La malattia si atteggia sempre come un’esimente per il lavoratore e non può essere strumentalmente confusa dal datore di lavoro come inidoneità al lavoro.
Il fatto. Un lavoratore del settore industriale aveva subito un licenziamento a causa di frequenti assenze dal lavoro, ancorchè le stesse risultavano giustificate a fronte della puntuale allegazione di certificati medici rilasciati dal medico curante. Tale atto risolutivo del rapporto di lavoro, posto in essere da parte datoriale, era stato ritenuto legittimo ed efficace anche in sede giudiziale, laddove il tribunale di primo grado aveva escluso una violazione della norma ex art.2110 c.c. in tema di cause giustificative di sospensione della prestazione lavorativa poiché le reiterate assenze del lavoratore non dimostravano oggettivamente una preventiva incapacità lavorativa, nonostante le stesse trovassero un’apparente e formale giustificazione nei certificati medici anzidetti. Pertanto, le ragioni del recesso datoriale andavano rintracciate nel disinteresse della parte datoriale medesima a ricevere una prestazione lavorativa parziale ex art.1464 c.c. Reformatio in melius in appello. La Corte di appello, in sede di gravame sollevato dal lavoratore, riformava il decisum del giudice di prime cure, dichiarando illegittimo il licenziamento e conseguentemente ordinando la reintegrazione in servizio e la condanna alla corresponsione delle indennità che seguono il regime legale della c.d. tutela reale prevista dalla norma ex-art.18 St. Lav. L.300/1970 . Immutabilità della motivazione del licenziamento. Secondo i giudici del gravame, invero, il datore di lavoro aveva violato il principio di immutabilità della motivazione del licenziamento, perché nonostante dapprima non avesse mai contestato l’insussistenza in tutto o in parte della malattia allegata dal lavoratore, aveva infine adottato l’atto risolutivo richiamando la disciplina ex art.1464 c.c., presupponendo la circostanza dello scarso rendimento del lavoratore e riconducendo, quindi, il licenziamento alla disciplina dettata dall’art.3 della legge n.604/1966. La decisione adottata dalla corte territoriale, è stata confermata in toto con la sentenza in commento, in quanto secondo l’organo nomofilattico, bene hanno fatto i giudici di appello a dare rilevanza alla malattia quale causa di giustificazione della sospensione della prestazione lavorativa che ai sensi dell’art.2110 c.c. impone al datore di lavoro di non recedere dal rispettivo contratto se non prima che sia decorso un dato lasso di tempo, tecnicamente definito comporto. La ratio dell’art.2110. La norma civilistica su richiamata trova la sua giustificazione sostanziale nel reciproco bilanciamento degli interessi configgenti di cui sono portatori i rispettivi soggetti-contraenti del contratto di lavoro subordinato da un lato l’interesse alla produttività perseguito dal datore di lavoro e dall’altro, l’interesse alla conservazione del posto di lavoro perseguito dal lavoratore mediando gli stessi, attraverso l’individuazione di un periodo di tempo definito comporto durante il quale lo stato morboso che può colpire il lavoratore, preclude al datore di lavoro di recedere unilateralmente dal contratto. Lex specialis derogat lex generalis. La disciplina codicistica in commento, peraltro, è annoverata tra le cc.dd. leggi speciali, ovvero quelle che hanno i caratteri della generalità ed astrattezza più circoscritti rispetto alle restanti norme definite “generali”,e come tale prevale sulla disciplina dell’impossibilità parziale sancita dall’altra disposizione codicistica di cui all’art.1464 c.c. Ciò comporta che in presenza di una malattia, questa non potrà mai rilevare durante il periodo di comporto come un indice di scarso rendimento della prestazione lavorativa, idoneo a giustificare una risoluzione di un contratto di lavoro sotto il profilo dell’impossibilità parziale della prestazione lavorativa e quindi del correlato disinteresse del datore di lavoro a riceverla ex art.1464 c.c. Autonomia concettuale di malattia e inidoneità al lavoro. Inoltre, la Cassazione chiarisce come ci sia autonomia concettuale tra i termini di “malattia” e “inidoneità al lavoro”, cui peraltro come innanzi detto seguono regimi legali differenti. La “malattia” va intesa come stato morboso del soggetto, caratterizzato di norma dalla temporaneità dello stato medesimo e della totale sospensione per impossibilità della prestazione lavorativa, mentre la “inidoneità al lavoro” è uno stato caratterizzato da una pressoché circostanza di permanenza e non comporta sempre e necessariamente una impossibilità totale della prestazione lavorativa. In presenza dell’inidoneità al lavoro il datore di lavoro può recedere dal contratto di lavoro invocando la disciplina coordinata degli artt.1464 c.c. – 3 L.604/1966 solamente però, una volta che abbia assolto l’onere di fare accertare il predetto status attraverso i servizi ispettivi degli enti all’uopo preposti in osservanza quindi della normativa statutaria ex art.5 L.300/1970.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 7 dicembre 2011 – 31 gennaio 2012, numero 1404 Presidente Lamorgese – Relatore Arienzo Svolgimento del processo La Corte di Appello di Torino, con sentenza del 20.2.2008, in accoglimento della domanda di D.P.A. ed in riforma della decisione impugnata, annullava il licenziamento intimato al lavoratore, ordinandone la reintegrazione nel posto di lavoro, e condannava la Fiat a corrispondere al medesimo l'indennità risarcitoria, ai sensi di articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, rilevando che il licenziamento intimato il 16.6.2006, per impossibilità di utilizzare proficuamente la prestazione del dipendente, di frequente assente dal lavoro in relazione ad esigenze organizzative e produttive dell'azienda, non era connesso ad assenze ingiustificate, né a superamento del comporto e che la lettera di recesso non evidenziava la simulazione degli stati di malattia certificati. Osservava la Corte territoriale che non poteva condividersi la tesi seguita dal primo giudice, secondo cui non era stato dimostrato che le assenze, anche se coperte formalmente da certificati medici, fossero tali da determinare incapacità lavorativa e che non si vertesse pertanto nell'ambito di applicazione dell'articolo 2110 e. e, occorrendo valutare la posizione del lavoratore non sotto un profilo disciplinare, ma sul versante oggettivo, ex articolo 3 l. 604/66, tenuto conto della mancanza di un apprezzabile interesse all'adempimento parziale da parte della datrice di lavoro, secondo la previsione dell'articolo 1464 c.c. che al riguardo occorreva rilevare che l'appellata non aveva mai ventilato l'ipotesi che la malattia del lavoratore fosse insussistente in tutto o in parte e che essa aveva ritenuto di procedere al licenziamento del dipendente per la discontinuità della sua prestazione e per la conseguente sua inutilità ai IX fini aziendali. Osservava che questo era il tema della decisione e che è violato il principio di immutabilità della motivazione del licenziamento, laddove si fa discendere da una presunta frode nel ricorso alla malattia, dimensionata sulla base delle esigenze personali del lavoratore e non sul suo effettivo stato fisico, il venir meno dell'interesse dell'imprenditore all'adempimento solo parziale della prestazione e che, in merito al richiamo al disposto dell'articolo 1464 e. e, era pacifico che l'azienda non avesse mai provveduto ad accertare l'eventuale inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, ai sensi dell'articolo 5 Statuto, né vi erano accertamenti del medico competente ai sensi del d. lgs. 626/1994. Affermava, conformemente ai principi enunciati dalla Corte di Cassazione, che la normativa di cui all'articolo 2110 e. e. ha carattere di specialità rispetto alla norma generale dell'impossibilità sopravvenuta della prestazione articolo 1464 c.c. e che la stessa prevale anche sulla disciplina limitativa dei licenziamenti, con la conseguenza che il datore non può unilateralmente recedere dal rapporto di lavoro prima del superamento dei limiti di tollerabilità dell'assenza periodo di comporto predeterminato dalla legge, dalla disciplina collettiva o dagli usi. Per la cassazione di tale sentenza ricorre la Fiat Group, con due motivi. Il D.P. è rimasto intimato. Motivi della decisione Con il primo motivo, la società deduce la violazione e la falsa applicazione del disposto dell'articolo 2110 c.c., in riferimento all'articolo 1464 c.c., assumendo che correttamente la Corte d'appello ha ritenuto che la lettera di licenziamento riportava alla nozione generale di recesso per giustificato motivo oggettivo, in relazione alla prospettazione della sopravvenuta mancanza di interesse datoriale alla prosecuzione del rapporto, secondo il principio generale di cui all'articolo 1464 c.c., ma che, poi, a tale premessa ha sovrapposto erroneamente la disciplina di cui all'articolo 2110 c.c., sottolineandone il carattere di specialità, senza avvedersi del fatto che tale disciplina può trovare applicazione solo nel caso in cui ci si trovi di fronte ad assenze che siano conseguenza necessitata della malattia. Tale circostanza era stata esclusa dall'istruttoria espletata, anche in conseguenza delle dichiarazioni con valore confessorio rese dal D.P. in merito alla copertura delle assenze da parte di certificati medici redatti sulla base di allegazioni soggettive, e pertanto, a dire della ricorrente, doveva prescindersi dalle disposizioni di cui all'articolo 2110 c.c All'esito della parte argomentativa, la ricorrente formula quesito ai sensi dell'articolo 366 bis c.p.c., domandando se, in presenza di stati patologici che, ancorché certificati, non siano incompatibili con la prestazione lavorativa, il recesso motivato dalla reiterate assenze del dipendente rientri nell'ambito di operatività di cui all'articolo 1464 c.c. e non in quello di cui all'articolo 2110 c.c Con il secondo motivo, la ricorrente denunzia la violazione e la falsa applicazione del disposto dell'articolo 2110 c.c., in riferimento all'articolo 3 l. 604/66, richiamando la sentenza emessa dalla Cassazione numero 10286/96, in cui si afferma che le reiterate assenze per malattia sono estranee alla fattispecie dell'inadempimento e possono integrare lo scarso rendimento inteso come inidoneità oggettiva alle mansioni, che rende la prestazione inservibile a prescindere dalla responsabilità del lavoratore e che lo scarso rendimento copre tutti i comportamenti che incidano sull'organizzazione del lavoro e sul suo funzionamento. Assume che l'applicabilità dell'articolo 2110 c.c. non può desumersi semplicemente dalla circostanza che le assenze dal lavoro trovino la loro giustificazione nelle certificazioni del medico curante, potendo anche un'assenza giustificata formalmente in modo legittimo divenire assenza non lecita su un piano di sostanza e quindi suscettibile di essere valutata anche per escludere l'applicabilità dell'articolo 2110 c.c Ritiene che i giudici torinesi avrebbero dovuto ritenere corretto il recesso datoriale anche alla luce del fatto che, effettuando un giudizio prognostico, non vi era motivo per ritenere che anche in futuro il dipendente avrebbe potuto rendere una prestazione assistita da continuità di presenza e formula quesito con il quale domanda se, in presenza di una situazione di scarso rendimento , inteso come inidoneità oggettiva alle mansioni, che rende la prestazione inservibile a prescindere dalla responsabilità del lavoratore, il recesso operato dal datore e motivato dalle reiterate assenze del dipendente debba essere valutato con i criteri di cui all'articolo 3 della legge 604/66 e non con quelli di cui all'articolo 2110 c.c I due motivi di ricorso possono trattarsi congiuntamente per la evidente connessione delle questioni che ne costituiscono l'oggetto. Deve ritenersi principio pacifico, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, - dal quale non v'è ragione per discostarsi - quello secondo cui le regole dettate dall'articolo 2110 cod. civ. per le ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore prevalgono, in quanto speciali, sia sulla disciplina dei licenziamenti individuali di cui alle leggi numero 604 del 1966, numero 300 del 1970 e numero 108 del 1990 che su quella degli articoli 1256 e 1464 cod. civ., e si sostanziano nell'impedire al datore di lavoro di porre fine unilateralmente al rapporto sino al superamento del limite di tollerabilità dell'assenza cosiddetto comporto predeterminato dalla legge, dalle parti o, in via equitativa, dal giudice, nonché nel considerare quel superamento unica condizione di legittimità del recesso. È stato precisato che le stesse regole hanno la funzione di contemperare gli interessi confliggenti del datore di lavoro a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce e del lavoratore a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento e l'occupazione , riversando sull'imprenditore - in parte e per un tempo la cui concreta determinazione è rimessa gradatamente alla legge, ai contratti collettivi, agli usi, all'equità - il rischio della malattia del dipendente cfr., in tali termini, Cass. 24 giugno 2005 numero 13624 ed, in senso conforme, Cass. 22 luglio 2005 numero 15508 . Affermata la prevalenza della disciplina speciale, ne discende che, in forza della sua applicabilità, il superamento del periodo di comporto è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che è all'uopo non è necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, né della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse, senza che ne risultino violati disposizioni o principi costituzionali. Di conseguenza, come già affermato da questa Corte cfr. Cass. 10 ottobre 2005 numero 19679 , - eccetto l'indagine volta ad accertare l'eventuale riconducibilità della malattia alla responsabilità del datore - resta irrilevante ogni valutazione sulla condotta delle parti, mentre, essendo l'assenza una mera conseguenza necessitata della malattia, neppure può avere rilievo, ai fini della legittimità del recesso, una indagine sulle cause della assenza stessa, che nella logica dell'istituto altro non possono essere che lo stato patologico del lavoratore, incompatibile con la prestazione lavorativa. Dalla malattia del lavoratore deve, poi, distinguersi la sua inidoneità al lavoro, in quanto, pure essendo entrambe cause di impossibilità della prestazione lavorativa, esse hanno natura e disciplina diversa, per essere la prima di carattere temporaneo e implicante la totale impossibilità della prestazione, che determina, ai sensi dell'articolo 2110 cod. civ., la legittimità del licenziamento quando ha causato l'astensione dal lavoro per un tempo superiore al periodo di comporto, laddove la seconda ha carattere permanente o, quanto meno, durata indeterminata o indeterminabile, non implica necessariamente l'impossibilità totale della prestazione e consente la risoluzione del contratto ai sensi degli articolo 1256 e 1463 cod. civ., eventualmente previo accertamento di essa con la procedura stabilita dall'articolo 5 della legge 20 maggio 1970 numero 300, indipendentemente dal superamento del periodo di comporto cfr. Cass. 17 giugno 1997 numero 5416 ed, in senso conf., Cass. numero 410/1999 . I principi affermati nelle citate pronunce rendono ragione della soluzione adottata dal giudice del gravame, che, in linea con tali precedenti, ha evidenziato come il licenziamento fosse stato intimato con richiamo all'impossibilità di utilizzare proficuamente la prestazione del dipendente, spesso assente dal servizio, senza che venisse in qualche modo adombrata l'ipotesi della insussistenza della incapacità lavorativa, accertata formalmente dai certificati medici presentati dal lavoratore. Nella pronunzia della Corte territoriale è stato evidenziato anche che al richiamo a circostanze ulteriori capaci di mutare i termini della questione ostava il principio della immutabilità della motivazione del licenziamento intimato al D.P. e rispetto a tale rilievo che pure sorregge il decisum, nessuna censura specifica è stata avanzata con il presente ricorso. Quanto al richiamo, nel secondo motivo di ricorso, della sentenza di questa Corte numero 10286/96, che aveva ricondotto il caso delle reiterate assenze per malattia a quella dello scarso rendimento, ad integrare la quale era stato ritenuto sufficiente la inidoneità oggettiva alle mansioni che rende la prestazione inservibile, la fattispecie esaminata aveva riguardo specificamente all'ipotesi dell'esonero definitivo degli agenti stabili dipendenti da aziende esercenti il pubblico servizio dei trasporti in concessione, in relazione alla quale era stato ritenuto che lo scarso rendimento previsto dall'articolo 27 comma primo lett. d dell'all. A al R.D. 8 gennaio 1931 numero 148, rilevasse indipendentemente dalla sua imputabilità a colpa del lavoratore e fosse quindi configurabile anche nel caso di ripetute assenze per malattia, qualora l'elevato numero degli episodi morbosi dimostrasse l'inattitudine del dipendente a raggiungere il normale rendimento richiesto dal tipo di mansioni inerenti al suo ufficio, senza che in contrario potesse invocarsi l'autonoma disciplina dell'esonero definitivo dal servizio a causa di malattia, contemplata negli articoli 23 e 24 del cit. all. A, che riguardava, invece, a parere della Corte, l'ipotesi della prolungata infermità e cioè della malattia unica e continuativa, e non comprendeva invece quella dei ripetuti e brevi episodi morbosi che impedivano la regolare prestazione. Con orientamento difforme successivo, espresso con sentenza 15 aprile 1997 numero 3210, è stato, però, affermato che “Ai fini dell'esonero definitivo dal servizio degli agenti stabili dipendenti da aziende esercenti il pubblico servizio di trasporti in regime di concessione, l'articolo 27 lett. d del regolamento all. A al R.D. 1931 numero 148, prevedendo l'ipotesi dello scarso rendimento come diversa e separata da quella concernente la malattia lett. b, stesso articolo 27 che determini inabilità al servizio, impedisce che, in sede di valutazione del comportamento del lavoratore riconducibile a detta ipotesi, possa tenersi conto, oltre che delle diminuzioni di rendimento determinate da imperizia, incapacità, negligenza, anche di quelle determinate da assenze per malattia, atteso che queste ultime possono rilevare solo nell'ambito di una diversa previsione e delle correlative, speciali modalità di adozione del provvedimento di esonero”. Anche tale ulteriore censura si rivela infondata, essendo la seconda delle decisioni da ultimo richiamate confermativa della soluzione adottata dalla Cote territoriale, che merita integrale conferma. Alcuna statuizione sulle spese consegue al rigetto del ricorso, essendo il lavoratore rimasto intimato. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Nulla per spese.