Licenziamento a tutti i costi, ma la lavoratrice si era già dimessa!

Le dimissioni sono un atto unilaterale recettizio che risolvono il rapporto di lavoro non appena il datore ne viene a conoscenza. La possibilità di esercizio del potere disciplinare viene meno il datore non può comminare la sanzione del licenziamento ad una persona che già si è dimessa.

Così si è espressa la Corte di Cassazione, con la sentenza numero 5413, depositata il 5 marzo 2013. Sentenza penale, dimissioni, licenziamento. Una dipendente dell’Agenzia delle Entrate viene condannata in giudizio penale il 4 marzo 2003. A seguito di tale sentenza l’ente fiscale avvia il procedimento disciplinare, ma il 7 aprile 2003 la lavoratrice presenta le proprie dimissioni volontarie. Il 6 maggio 2003 l’Agenzia emana un provvedimento di licenziamento. La donna agisce in giudizio per chiedere l’accertamento dell’illegittimità di tale decisione. Il Tribunale rigetta la domanda, accolta invece dalla Corte d’Appello, che dichiara illegittimo il licenziamento per essere il rapporto di lavoro cessato per dimissioni. L’Agenzia delle Entrate aveva un interesse a terminare il procedimento disciplinare? Propone allora ricorso per cassazione l’Agenzia delle Entrate, sostenendo di avere «un interesse giuridicamente qualificato ad una valutazione sotto il profilo disciplinare del comportamento» tenuto in servizio dalla dipendente, e che quindi il procedimento andasse concluso, anche se nei confronti del «dipendente pubblico cessato dal servizio a causa di dimissioni». Le norme. L’articolo 124, d.P.R. numero 3/1957, recante lo statuto degli impiegati civili dello Stato, descrive le modalità di presentazione delle dimissioni, che possono essere rifiutate o ritardate «quando sia in corso un procedimento disciplinare a carico del dipendente». Nessun interesse giuridico alla conclusione del procedimento. La Corte di Cassazione rileva che non si capisce quale possa essere l’interesse sostenuto dall’Agenzia, che insiste nel suo diritto a terminare il procedimento disciplinare. Peraltro, l’ente fiscale non si è avvalso della possibilità di ritardare le dimissioni, come previsto dalla norma richiamata, accettando invece le dimissioni. Per il pubblico impiego valgono le norme civilistiche. La S.C. sottolinea che comunque tale norma non è più in vigore, abolita dal d.lgs. numero 29/1993, recante una revisione della disciplina del pubblico impiego, che appunto prevede che «il rapporto di pubblico impiego privatizzato è regolato dalle norme del codice civile a dalle leggi civili sul lavoro». Le norme sul pubblico impiego sono applicabili solo in quanto non incompatibili. Le dimissioni sciolgono da sole il rapporto di lavoro. Da ciò deriva che le dimissioni, anche nel pubblico impiego, sono da considerarsi come atto unilaterale recettizio, che sciolgono il rapporto di lavoro non appena giunte a conoscenza del datore, indipendentemente dalla sua volontà di accettarle. Dopo, non c’è più alcun potere disciplinare. Quindi, come nel rapporto di impiego privato, «la cessazione del rapporto fa venire meno l’esercizio del potere disciplinare, che potrebbe concludersi solo con un provvedimento idoneo ad incidere su di un rapporto di lavoro esistente e non già cessato». Per questi motivi la Corte rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 17 dicembre 2012 – 5 marzo 2013, numero 5413 Presidente Lamorgese – Relatore Balestrieri Svolgimento del processo Con ricorso alla Corte d'appello di Milano, C.R. conveniva in giudizio l'Agenzia delle Entrate, Direzione Regionale e l'Agenzia delle Entrate ufficio di Como, chiedendo che, in riforma della sentenza numero 330/05 del locale Tribunale, fosse accertata la illegittimità del provvedimento di licenziamento adottato dall'Agenzia il 6/5/2003 ed il riconoscimento della risoluzione del rapporto per effetto delle dimissioni volontarie, accettate dalla amministrazione il 7/4/2003. L'appellante lamentava che il giudice avesse ritenuto possibile il licenziamento dopo l'accettazione delle dimissioni. Rilevava che l'articolo 118 del d.P.R. numero 3/57, che prevedeva la continuazione del procedimento disciplinare agli effetti del trattamento di quiescenza e previdenza nel caso in cui il lavoratore avesse presentato le dimissioni, era stato abrogato dall'articolo 4 del d.lgs numero 29/1993 e dal d.lgs numero 165/2001 a far data dalla stipulazione dei contratti collettivi che la stessa amministrazione aveva confuso la data del licenziamento con quella delle dimissioni richiedendogli peraltro l'indennità di mancato preavviso docomma 1/6/2005 . Si costituiva l'Agenzia resistendo al gravame e rilevando che era compatibile con le dimissioni volontarie la prosecuzione del procedimento disciplinare che l'atto di accettazione delle dimissioni era un atto dovuto che aveva tempestivamente avviato il procedimento disciplinare a seguito della comunicazione della sentenza penale del 4/3/2003. Con sentenza dell'8 giugno 2007, la Corte d'appello di Milano, in riforma della sentenza impugnata dichiarava l'illegittimità del licenziamento adottato nei confronti del C. , dichiarando che il rapporto era cessato per dimissioni. Osservava la Corte di merito che il lavoratore aveva ricevuto la notifica del licenziamento 6 maggio 2003 dopo oltre un mese dalle sue dimissioni, accettate dall'amministrazione che pur avrebbe potuto rifiutarle o ritardarle al fine di esaurire il procedimento disciplinare come previsto dall'articolo 124 del d.P.R. numero 3/57. Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso l'Agenzia delle Entrate, affidate ad unico motivo. Resiste il C. con controricorso. Motivi della decisione 1. La ricorrente denuncia, ex articolo 360, comma 1, numero 3 c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell'articolo 2106 c.comma e dell'articolo 24 del c.c.numero l. Comparto Ministeri 1994-1997. Lamenta che la Corte territoriale aveva erroneamente ritenuto che con le dimissioni cessasse il rapporto e conseguentemente l'esercizio del potere disciplinare da parte dell'amministrazione, potere che invece doveva ritenersi persistente ai fini pubblicistici di cui all'articolo 124 del d.P.R. numero 3/57. Ad illustrazione del motivo formulava, il seguente quesito di diritto Dica codesta S.C. se il procedimento disciplinare possa essere legittimamente esperito o proseguito nei confronti del dipendente pubblico cessato dal servizio a causa di dimissioni, nell'ipotesi in cui sussista in concreto un interesse giuridicamente qualificato della pubblica amministrazione ad una valutazione sotto il profilo disciplinare del comportamento dal primo tenuto in servizio . 2. Il ricorso è infondato. Occorre innanzitutto notare che anche dalla lettura del quesito ex articolo 366 bis c.p.c., emerge che la stessa ricorrente considera il dipendente, che abbia presentato le dimissioni, come cessato dal servizio, indipendentemente dall'accettazione di esse da parte dell'amministrazione, mentre non viene chiarito in cosa consista l'invocato interesse giuridicamente qualificato della pubblica amministrazione ad una valutazione sotto il profilo disciplinare del comportamento tenuto ed anch'esso neppure specificato dal dipendente in servizio. Occorre quindi notare che l'articolo 124 in questione, come evidenziato dal giudice di appello, stabiliva che l'accettazione delle dimissioni potesse essere rifiutata o ritardata quando fosse in corso un procedimento disciplinare, al fine di consentire la conclusione dello stesso, mentre nella specie le dimissioni furono prontamente accettate in pendenza di procedimento disciplinare, sicché il rapporto di impiego doveva ritenersi risolto mentre quest'ultimo era in corso, con conseguente nullità della sanzione adottata, proprio in base al citato articolo 124 che, nei casi di interesse dell'amministrazione alla conclusione del procedimento disciplinare a carico del dipendente dimissionario, prevedeva la facoltà dell'amministrazione di rifiutarle o ritardarne l'accettazione. 3. Questa Corte ha tuttavia più volte affermato che a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. numero 29 del 1993, il rapporto di pubblico impiego privatizzato è regolato dalle norme del codice civile e dalle leggi civili sul lavoro, nonché dalle norme sul pubblico impiego solo in quanto non espressamente abrogate e non incompatibili ne consegue che le dimissioni del lavoratore costituiscono un negozio unilaterale recettizio, idoneo a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro dal momento in cui venga a conoscenza del datore di lavoro e indipendentemente dalla volontà di quest'ultimo di accettarle, sicché non necessitano più, per divenire efficaci, di un provvedimento di accettazione da parte della pubblica amministrazione Cass. 7 gennaio 2009 numero 57 . Ne consegue, con riferimento agli effetti delle dimissioni del dipendente, che, non essendo compatibile con il nuovo regime del rapporto di lavoro la disciplina delle dimissioni dettata dall'articolo 124 t.u. dell'impiego statale e dovendosi applicare i criteri civilistici, la dichiarazione di dimissioni, in quanto atto unilaterale recettizio ha l'effetto di risolvere il rapporto di lavoro dal momento in cui pervengono a conoscenza del datore di lavoro Cass. 4 agosto 2006 numero 17764 . Deve dunque considerarsi che, alla medesima stregua di quanto avviene nel rapporto di impiego privato ex plurimis, Cass. 17 giugno 2004 numero 11357 , la cessazione del rapporto faccia venire meno l'esercizio del potere disciplinare, che potrebbe concludersi solo con un provvedimento idoneo ad incidere su di un rapporto di lavoro esistente e non già cessato. In ogni caso, come dedotto dalla stessa amministrazione ricorrente, l'articolo 28 quater del c.c.numero l. 1994-97 del comparto Ministeri, stabiliva che le dimissioni del dipendente comportavano la cessazione del rapporto di lavoro, indipendentemente dall'accettazione di esse da parte dell'amministrazione. Tali conclusioni risultano in linea con la giurisprudenza amministrativa, la quale ha affermato che il procedimento disciplinare non prosegue successivamente alle dimissioni volontarie del pubblico dipendente, a seguito dell'abrogazione dell'articolo 118 d.P.R. numero 3/57 da parte dell'articolo 74 del d.lgs numero 29/93 Cons. Stato 28 febbraio 2005 . 4. Il ricorso deve pertanto rigettarsi. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro.50,00 per esborsi, Euro 3.000,00 per compensi, oltre accessori di legge.