Conflitto datore di lavoro-dipendente: l’accusa di incompetenza può essere un’offesa

Rimessa in discussione la valutazione compiuta dal Giudice di pace, che aveva azzerato l’accusa nei confronti di un lavoratore. A rendere grave la frase «Lei non capisce un c » è proprio il contesto lavorativo all’interno di questo quadro, difatti, le parole pronunziate non sono semplice dissenso ma offesa all’onore professionale.

Confronto a lavoro assai teso? Meglio abbassare i toni Perché le contestazioni professionali, se troppo sopra le righe, possono essere inquadrate come offesa sanzionabile penalmente Cassazione, sent. numero 234/2013, Quinta Sezione Penale, depositata oggi . Semplice dissenso? Eppure l’ottica adottata dal Giudice di pace è completamente diversa, molto più ‘moderna’ Perché la frase contestata, ossia «Lei non capisce un c » – rivolta da un dipendente al proprio datore di lavoro durante un acceso dialogo in azienda –, viene ritenuta non offensiva perché «entrata nel gergo comune» e, soprattutto, perché «pronunciata nel corso di una discussione di lavoro ed intesa a comunicare, in modo efficace, il proprio dissenso». Nessun «significato ingiurioso», quindi, secondo il Giudice di pace Professionalità sacra. ma tale ottica viene contestata dal Procuratore della Repubblica, che, proponendo ricorso per cassazione, chiede una rivisitazione dell’episodio, sostenendo la tesi del «significato ingiurioso» dell’espressione ‘incriminata’ proprio perché «collocata nell’ambito della discussione» di lavoro. Più precisamente, secondo il Procuratore, le parole utilizzate non esprimono semplicemente dissenso ma costituiscono «volgare affermazione di incompetenza» riferita alla persona del datore di lavoro. Ebbene, quest’ultimo particolare viene condiviso dai giudici della Cassazione, i quali non si soffermano sul tema dell’«appartenenza al parlare comune del termine volgare» pronunziato ma preferiscono sottolineare il ‘peso’ dell’ambiente lavorativo. All’interno di questo contesto, difatti, l’espressione incriminata, pronunciata con «particolare asprezza di tono» e nel corso di una «discussione di lavoro», era finalizzata a rimarcare l’«incompetenza» del datore di lavoro. Di conseguenza, la condotta del dipendente «esorbitava dalla mera manifestazione di un contrasto di opinioni, presentandosi viceversa quale offesa all’onore professionale», concludono i giudici, accogliendo il ricorso del Procuratore e riaffidando la questione al Giudice di pace.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 8 novembre 2012 – 7 gennaio 2013, numero 234 Presidente Teresi – Relatore Zaza Ritenuto in fatto Con la sentenza impugnata il Giudice di pace di Frosinone assolveva F.S. per non costituire il fatto reato dall’imputazione di cui all’articolo 594 cod. penumero , contestatagli nell’aver rivolto a M.S. le parole «lei non capisce un cazzo» in Frosinone il 07/05/2003. Il Procuratore della Repubblica ricorre deducendo violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla pronuncia assolutoria, giustificata dal ritenuto carattere non offensivo dell’espressione contestata in quanto entrata nel gergo comune e nella specie pronunciata nel corso di una discussione di lavoro ed intesa solo a comunicare in modo efficace il proprio dissenso. Il ricorrente osserva che l’espressione, proprio in quanto collocata nell’ambito di quella discussione, assumeva significato ingiurioso quale volgare affermazione di incompetenza della parte offesa, datore di lavoro dell’imputato. Considerato in diritto Il ricorso è fondato. Al di là della questione sull’attuale appartenenza o meno al parlare comune del termine volgare riportato nell’espressione contestata, è invero l’espressione stessa, letta complessivamente e nel contesto in cui veniva pronunciata, ad assumere carattere ingiurioso laddove vi veniva rimarcata con particolare asprezza di tono, e nel corso di una discussione di lavoro, l’incompetenza della persona offesa nella materia oggetto della discussione. La condotta esorbitava pertanto dalla mera manifestazione di un contrasto di opinioni fra l’imputato e la parte offesa, presentandosi viceversa quale offesa all’onore professionale di quest’ultima in quanto tale. La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata con rinvio al Giudice di pace di Frosinone per nuovo esame, rinviandosi al definitivo la liquidazione delle spese sostenute dalla parte civile. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio al Giudice di pace di Frosinone per nuovo esame.