che sarebbe stato necessario, per integrare la fattispecie, che «l’opus oggetto di trasformazione fosse dotato di autonomia, dal punto di vista strutturale ed economico, rispetto al suolo cui accedeva ed il cui valore contribuiva ad arricchire». Stabilire quali opere accrescono il valore è una questione di fatto. La Cassazione rileva che la ricorrente non contesta la configurabilità della fattispecie dell’accessione, ma si limita a criticare l’applicazione della norma ad alcuni dei lavori eseguiti. Questa costituisce una «quaestio facti rimessa all’insindacabile valutazione del giudice di merito». Essa consiste nello «stabilire quali e quanti opere possano considerarsi finalisticamente destinate all’accrescimento del bene immobile del terzo». In sede di legittimità si possono solo rilevare vizi del ragionamento logico del giudice nel «raggiungere siffatto risultato interpretativo». Ma ha potuto scegliere tra rimborso dei costi e indennizzo per il maggior valore? L’altra doglianza della ricorrente consiste nel fatto di non aver potuto scegliere tra il pagare i costi delle opere e l’indennizzo per il maggior valore, perché con la condanna il giudice non li avrebbe messi in relazione. Non si conosceva il valore pre-lavori. La Corte ritiene infondato anche questo motivo di ricorso, poiché la corte di merito ha escluso «l’indennizzabilità di eventuali incrementi patrimoniali» derivanti dai lavori, essendo sconosciute le condizioni dell’immobile prime dell’effettuazione della ristrutturazione. La ricorrente avrebbe dovuto, per evitare l’applicazione dell’articolo 936 c.c. anche rispetto al rimborso dei costi vivi, l’inutilità dei lavori. Per questi motivi la Corte di Cassazione respinge il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 29 gennaio – 28 febbraio 2013, numero 5063 Presidente Oddo – Relatore Bianchini Svolgimento del processo 1 - C I. , con atto notificato il 28 aprile 1995, citò C F. innanzi al Tribunale di Siracusa, chiedendone la condanna al pagamento di lire 54.045.000, pari al valore della mano d'opera ed al costo dei materiali impiegati nella ristrutturazione di un immobile della predetta, sito in , esponendo di aver eseguito tali opere in quanto all'epoca era fidanzato con la figlia della convenuta, nella prospettiva che l'abitazione così ristrutturata avrebbe dovuto essere impiegata come futura casa coniugale, circostanza poi non verificatasi per la rottura dei rapporti con la predetta. La convenuta si costituì, opponendosi all'accoglimento delle richieste, svolgendo altresì domanda riconvenzionale per il pagamento di lire 93.040.000 di cui lire 6.000.000 per danni arrecati all'immobile ed il resto per i pasti consumati durante il fidanzamento. 2 - L'adito Tribunale accolse in parte le domande dell'I. condannando la F. al pagamento di Euro 21.000,00 oltre interessi, spese di CTU e due terzi delle spese di giudizio la F. interpose gravame che fu respinto dalla Corte di Appello di Catania con sentenza numero 285, pubblicata il 28 marzo 2006. 3- Il giudice dell'impugnazione disattese il motivo di gravame con cui si era evidenziata la mancata indicazione della causa petendi e la non riconducibilità della fattispecie - stante l'impostazione data alla domanda dall'I. - all'ipotesi di accessione né a quella di ingiustificato arricchimento né tanto meno a quella risarcitoria per rottura di fidanzamento a' sensi dell'articolo 81 cod. civ., ritenendo invece che l'originario petitum rientrasse nell'ipotesi disciplinata dall'articolo 936, II comma, cod. civ. e che alla minore quantificazione del dovuto si dovesse pervenire in considerazione della fornitura da parte della appellante dei materiali impiegati nella ristrutturazione. 3 - Per la cassazione di tale decisione ha proposto ricorso la F. , facendo valere due motivi l'I. ha risposto con controricorso. Motivi della decisione I - Con il primo motivo viene denunziata la violazione e falsa applicazione dell'articolo 936 cod. civ. avendo omesso la Corte territoriale di considerare che per aversi la fattispecie di opere fatte dal terzo con materiali propri su suolo altrui sarebbe stato necessario che P opus oggetto di trasformazione fosse dotato di autonomia, dal punto di vista strutturale ed economico, rispetto al suolo cui accedeva ed il cui valore contribuiva ad arricchire fattispecie dunque che avrebbe impedito alla Corte del merito di comprendere nell'indennizzo riconosciuto all'I. le opere dirette alla demolizione, manutenzione o modificazione di manufatti già esistenti. La - Come mezzo al fine viene formulato il seguente quesito di diritto, in ossequio all'onere risultante dall'articolo 366 bis cpc, applicabile ratione temporis Riferendosi l'articolo 936 c.c. al caso in cui la costruzione realizzata dal terzo presenti rispetto al suolo una propria autonomia, dal lato strutturale ed economico, di guisa da poter essere astrattamente idonea, per la sua capacità di utilizzazione, ad apportare un effettivo incremento al valore del suolo cui accede, devono escludersi dalla disciplina dettata dalla norma medesima tutte quelle opere eseguite dal terzo su suolo altrui che hanno comportato la mera demolizione, manutenzione o modificazione di manufatti già esistenti? II - Il motivo non è fondato in quanto, limitandosi la critica esposta a contestare l'applicazione della norma sopra richiamata ad alcuni soltanto dei lavori eseguiti e non confutando dunque - come invece appare essere accaduto in primo grado - la stessa configurabilità della fattispecie dell'accessione, costituisce una quaestio facti rimessa all'insindacabile valutazione del giudice del merito quella di stabilire quali e quante opere possano considerarsi finalisticamente destinate all'accrescimento del bene immobile del terzo, salva la presenza di vizi nel ragionamento logico seguito dal giudicante per raggiungere siffatto risultato interpretativo, vizi che però non hanno formato oggetto di rilievo. III — Sotto diverso ma concorrente profilo, con il secondo motivo parte ricorrente lamenta nuovamente la violazione delle medesima norma non avendo la Corte del merito messo in relazione gli esborsi e il valore dell'apporto lavorativo a carico dell'I. con l'incremento di valore che sarebbe originato dalle opere dello stesso, così da privare essa deducente della facoltà di scelta tra pagare i primi od indennizzare i secondi. III.a — La prospettazione non è fondata considerando che espressamente il giudice dell'appello escluse l’indennizzabilità di eventuali incrementi patrimoniali che, per effetto dei lavori, fossero derivati all'immobile della ricorrente, non essendo cognite le condizioni dello stesso prima della ristrutturazione, con l'effetto di onerare parte deducente della dimostrazione della inutilità sostanziale dei lavori intrapresi e, quindi, della non invocabilità del disposto dell'articolo 936 cod. civ. neppure per il costo delle opere poste in essere dal terzo. III.b - L'argomentazione appare in ogni caso nuova - e quindi inammissibile - se la si confronti con il motivo di appello segnatamente il secondo con il quale, nella diversa prospettiva della non applicabilità dell'articolo 2041 cod. civ. - qualora la domanda dell'I. fosse stata così qualificata - la ricorrente si era lamentata della mancata prova dell'arricchimento patrimoniale derivante dai lavori e non già della privazione della scelta tra pagamento del costo dei lavori ed aumento di valore. IV - Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come indicato in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre IVA e CAP.