In tema di delitto di omesso versamento dell’IVA, previsto e punito dall’articolo 10-ter, d.lgs. numero 74/2000, l’emissione della fattura, anche se antecedente al pagamento del corrispettivo, espone il contribuente, per sua scelta, all’obbligo di versare comunque la relativa imposta, sicché egli non può dedurre il mancato pagamento della fattura, né lo sconto bancario della fattura quale causa di forza maggiore o di mancanza dell’elemento soggettivo.
Lo ha ribadito la Terza Sezione della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza numero 35193/2019, depositata il primo agosto 2019. L’omesso versamento dell’IVA L’articolo 10- ter d.lgs. numero 74/2000 delinea l’ipotesi di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto. L’articolo 10- ter d.lgs. numero 74/2000 sanziona l’omesso versamento dell’IVA dovuta in base alle risultanze della dichiarazione annuale entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo. Anche il delitto in esame, nonostante il legislatore abbia utilizzato il termine “chiunque”, è un reato proprio, poiché la condotta prevista può essere realizzata esclusivamente da coloro che sono obbligati alla presentazione della dichiarazione IVA, e cioè da tutti quei soggetti che effettuano l’attività di cessioni di beni o di prestazioni di servizi, nell’esercizio di imprese o di arti e professioni, secondo le disposizioni contenute nel d.P.R. numero 633/1972 relativo all’istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto . La disposizione in commento non prende in considerazione tributi diversi dall’imposta sul valore aggiunto. Ne consegue la sostanziale non punibilità delle condotte di omesso versamento di imposte diverse dall’IVA, fatta salva la sussumibilità di un siffatto comportamento ricorrendone i presupposti nel diverso delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte previsto dall’articolo 11 d.lgs. numero 74/2000 . Per poter dimostrare l’esistenza del reato di cui al predetto articolo 11, sussiste tuttavia un onere probatorio sicuramente aggravato rispetto a quello relativo al reato di omesso versamento dell’IVA. È infatti necessario provare un insieme di condotte poste in essere dal contribuente allo scopo specifico di precludere all’Erario la possibilità di incassare quanto in precedenza dichiarato, ovvero di impedire il risarcimento del danno patrimoniale conseguente ad evasioni fiscali definitivamente accertate. In altri termini, la condotta sanzionata non ricomprende quei comportamenti materiali come l’omesso versamento di imposte diverse dall’IVA privi del requisito artificioso o ingannatorio. Autorevole dottrina ha rilevato che il legislatore non si è posto specificamente il problema del concorso del delitto di omesso versamento dell’IVA, nel contesto di una frode carosello, con i reati di utilizzazione ed emissione di fatture false articolo 2 e 8 del decreto numero 74 . Ed infatti, l’attuale testo dell’articolo 10- ter non prevede alcuna clausola di riserva rispetto alle altre fattispecie contenute nel d.lgs. numero 74/2000. Nell’ambito di tali frodi, sarebbe possibile chiamare a rispondere a titolo di concorso, ex articolo 10- ter , con il soggetto IVA che omette il versamento, anche un soggetto diverso da quello omittente, purché questi sia consapevole dell’omesso versamento, e partecipi allo stesso con contributi oggettivi e soggettivi, indipendentemente dalla materiale partecipazione alla spartizione dell’IVA non versata. Sotto altro profilo, il reato di cui all’articolo 10- ter segue spesso, nella pratica, il delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti, concretandosi nel sostanziale inadempimento degli obblighi dichiarativi da parte dei soggetti coinvolti, e nel successivo mancato versamento dell’IVA a debito. ed il relativo dolo di evasione. Dal punto di vista dell’elemento soggettivo, ai fini dell’integrazione della fattispecie, è sufficiente il dolo generico, che deve ricoprire tutti gli elementi della condotta. Pertanto, la norma incriminatrice non richiede, in capo all’agente, il fine specifico di evasione delle imposte. A fronte della punibilità a titolo di dolo generico, deve ritenersi che, nel caso in cui l’omesso versamento sia dovuto ad una riconosciuta mancanza di denaro, la mancanza di liquidità possa solamente giustificare la concessione delle attenuanti generiche ex articolo 62- bis c.p., senza che possa di per sé rappresentare causa di esclusione della punibilità. In un siffatto contesto, si potrebbe per contro giustificare il mancato versamento IVA richiamando la categoria dell’inesigibilità di una condotta diversa dall’omesso versamento dell’IVA, ove tale omissione derivi da una situazione di oggettiva insolvenza assoluta ed involontaria del soggetto obbligato. Sul punto, tuttavia, è utile ricordare che tanto la giurisprudenza di merito quanto la stessa dottrina – nell’analoga materia di omesso versamento di ritenute previdenziali – sono contrarie, di talché appare assi difficile configurare una simile causa giustificativa idonea ad escludere la punibilità anche nell’ipotesi di omesso versamento IVA. Deve propendersi per l’insussistenza del dolo richiesto nel caso di presunto concorso in una frode carosello, qualora il cessionario, a carico del quale non si raggiunga la prova di una partecipazione piena e consapevole all’operazione fraudolenta architettata dal cedente, in assenza di elementi sintomatici della condotta fraudolenta di quest’ultimo, non possa far altro che “fidarsi” di quanto sia a lui attestato nella documentazione fiscale.
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 18 giugno – 1 agosto 2019, numero 35193 Presidente Izzo – Relatore Semeraro Ritenuto in fatto 1. Il Tribunale di Roma, con sentenza del 10 marzo 2016, ha condannato P.F. alla pena di un anno di reclusione ed alle pene accessorie di cui al medesimo D.Lgs. numero 74 del 2000, articolo 12, ritenuta la continuazione e concesse le circostanze attenuanti generiche, con la sospensione condizionale della pena, per i delitti ex articolo 81 cpv. c.p., e D.Lgs. numero 74 del 2000, articolo 10 ter, perché nella sua qualità di legale rappresentante e liquidatore della S.p.a. con sede legale in , non ha versato entro i termini previsti per il versamento degli acconti relativi ai periodi di imposta successivi, l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alle dichiarazioni annuali, presentate per gli anni 2009 e 2010, pari rispettivamente a Euro 694.356,00 ed Euro 1.086.413,00, con fatti commessi rispettivamente in omissis . Ai sensi dell’articolo 12 bis, del citato D.Lgs., è stata peraltro disposta la confisca nei confronti della S.p.a. della somma di Euro 1.780.769,00 in quanto profitto dei reati contestati. Il Tribunale di Roma ha altresì assolto P.F. per il delitto di cui al D.Lgs. numero 74 del 2000, articolo 10 bis, perché il fatto non sussiste. 1.1. La Corte di Appello di Roma, con sentenza dell’8 gennaio 2018, in riforma della sentenza del Tribunale di Roma, ha concesso all’imputato l’ulteriore beneficio della non menzione della condanna nel certificato penale del casellario giudiziale, ed ha confermato nel resto la sentenza di primo grado. 2. Avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato P.F. . Si premette che gli elementi a carico dell’imputato sono stati tratti dalla Guardia di Finanza dalla proposta di transazione fiscale L. Fall., ex articolo 182 ter, esibita spontaneamente da P.F. , quale liquidatore della S.p.a., senza che fossero svolte ulteriori indagini. 2.1. Dopo aver ricostruito l’iter del processo, riportato i motivi di appello e parte della motivazione della sentenza impugnata, con il primo motivo si deducono i vizi di violazione di legge e della motivazione, sia in relazione al principio della presunzione di innocenza di cui all’articolo 27 Cost., sia con riferimento al principio dell’onere della prova a carico dell’accusa la Corte di appello avrebbe altresì erroneamente interpretato il D.P.R. numero 633 del 1972, articolo 6. Richiamando la copiosa giurisprudenza di legittimità e stante il disposto del D.P.R. numero 633 del 1972, articolo 6, il ricorrente, facendo leva sul principio per cui ai fini della prova della colpevolezza dell’imprenditore che effettui cessioni di beni mobili, ai sensi del D.Lgs. numero 74 del 2000, articolo 10 ter, si debba verificare e tenere conto dell’effettiva percezione del prezzo della merce venduta e della quota parte dell’Iva, lamenta l’erronea motivazione della Corte territoriale che avrebbe desunto l’obbligo di corresponsione dell’Iva non tanto dal momento della consegna-spedizione della merce, ma quanto da quello del pagamento della stessa. Peraltro, ad avviso della difesa, i Giudici di merito avrebbero supposto in maniera del tutto apodittica che la S.p.a. avesse percepito effettivamente le somme destinate al pagamento dell’Iva e che il mancato versamento delle medesime all’erario sarebbe stata una scelta imprenditoriale per fronteggiare la crisi di liquidità. In ragione di ciò, sarebbe del tutto illogico e mai comprovato considerare che le somme confiscate siano il profitto dei reati contestati. Infine, si contesta come non potesse attribuirsi all’odierno ricorrente un onere di prova ulteriore riguardo all’effettività dei pagamenti in questione, perché sarebbe compito dell’accusa provare che il mancato versamento dell’Iva derivi da un mancato accantonamento delle somme percepite. 3. Con il secondo motivo si deduce la mancanza o l’apparente motivazione del provvedimento impugnato sull’istanza di incostituzionalità proposta nei motivi di appello, del D.Lgs. numero 74 del 2000, articolo 12 bis, o della L. numero 244 del 2007, articolo 143, comma 1, in relazione all’articolo 322 ter c.p., per violazione degli articolo 3, 24 e 25 Cost., e articolo 111 Cost., comma 2, e per violazione dei principi di autonomia e personalità giuridica fissati dall’articolo 2325 c.c., e articolo 2331 c.c., comma 1. Si ripropone la questione di legittimità costituzionale della norma che prevede la confisca estensibile all’ente, laddove non sia consentito al medesimo ente di partecipare e difendersi nel processo penale instaurato, D.Lgs. numero 74 del 2000, ex articolo 10 ter, nei confronti della persona del suo legale rappresentante. Inoltre, ad avviso del ricorrente la Corte territoriale avrebbe errato nell’infliggere il provvedimento di confisca nei confronti della XXXXX S.p.a., essendo la ditta soggetto terzo estraneo al processo penale. Considerato in diritto 1. Il primo motivo è manifestamente infondato. 1.1. Deve infatti rilevarsi che gli importi dell’Iva non versati sono quelli che risultano dalle dichiarazioni Iva presentate dal ricorrente quale legale rappresentante della s.p.a. . È proprio dalla presentazione della dichiarazione annuale, effettuata dal ricorrente, che emerge quanto è dovuto a titolo di imposta. 1.2. Come affermato da Cass. Sez. 3, numero 14595 del 17/11/2017, dep. 2018, Strada, Rv. 272552 - 01, ai fini della integrazione del reato di omesso versamento dell’IVA di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, numero 74, articolo 10 ter, l’entità della somma da versare, costituente il debito IVA, è quella risultante dalla dichiarazione del contribuente e non quella effettiva, desumibile dalle annotazioni contabili. Non rileva neanche, per ragioni di tipicità, se l’importo relativo all’Iva sia stato effettivamente incassato. La sentenza Strada ha pertanto affermato che il debito erariale non deve risultare dai registri delle fatture emesse o dalle fatture o dalla contabilità di impresa o, ancora, dal bilancio il debito erariale rilevante ai fini del reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto è solo quello oggetto della dichiarazione annuale. La presentazione della dichiarazione, infatti, costituisce un presupposto necessario ai fini della consumazione del reato in questo senso, espressamente, Sez. U, numero 37424 del 28/03/2013, Romano, in motivazione nonché Sez. 3, numero 6293 del 14/01/2010, numero m. , tant’è che l’autore del reato deve necessariamente rappresentarsi che l’oggetto della condotta omissiva è esattamente ed esclusivamente il debito dichiarato, non quello risultante aliunde Sez. U, numero 37424 del 28/03/2013, Romano, secondo cui la prova del dolo è insita in genere nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto à titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia, entro il termine previsto . Il tema della non corrispondenza del debito dichiarato superiore alla cd. soglia con quello che risulta dalla contabilità dell’impresa in ipotesi ad essa inferiore non ha perciò alcuna rilevanza posto che, come già rilevato, la fattispecie, per chiara scelta legislativa, non è strutturata intorno al debito effettivo, ma solo a quello dichiarato. Le discrasie tra il debito erariale dichiarato e quello effettivo hanno il proprio terreno elettivo nei reati in materia di dichiarazione di cui al D.Lgs. numero 74 del 2000, articolo 2, 3 e 4, i quali ben possono concorrere con quello di cui all’articolo 10 ter. 1.3. Va poi ribadito il principio affermato da Cass. Sez. 3, numero 38594 del 23/01/2018, M., Rv. 273958 - 01, per cui, in tema di reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, l’emissione della fattura, se antecedente al pagamento del corrispettivo, espone il contribuente, per sua scelta, all’obbligo di versare comunque la relativa imposta sicché egli non può dedurre il mancato pagamento della fattura né lo sconto bancario della fattura quale causa di forza maggiore o di mancanza dell’elemento soggettivo. 2. Il secondo motivo è inammissibile per difetto di legittimazione. Il ricorso è stato infatti proposto in proprio dall’imputato, non nella qualità di legale rappresentante della società per altro la società è terza sicché ai sensi dell’articolo 100 c.p.p., sarebbe stato necessario il conferimento della procura speciale per la proposizione del ricorso. 3. Pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Ai sensi dell’articolo 616 c.p.p., si condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, numero 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, si condanna altresì il ricorrente al pagamento della somma di Euro 2.000,00, determinata in via equitativa, in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.