Il socio accomandante risponde in solido per differenze retributive solo se viola il divieto previsto dall’art. 2320 c.c.

In caso di condanna della società al pagamento di differenze retributive in favore di un lavoratore, potrà esserne chiamato a rispondere in via solidale anche il socio accomandante della s.a.s. solo ove sia accertata la violazione da parte del socio stesso del divieto previsto dall’articolo 2320 c.c., ossia solo ove contravvenga al divieto di compiere atti di amministrazione o di trattare o concludere affari in nome della società.

Così affermato dalla Corte di Cassazione, sezione Lavoro, con la sentenza numero 11250 pubblicata il 31 maggio 2016. Il caso. Azione di lavoratore dipendente di s.a.s. volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato e la condanna al conseguente risarcimento. Un lavoratore dipendente di società in accomandita semplice agiva in giudizio al fine di veder dichiarata l’illegittimità del licenziamento intimatogli in forma orale e condannata l’azienda al pagamento delle retribuzioni maturate e del risarcimento danni conseguenti. Il Tribunale del lavoro accoglieva le domande, condannando al pagamento degli importi dovuti la società ed entrambi i soci accomandatario e accomandante in via solidale. La Corte d’appello, decidendo il gravame proposto dalla società e dai soci, confermava la decisione di primo grado. Questi ricorrevano così in Cassazione. Inammissibile il riesame delle risultanze istruttorie. Un primo motivo di censura proposto riguarda la ritenuta errata e contraddittoria interpretazione delle risultanze istruttorie emerse nella fase di merito. In particolare si duole la ricorrente che i giudici di merito avrebbero tenuto in considerazione soltanto talune dichiarazioni testimoniali, trascurandone altre di tenore contrario alle prime. Ma la Corte di legittimità ritiene inammissibile la censura proposta, ribadendo un principio costantemente affermato circa l’inammissibilità, ai sensi dell’articolo 360, comma 1 numero 5, c.p.c., di un riesame da parte della Corte di Cassazione di elementi istruttori emersi nel giudizio di merito. La possibilità di riesame in sede di legittimità è limitata alla sola omissione di esame di un fatto storico la cui esistenza risulti dal testo della sentenza impugnata o dagli atti processuali. La Corte è chiamata al solo controllo dell’esistenza e della coerenza sotto il profilo della illogicità manifesta della motivazione. Restando precluso il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale. Il socio accomandante risponde delle obbligazioni societarie solo se vi è ingerenza nella gestione di questa. Viene invece ritenuto fondato il secondo motivo di censura proposto. Si dolgono infatti la società ed i soci che i giudici di merito abbiano ritenuto obbligato in solido al pagamento degli importi liquidati in favore del lavoratore anche il socio accomandante. Si afferma infatti che l’attività svolta dal socio accomandante in ambito aziendale era limitata a meri compiti esecutivi, che esulavano da quell’attività gestoria prevista dall’articolo 2320 c.c La Suprema Corte ribadisce che in ambito di società in accomandita semplice, la quale è caratterizzata dall'esistenza di due categorie di soci, che si diversificano a seconda del livello di responsabilità illimitata per gli accomandatari e limitata alla quota conferita per gli accomandanti, ai sensi dell'articolo 2312 c.c. , la situazione di socio occulto non è idonea a far presumere la qualità di accomandatario, essendo necessario, a tal fine, accertare di volta in volta la posizione in concreto assunta da detto socio, il quale, di conseguenza, assume responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali, ai sensi dell'articolo 2320 c.c., solo ove contravvenga al divieto di compiere atti di amministrazione intesi questi ultimi quali atti di gestione, aventi influenza decisiva o almeno rilevante sull'amministrazione della società, non già di atti di ero ordine o esecutivi o di trattare o concludere affari in nome della società. Nel caso in esame, la Corte di merito ha ritenuto che la mera presenza della socia accomandante nella rivendita commerciale della società fosse finalizzata alla cogestione dell’amministrazione sociale, senza approfondire la natura e la tipologia di tale attività collaborativa. Occorre infatti distinguere tra compiti meramente esecutivi consentiti all’accomandante e compiti di indirizzo e gestione degli affari sociali, implicanti scelte gestionali tipiche del titolare dell’impresa. E come tali riservati al solo socio accomandatario. La sentenza impugnata appare pertanto carente nella motivazione, non avendo approfondito, conformemente ai principi di diritto richiamati, la natura dell’attività apportata dal socio accomandante e la sua incidenza nelle scelte gestionali della società. Conseguentemente la Suprema Corte ha cassato con rinvio, in accoglimento del motivo proposto, la sentenza impugnata.

La Corte d’Appello di Salerno confermava la pronuncia resa dal Tribunale della stessa sede con cui era stata accolta la domanda proposta da P.B. nei confronti di D.B.G. e V.P. , già soci della s.a.s. D.B.G. e C., intesa a conseguire la dichiarazione di inefficacia del licenziamento orale intimatogli il 30/6/2003 e la condanna dei convenuti in solido fra loro, al risarcimento del danno conseguente, nella misura di cinque mensilità, oltre al pagamento delle differenze retributive maturate in relazione alla attività di commesso svolta dal lavoratore a far tempo dal settembre 1992 al giugno 2003. Nel pervenire a tali conclusioni i giudici del gravame osservavano, in estrema sintesi, che dal quadro probatorio definito in prime cure, era emerso che la prestazione lavorativa resa dal P. era qualificata dagli gli elementi tipici della subordinazione e che la responsabilità solidale della socia accomandante V.P. era fondata sullo svolgimento di attività di cogestione della amministrazione sociale. Avverso tale decisione D.B.G. e V.P. interpongono ricorso per cassazione affidato a due motivi illustrati da memoria ex articolo 378 c.p.c. Resiste con controricorso l’intimato. Motivi della decisione Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli articolo 2094, 2697 c.c. e dell’articolo 115 c.p.c. ex articolo 360 comma primo numero 3 c.p.c. omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti in relazione all’articolo 360 comma primo numero 5 c.p.c. nullità della sentenza per violazione dell’articolo 360 comma primo numero 4 c.p.c. Ci si duole che la Corte territoriale abbia reso una non corretta esegesi del materiale istruttorio raccolto, dal quale non era emerso l’elemento di effettiva soggezione al potere direttivo e gerarchico della parte datoriale, che invera, nel rapporto di lavoro, il concetto di subordinazione. Si lamenta, sotto altro versante, che la motivazione stilata dal giudice dell’impugnazione sia soltanto apparente e comunque affetta da manifesta illogicità e contraddittorietà, per aver conferito rilievo, nella valutazione del compendio probatorio, esclusivamente a talune dichiarazioni testimoniali, trascurando quelle contrapposte rese dagli altri testi ascoltati. Il motivo presenta evidenti profili di inammissibilità. Non va sottaciuto, invero, che, sotto il profilo della violazione di legge, parte ricorrente tende a pervenire inammissibilmente, ad una rinnovata considerazione, nel merito, della valutazione dei fatti di causa elaborata dai giudici del gravame. La critica - articolata, peraltro, in violazione delle regole di chiarezza che governano il ricorso per cassazione ex articolo 366 comma primo numero 4 c.p.c. non appare idonea a superare i limiti imposti dall’articolo 360, co.1, numero 5, c. p. c., come novellato dal d.l. 22/6/12 numero 83 conv. in l.7/8/12 numero 134, nella versione di testo applicabile ratione temporis. Detta disposizione non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo quello di controllo sull’esistenza sotto il profilo dell’assoluta omissione o della mera apparenza e sulla coerenza sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta della motivazione. Il controllo previsto dal nuovo numero 5 dell’articolo 360 cod. proc. civ. concerne, quindi, l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza rilevanza del dato testuale o dagli atti processuali rilevanza anche del dato extratestuale , che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia . L’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti vedi Cass. S.U. 7 aprile 2014 numero 8053 . Il motivo si palesa, quindi, privo di pregio laddove tende a pervenire ad una rinnovata valutazione degli elementi fattuali sottesi alla pretesa azionata, non consentita in sede di legittimità, a fronte di un tessuto motivazionale definito nei termini di un puntuale richiamo ai dati desumibili dalle deposizioni testimoniali raccolte, che si palesa congruo e coerente con le evidenze istruttorie acquisite, oltre che conforme a diritto laddove desume dalle modalità di erogazione della prestazione e dagli ulteriori indici della forma del compenso dell’osservanza di un orario del godimento delle ferie in periodi prestabiliti, lo stabile inserimento del lavoratore nella struttura organizzativa aziendale. Tanto consente di escludere anche la ricorrenza di un error in procedendo , denunciata in via di subordine dalle parti ricorrenti, e che è ravvisabile, nel caso di motivazione solo apparente, allorquando la stessa non consenta d’individuare in modo chiaro, univoco ed esaustivo le ragioni, attribuibili al giudicante, su cui si fonda la decisione, in violazione degli articolo 132, comma 2, numero 4, c.p.c. arg. da Cass. 5/11/2015 numero 22652 . Con il secondo mezzo di impugnazione si deduce violazione e falsa applicazione degli articolo 2313, 2320 e 2324 c.c. in relazione all’articolo 360 comma primo numero 3 c.p.c Si critica la sentenza impugnata per aver disposto condanna al pagamento delle differenze retributive in favore del lavoratore, anche nei confronti della socia accomandante, non versandosi nella ipotesi di ingerenza dell’accomandante nella amministrazione della società vietata dall’articolo 2320 c.c. Nello specifico l’attività svolta dalla ricorrente, atteneva al momento esecutivo dei rapporti obbligatori facenti capo alla società, e non si traduceva in quella attività gestoria, concernente il momento genetico del rapporto, che si concretava nella direzione degli affari sociali ed era oggetto del divieto sancito dalla disposizione codicistica testé citata. Il motivo è fondato. In premessa, va rimarcato che coerente con la struttura essenziale della società in accomandita semplice è il diverso regime di responsabilità verso i terzi che caratterizza le distinte categorie dei soci articolo 2313 c.c. gli accomandatari, ai quali è riservato il potere di amministrare la società, che rispondono illimitatamente e solidalmente per le obbligazioni sociali gli accomandanti, esclusi dalla amministrazione, che rischiano nei limiti della quota conferita. Come è stato evidenziato in dottrina, una alterazione di questo riparto, che spezzi il binomio potere-rischio, pregiudica la qualificabilità della partecipazione in conformità della designazione. L’articolo 2320 c.c. disciplina, dunque, le attività delle quali è fatto divieto al socio accomandante, individuati nel compimento di atti di amministrazione, trattazione o conclusione di affari in nome della società se non in forza di procura speciale per singoli affari. Detta disposizione è stata oggetto di interpretazione da parte di questa Corte che ha affermato il principio, da ribadirsi in questa sede, alla cui stregua, per aversi ingerenza dell’accomandante nella amministrazione della s.a.s. vietata dal citato articolo 2320 c.c., deve essere posta in essere una attività gestoria che può avere ad oggetto operazioni destinate ad avere efficacia interna alla società o a riflettersi all’esterno e che sia altresì, espressione del potere di direzione degli affari sociali in quanto implicante una scelta che è propria del titolare dell’impresa cfr. in tali sensi Cass. 26 giugno 1979 numero 3563 . In tale contesto - e con riferimento ai rapporti obbligatori con i terzi estranei alla società - è stato altresì affermato che l’attività amministrativa vietata al socio accomandante riguarda il momento genetico del rapporto in cui si manifesta la scelta operata dall’imprenditore, mentre tutto quanto attiene al momento esecutivo dell’adempimento delle obbligazioni che da quel rapporto derivano, non esclude di per sé la qualità di terzo dell’accomandante rispetto alla gestione della società, alla quale pertanto, rimane estraneo per analoga statuizione e per l’affermazione che per la violazione dell’articolo 2320 cc. l’attività gestoria debba concretarsi nella direzione degli affari sociali implicante una scelta che è propria del titolare dell’impresa, vedi anche Cass. 14 gennaio 1987 numero 172 . Nel solco delle linee tracciate dalla giurisprudenza di questa Corte, in coerenza con gli orientamenti espressi dalla uniforme dottrina, deve conclusivamente affermarsi che il socio accomandante assume responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali, ai sensi dell’articolo 2320 cod. civ., solo ove contravvenga al divieto di compiere atti di amministrazione - intesi questi ultimi quali atti di gestione, aventi influenza decisiva o almeno rilevante sull’amministrazione della società, non già di atti di mero ordine o esecutivi - o di trattare o concludere affari in nome della società vedi Cass. 25 luglio 1996 numero 6725 cui adde Cass. 17 dicembre 2012 numero 23211 . Nell’ottica descritta, deve ritenersi che la pronuncia impugnata non abbia fatto corretto governo dei principi ai quali si è fatto richiamo, per aver ritenuto tout court che la mera presenza nella rivendita commerciale della socia accomandante, fosse di per sé finalizzata alla cogestione della amministrazione sociale , senza procedere alla accurata disamina della natura della attività espletata, con riferimento al descritto parametro della attinenza della stessa, in termini di decisività, alla amministrazione della società, ed alla idoneità ad esprimere i propri effetti all’interno o a riflettersi anche all’esterno della compagine sociale. Alla stregua delle argomentazioni esposte la impugnata pronuncia va cassata e rinviata alla Corte d’Appello di Salerno in diversa composizione che, provvedendo anche sulle spese del presente giudizio di legittimità, nello scrutinio della fattispecie delibata, farà applicazione dei principi innanzi enunciati. P.Q.M. La Corte rigetta il primo motivo, accoglie il secondo cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’appello di Salerno in diversa composizione.