Il procedimento di prevenzione ha natura giurisdizionale e le misure adottabili, limitando la libertà della persona e comunque incidendo sopra diritti fondamentali, devono essere ancorate a strettissimi parametri di legalità. E’ questo in sostanza il principio che si ricava dalla sentenza in commento, che per ciò solo merita di essere segnalata e approfondita.
Il caso. La Corte di appello di Torino, con proprio decreto, aveva applicato la misura preventiva della sorveglianza speciale ad un soggetto che, assolto dalle imputazioni delittuose, era stato condannato solo per meri reati contravvenzionali, in quanto si è ritenuta integrata la fattispecie dell’articolo 1 numero 1 e 2 della Legge numero 1423/1954 [e di cui all’odierno articolo 1 lett. a e b del Codice antimafia ex D. lgs numero 159/2011] poiché comunque dedito a traffici connessi alla commissione di reati seppur di solo natura contravvenzionale. Contro tale decreto la difesa aveva proposto ricorso per cassazione chiedendo l’annullamento del provvedimento in questione, in quanto illegittimo nel presupposto che la sorveglianza speciale possa essere disposta solo nel caso in cui vi sia il sospetto della commissione di delitti e non, quindi, di semplici contravvenzioni. La Corte di cassazione ha accolto il ricorso, condividendo l’assunto difensivo alla luce della natura del procedimento di prevenzione nel contesto costituzionale e delle garanzie internazionali. Misure preventive e legittimità nella loro applicazione. Occorre segnalare come secondo l’Alta corte, che si è prodigata nel richiamare le principali sentenze emesse in proposito dalla Corte costituzionale in particolare le sentenze numero 2 e 11 del 1956, la sentenza numero 177/1980 e la sentenza numero 93/2010 , nell’applicazione delle misure di prevenzione si debba sempre tenere conto del senso della garanzia giurisdizionale e della necessità di motivare sulla scorta di fatti specifici e non sulla base di meri sospetti. Se, infatti, non può escludersi “la legittimità costituzionale di un sistema di misure di prevenzione dei fatti illeciti, a garanzia dell’ordinato e pacifico svolgimento dei rapporti fra cittadini”, è pur vero che non si può prescindere dal principio di stretta legalità penale articolo 13 e 25 cost. . Da ciò la conclusione secondo cui l’applicazione della misura preventiva, seppure ancorata nella maggioranza dei casi ad un giudizio prognostico, deve trovare “il presupposto necessario in fattispecie di pericolosità, previste – descritte dalla legge fattispecie destinate a costituire il parametro dell’accertamento giudiziale e, insieme, il fondamento di una prognosi di pericolosità, che solo su questa base può dirsi legalmente fondata”. Se così non fosse, ogni garanzia apparirebbe come fittizia, poiché si potrebbe prescindere dai presupposti legali e ogni accertamento giudiziale sarebbe meramente di stile. Come ben si legge in motivazione, “l’intervento del giudice e la presenza della difesa, la cui necessità è stata affermata senza riserve nel procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione non avrebbe significato sostanziale o ne avrebbe uno pericolosamente distorcente la funzione giurisdizionale nel campo della libertà personale se non fosse preordinato a garantire, nel contraddittorio tra le parti, l’accertamento di fattispecie legali predeterminate”. Ecco che allora, nel definire la legittimità di questa o quella misura concretamente disposta, non si può prescindere dal considerare con strettissimo rigore la categoria dei reati ai quali tali provvedimenti sono inscindibilmente connessi. Dati gli assunti, la Corte di cassazione non poteva che concludere per l’illegittimità del decreto della Corte di appello di Torino, poiché il riferimento normativo a “traffici delittuosi” e a “attività delittuose” non possono interpretarsi nel senso di comprendere anche le contravvenzioni. Infatti, in base al principio di legalità, determinatezza e tassatività l’unico significato che può attribuirsi all’aggettivo “delittuosi” non può che essere “che costituisce delitto”, non potendosi attribuire a dette parole altro senso e non potendosi giustificare l’estensione della categoria di riferimento sulla scorta di pure congetture lessicali nel caso di specie, la Corte d’appello aveva sostenuto la propria illegittima interpretazione in base alla difficoltà grammaticale di riferire di “attività di reato” e di “traffici di reato”, sicché - sic! - l’espressione “delittuosi” doveva intendersi come comprensiva anche delle contravvenzioni - ndr - . Da qui la cassazione del provvedimento impugnato. Processo penale e processo di prevenzione richieste le stesse garanzie. Dal punto di vista sistematico, la sentenza in commento ha il gran pregio di aver ricostruito, seppur sinteticamente, i principi a cui il giudice e a maggior ragione si potrebbe dire il Legislatore dovrebbero attenersi nel configurare le misure di prevenzione. Quel che appare evidente è l’esigenza di non impedire, ma anzi di incentivare l’assorbimento delle garanzie del processo penale nel processo di prevenzione. Ciò che rileva, infatti, non è la diversa o specifica finalità del singolo processo, ma i valori in gioco e se si tratta di libertà e beni fondamentali, che godono di copertura costituzionale e comunque di protezione a livello internazionale, non vi è dubbio che non è lecito distinguere tra questo o quel procedimento, quanto meno nelle configurazioni delle sue linee essenziali. Ne deriva, allora, un significativo arricchimento delle garanzie sostanziali e procedurali, le quali assumono sempre più i connotati di baluardi fondamentali per la difesa dei diritti contro arbitri e contro prassi abnormi. Ciò spiega – se mai ve ne fosse ancora bisogno – la necessità di ancorare il processo di prevenzione ad una decisione motivata del giudice, che segua ad un vero contraddittorio con la difesa in un contesto di pubblicità e trasparenza. E’ chiaro che allo stato e, quindi, de iure condito non è possibile sostenere una equivalenza tra procedimento penale e quello di prevenzione, come peraltro è dimostrato dal principio – nella sentenza in commento ribadito senza alcun dubbio – che la motivazione può essere sindacata solo se mancante o apparente e non anche se illogica o contraddittoria. Ma tale profilo “negativo”, non può sminuire la rilevanza della decisione de qua . Né si può ritenere che con questa sentenza si sia trattato, in fondo, di mera ripetizione di principi generici ormai consolidati ciò costituirebbe un grave errore, poiché il contesto non è scolastico ma di alta giurisdizione. La natura e gli argomenti addotti dalla Corte distrettuale, in toto cassati dalla Suprema corte, presupponevano l’accettazione di principi inaccettabili, i quali benché inespressi ne costituivano il fondamento. Aver chiarito in maniera esauriente ed inequivocabile il fine del procedimento de quo e i criteri di valore a cui il giudice deve ispirarsi, non pare davvero poca ed inutile cosa, se si ha riguardo alle future decisioni ed alla necessità di evitare gravi errori o, per meglio dire, ingiustizie. In ciò, del resto, si evidenzia il vero senso della nomofiliachia e la sua ragion d’essere.
Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 23 marzo – 3 maggio 2012, numero 16348 Presidente Fiandanese – Relatore Iasillo Osserva Con decreto dell'11.05.2011 la Corte di appello di Torino confermava il decreto emesso dal Tribunale di Torino, Sez. Misure di prevenzione, in data 15.03.2010 nella parte in cui aveva disposto per B.G. la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di P.S. per anni due con obbligo di soggiorno e la restituzione di un immobile sequestrato a Y.A.I. terza interessata moglie del comma in parziale riforma del decreto del Tribunale di Torino di cui sopra ordinava la confisca delle unità immobiliari - specificate nel dispositivo - intestate a S.R. terza interessata, moglie del B. Avverso detto decreto hanno presentato ricorso per Cassazione l'Avvocato Marco Ferrero, quale difensore di B.G. l'Avvocato Paolo Davico Bonino, quale difensore di S.R. , B.K. e B.V. il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Torino. Il Procuratore Generate evidenzia i rilevanti difetti del percorso motivazionale del provvedimento impugnato - con il quale è stata confermata la fondatezza della restituzione, da parte del Tribunale, di un immobile sequestrato a Y.A.I. moglie del proposto C.A.comma - che di fatto rendono la motivazione solo apparente e quindi inesistente. Il Procuratore Generale conclude, quindi, per l'annullamento sul punto del decreto della Corte di Appello di Torino dell'11.05.2011. In data 06.03.2012 l'Avvocato Daniela Rossi, difensore di Y.A.I. , presenta una memoria nella quale evidenzia che il ricorso del P.G. di Torino è inammissibile o infondato perché di fatto denunzia vizi attinenti al merito o carenze di motivazione, mentre il sindacato di legittimità sui provvedimenti in materia di prevenzione è limitato al vizio della violazione di legge. I difensori del proposto B. e dei terzi interessati evidenziano in primo luogo la nullità del decreto essendo stato loro notificato - in data 13.05.2011 - solo il dispositivo del provvedimento. La nullità discenderebbe dal fatto che non è previsto dall'articolo 127 del c.p.p. un deposito differito del dispositivo e della motivazione deposito differito che incide sullo strettissimo termine di impugnazione di dieci giorni che decorre dalla notifica del decreto. Eccepiscono, poi, che a seguito dell'assoluzione del B. per tutti i fatti delittuosi lo stesso è stato invece condannato per la contravvenzione di cu all'articolo 718 c.p. lo stesso non poteva essere sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, perché l'articolo 1 numero 1 e 2 della L. 1423/1956 individua quali soggetti ai quali può essere applicata una misura di prevenzione solo quelli che siano sospettati di aver commesso delitti e non già le contravvenzioni, come invece erroneamente ritenuto dalla Corte di appello di Torino. Conseguentemente non poteva essere disposta alcuna misura di prevenzione patrimoniale. Propongono, poi, altre censure sulla mancanza di motivazione in ordine alla sussistenza e attualità della pericolosità sociale del B. alla durata della misura alla confisca dei beni immobili di S.R. . I difensori del proposto B. e dei terzi interessati hanno presentato memorie anche con motivi aggiunti con le quali insistono nella richiesta di annullamento dell'impugnato provvedimento. Motivi della decisione Il ricorso del Procuratore Generale è fondato e va pertanto accolto. Infatti è noto che nel procedimento di prevenzione il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge, secondo il disposto dell'articolo 4, decimo comma, dalla legge 27 dicembre 1956, numero 1423, richiamato dall'articolo 3 ter, secondo comma, della legge 31 maggio 1965, numero 575 ne consegue che, in tema di sindacato sulla motivazione, è esclusa dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità l'ipotesi dell'illogicità manifesta di cui all'articolo 606, lett. e , cod. proc. penumero , potendosi esclusivamente denunciare con il ricorso, poiché qualificabile come violazione dell'obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice d'appello dal nono comma del predetto articolo 4 legge 1423/1956, il caso di motivazione inesistente o meramente apparente cfr. articolo 125 c.p.p., comma 3, ultima parte v. Sez. 2, Sentenza numero 2181 del 06/05/1999 Cc. - dep. 26/05/1999 - Rv. 213852 Sez. 6, Sentenza numero 15107 del 17/12/2003 Cc. - dep. 30/03/2004 - Rv. 229305 Sez. 2, Sentenza numero 19914 del 31/01/2005 Cc. - dep. 26/05/2005 - Rv. 231873 Sez. 2, Sentenza numero 6977 del 09/02/2011 Cc. - dep. 23/02/2011 - Rv. 249364 . Nella specie si riscontra proprio un caso di motivazione apparente. Infatti, la stessa Corte di appello, a pagina 10 del suo provvedimento, nell'illustrare i motivi che sostengono la richiesta della Procura di Torino per la confisca del bene di cui si discute, indica l’incompatibilità del reddito familiare dichiarato con i beni oggetto del sequestro riconducibili a C.A.comma , avendo costui svolto lavoro dipendente in maniera non continuativa e avendo la di lui moglie svolto brevi lavori stagionali, senza che la suocera di comma appaia in condizione di aiutare economicamente la figlia, per cui le entrate di costoro sarebbero insufficienti a pagare le rate del mutuo per l'acquisto dell'immobile . La Corte territoriale a pagina 13 espone le ragioni per le quali ritiene di confermare la restituzione dell'immobile a Y.A.I. . Il Giudice di merito affronta un unico tema e cioè quello relativo all'aiuto economico della madre della Y. . Quindi non dicendo nulla su quanto evidenziato dalla Procura di Torino in relazione all'incompatibilità del reddito familiare del C.A.comma con il bene oggetto di confisca, si deve ritenere che la Corte di appello condivida quanto accertato ed evidenziato dal P.M. sul punto. Invero se su tale questione il giudice di merito avesse riscontrato lacune o dati infondati aveva l'obbligo di evidenziarli nella motivazione. Per quanto riguarda l'unico argomento trattato dalla Corte di appello, è, poi, evidente l'apparenza della motivazione, che di fatto è mancante. Infatti, la Corte territoriale riconosce che dalla documentazione ai fini fiscali risulta un reddito della madre della Y. inferiore a quello dichiarato in udienza e che le modalità di custodia del danaro riferite non sono usuali danaro contante conservato in una cassetta di sicurezza, pur disponendo di un regolare conto corrente bancario, e dato alla figlia sempre in contanti e per cifre rilevanti Euro 20.000,00 una prima volta e poi più di Euro 9.000,00 per quattro volte . Però la stessa Corte supera quanto sopra sulla base di una presunta massima di esperienza e cioè che per i redditi da lavoro domestico una parte della retribuzione viene erogata fuori busta per risparmiare sia ai fini fiscali sia ai fini contributivi. A prescindere dal rilevare che la massima di esperienza di cui sopra appare, in realtà, una congettura, cioè un'ipotesi non fondata sullo id quod plerumque accidit e insuscettibile di verifica empirica Sez. 6, Sentenza numero 16532 del 13/02/2007 Ud. - dep. 24/04/2007 - Rv. 237145 Sez. 2, Sentenza numero 44048 del 13/10/2009 Ud. - dep. 18/11/2009 - Rv. 245627 , si deve osservare che la Corte di appello non ha neppure indicato quale parte, su una retribuzione effettiva di Euro 2.000,00 già molto alta per un lavoro domestico, tra l'altro affermato dalla dichiarante e non provato con un contratto o altri elementi certi , sia, secondo la massima di esperienza di cui sopra, logico ritenere erogata fuori busta e poi non ha dato alcuna spiegazione sul perché la madre della Y. dovesse tenere tanto danaro contante in una cassetta di sicurezza e non sul suo conto corrente. Infine, il Giudice di merito non ha evidenziato quali erano le spese che la madre della Y. e della sua eventuale famiglia di questa donna, invero, leggendo il provvedimento impugnato non si sa nulla doveva sostenere per vivere a Roma e ciò al fine di dare una minimo supporto motivazionale alle affermazioni apodittiche che i redditi che la suocera di comma ha dichiarato di percepire appaiono idonei a fornire la provvista per il pagamento della rata del mutuo mensile e che “il ricorrente P.M. non ha assolto l'onere di provare il requisito della sproporzione reddituale . Né la Corte ha tenuto presente che se nel procedimento di prevenzione - che ha la finalità di accertare se i beni sequestrati costituiscano il reimpiego dei proventi di attività illecite - per verificare la legittima provenienza del danaro utilizzato per l'acquisto dei beni di cui sopra ci si allontana dalla valutazione di dati certi e ci si affida alle congetture cosa, ovviamente, non consentita per nessun procedimento diventa impossibile raggiungere l'obbiettivo fissato dalla Legge. Il caso di cui ci si occupa è emblematico in tal senso. Infatti, più della metà del prezzo dell'immobile sequestrato è stato pagato con danaro in contanti Euro 58.000,00 sulla cui provenienza non si sa nulla, che non ha lasciato alcuna traccia oggettiva di dove e da chi è stato raccolto e come è arrivato alla Y. . È evidente che le sole parole che, tra l'altro, sono in contrasto con gli elementi oggettivi acquisiti di una stretta parente di chi si ritiene essere la fittizia proprietaria dell'immobile moglie del C.A.comma non possono bastare a ritenere superata la presunzione che il suddetto bene sia stato acquistato con i proventi di attività illecite. In proposito si deve ricordare che questa Suprema Corte ha più volte affermato che i terzi ricorrenti, ove non conviventi, pur non avendo un onere di prova nel vero significato della frase, hanno comunque il dovere oltre che l'interesse di dimostrare la legittima provenienza dei beni dei quali sono formalmente intestatari Cass. Sez. 1, seni numero 5897 del 26.11.1998 dep. 18.1.1999, Bonmarito . Con riferimento, invece, agli stretti familiari, asseritamente fittizi intestatari di beni, rientranti nel novero di quelli considerati dalla L. numero 575 del 1965, articolo 2 bis, comma 3, separatamente da tutti gli altri terzi opera una fondata presunzione di essere solo prestanomi circa l'effettiva disponibilità dei beni in testa al proposto, salvo rigorosa e fondata prova contraria posta a carico dei predetti soggetti legati da vincoli parentelari aut similia convivenza con detto proposto, essendo intuibilmente più accentuato, in caso di titolarità dei beni in capo a costoro, il pericolo di una intestazione meramente fittizia a copertura di quella concreta e reale in testa al detto proposto raggiunto dalla misura di prevenzione personale Sez. 2, Sentenza numero 6977 del 09/02/2011 Cc. - dep. 23/02/2011 - Rv. 249364 . Ed ancora questa Corte ha ribadito che in materia di misure di prevenzione patrimoniali, il sequestro e la confisca possono avere ad oggetto i beni del coniuge, dei figli e degli altri conviventi, dovendosi ritenere che il prevenuto ne abbia la disponibilità facendoli apparire formalmente come beni nella titolarità delle persone di maggior fiducia, sui quali pertanto grava l'onere di dimostrare l'esclusiva disponibilità e legittima acquisizione del bene per sottrarlo alla confisca Sez. 1, Sentenza numero 39799 del 20/10/2010 Cc. - dep. 11/11/2010 - Rv. 248845 . Il decreto impugnato con riferimento all'omessa confisca dell'immobile intestato a Y.A.I. , moglie del proposto C.A.comma , va quindi annullato con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Torino per nuovo giudizio. La prima doglianza dei difensori del proposto B. e dei terzi interessati è manifestamente infondata. È, infatti, evidente che il deposito differito del dispositivo e della motivazione di un decreto non comporta alcuna nullità del provvedimento stesso, ma incide solo sul termine di impugnazione che decorrerà a seconda dei casi dal termine stabilito dalla legge per il deposito della motivazione o nel caso di superamento di questo dalla comunicazione o notificazione dell'avvenuto deposito si vedano per diversi tipi di procedimenti camerali Sez. 4, Sentenza numero 43040 del 12/10/2011 Cc. - dep. 22/11/2011 - Rv. 251113 Sez. U, Sentenza numero 21039 del 27/01/2011 Cc. - dep. 26/05/2011 - Rv. 249670 Sez. U, Sentenza numero 12822 del 21/01/2010 Ud. - dep. 02/04/2010 - Rv. 246269 . Nel caso di specie si è verificato quanto sopra e quindi il proposto e i terzi interessati hanno presentato validi ricorsi dopo aver avuto conoscenza del deposito della motivazione. È chiaro, quindi, che i ricorrenti non hanno alcun interesse concreto a tale motivo di ricorso. La seconda doglianza dei ricorrenti relativa al fatto che il B. - assolto, con sentenza della Corte di appello di Torino del 23.04.2010, da tutti i fatti delittuosi e condannato solo per due contravvenzioni - non poteva essere sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, perché l'articolo 1 numero 1 e 2 della L. 1423/1956 individua quali soggetti ai quali può essere applicata una misura di prevenzione solo quelli che siano sospettati di aver commesso delitti e non già le contravvenzioni, come invece erroneamente ritenuto dalla Corte di appello di Torino, è invece fondata e va quindi accolta. L'accoglimento di tale motivo di ricorso, ovviamente, assorbe tutti gli altri motivi dei ricorsi del proposto e dei terzi interessati che quindi non saranno presi in esame in questa sede perché la Corte di appello, in sede di rinvio, dovrà riesaminare l'intera vicenda e decidere su tutte le doglianze dei ricorrenti. È necessario, preliminarmente, osservare che la L. 27.12.1956 n 1423 - che prevede e disciplina le misure di prevenzione - ha sostituito le vecchie norme di polizia originariamente contenute nel T.U.L.P.S. a seguito della riconosciuta illegittimità Costituzionale comma Cost. 11/1956 comma Cost. 2/1956 dell'apparato burocratico che - secondo il predetto testo normativo - le applicava in sede extra giurisdizionale, considerato che venivano applicate da un'apposita commissione di natura amministrativa. Quindi già con la sentenza numero 2 del 1956, la Corte Costituzionale ebbe a fissare alcuni importanti principi, quali l'obbligo della garanzia giurisdizionale per ogni provvedimento limitativo della libertà personale e il netto rifiuto del sospetto come presupposto per l'applicazione di siffatti provvedimenti, in tanto legittimi in quanto motivati da fatti specifici. Con la successiva sentenza numero 11 del medesimo anno 1956, la Corte affermò che il grave problema di assicurare il contemperamento tra le due fondamentali esigenze di non frapporre ostacoli all'attività di prevenzione dei reati e di garantire il rispetto degli inviolabili diritti della personalità umana, appare risolto attraverso il riconoscimento dei tradizionali diritti di habeas corpus nell'ambito del principio di stretta legalità. Correlativamente, prosegue la Corte nella citata sentenza, in nessun caso l'uomo potrà essere privato o limitato nella sua libertà personale se questa privazione o restrizione non risulti astrattamente prevista dalla legge, se un regolare giudizio non sia a tal fine instaurato, se non vi sia provvedimento dell'autorità giudiziaria che ne dia le ragioni. La legittimità costituzionale di un sistema di misure di prevenzione dei fatti illeciti, a garanzia dell'ordinato e pacifico svolgimento dei rapporti, fra i cittadini è sempre stata ribadita dalle successive sentenze della Corte sentenze numero 27 del 1959 numero 45 del 1960 numero 126 del 1962 numero 23 e numero 68 dei 1964 numero 32 del 1969 e numero 76 del 1970 con riferimento agli articolo 13,16,17 e 25, terzo comma, Cost. ora sottolineando ora attenuando il parallelismo con le misure di sicurezza di cui appunto all'ari 25, terzo comma, Cost. e perciò, ora richiamando l'identità del fine - di prevenzione di reati - perseguito da entrambe le misure che hanno per oggetto la pericolosità sociale del soggetto, ora marcando, invece, le differenze che si vogliono intercorrenti tra di esse. Il principio di legalità in materia di prevenzione, il riferimento, cioè, ai casi previsti dalla legge, lo si ancori all'ari 13 ovvero all'ari 25, terzo comma, Cost., implica che la applicazione della misura, ancorché legata, nella maggioranza dei casi, ad un giudizio prognostico, trovi il presupposto necessario in fattispecie di pericolosità, previste - descritte - dalla legge fattispecie destinate a costituire il parametro dell'accertamento giudiziale e, insieme, il fondamento di una prognosi di pericolosità, che solo su questa base può dirsi legalmente fondata. Invero, se giurisdizione in materia penale significa applicazione della legge mediante l'accertamento dei presupposti di fatto per la sua applicazione attraverso un procedimento che abbia le necessarie garanzie, tra l'altro di serietà probatoria, non si può dubitare che anche nel processo di prevenzione la prognosi di pericolosità demandata al giudice e nella cui formulazione sono certamente presenti elementi di discrezionalità non può che poggiare su presupposti di fatto previsti dalla legge e, perciò, passibili di accertamento giudiziale. L'intervento del giudice e la presenza della difesa, la cui necessità è stata affermata senza riserve si veda ad esempio Sez. 5, Sentenza numero 3311 del 25/10/1993 Cc. - dep. 23/11/1993 - Rv. 196298 nel procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione non avrebbe significato sostanziale o ne avrebbe uno pericolosamente distorcente la funzione giurisdizionale nel campo della libertà personale se non fosse preordinato a garantire, nel contraddicono tra le parti, l'accertamento di fattispecie legali predeterminate. A tal proposito, è bene accennare che, sotto il profilo della determinatezza, non è affatto rilevante che la descrizione normativa abbia ad oggetto una condotta singola ovvero una pluralità di condotte, posto che apprezzabile può essere sèmpre e soltanto il comportamento o contegno di un soggetto nei confronti del mondo esterno, come si esprime attraverso le sue azioni od omissioni. Decisivo è che anche per le misure di prevenzione, la descrizione legislativa, la fattispecie legale, permetta di individuare la o le condotte dal cui accertamento nel caso concreto possa fondatamente dedursi un giudizio prognostico, per ciò stesso rivolto all'avvenire. Si deve ancora osservare che le condotte presupposte per l'applicazione delle misure di prevenzione, poiché si tratta di prevenire reati, non possono non involgere il riferimento, esplicito o implicito, al o ai reati o alle categorie di reati della cui prevenzione si tratta, talché la descrizione della o delle condotte considerate acquista tanto maggiore determinatezza in quanto consenta di dedurre dal loro verificarsi nel caso concreto la ragionevole previsione del pericolo che quei reati potrebbero venire consumati ad opera di quei soggetti. I principi di cui sopra sono stati, naturalmente, più volte ribaditi da questa Suprema Corte, la quale, ad esempio, ha affermato che poiché le misure di prevenzione hanno natura sostanzialmente e formalmente afflittiva e non possono perseguire alcuna finalità rieducativa, anche in tale materia il procedimento probatorio deve assumere il carattere della giurisdizionalità, sia sul piano soggettivo che su quello oggettivo sul piano soggettivo, nel senso che deve essere un organo giurisdizionale a presiedere alla formazione della prova sul piano oggettivo, nel senso che devono essere rigorosamente rispettati anche in materia di prevenzione i principi di riserva di legge e di determinatezza della fattispecie sanciti dagli articolo 13 e 27 della Costituzione Sez. 1, Sentenza numero 212 del 21/01/1991 Cc. - dep. 01/03/1991 - Rv. 186501 Sez. 6, Sentenza numero 8 del 04/01/2000 Cc. - dep. 05/04/2000 - Rv. 215856 . Nel 2010 la Corte Costituzionale sent. numero 93/2010 ha affermato che sono costituzionalmente illegittimi, per contrasto con l'articolo 117, primo comma, Cost., l'articolo 4 della legge 27 dicembre 1956, numero 1423 e l'articolo 2 - ter della legge 31 maggio 1965, numero 575, nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione si svolga, davanti al Tribunale e alla Corte d'appello, nelle forme dell'udienza pubblica. Le censurate disposizioni, prevedendo che le misure di prevenzione siano applicate in esito ad un procedimento camerale senza la partecipazione del pubblico, violano, infatti, l'articolo 6. par. 1, della CEDU poiché, nonostante l'incidenza diretta, definitiva e sostanziale delle misure de quibus su beni dell'individuo costituzionalmente tutelati, quali la libertà personale, il patrimonio e la stessa libertà di iniziativa economica, non contemplano la possibilità per l'interessato di chiedere un dibattimento pubblico, ledendo il principio di pubblicità delle udienze giudiziarie, costituzionalmente rilevante anche in assenza di un esplicito richiamo in Costituzione si veda anche Sez. 5, Sentenza numero 7800 del 17/11/2011 Cc. - dep. 28/02/2012 - Rv. 251716 . Tutto quanto sopra premesso dimostra chiaramente il processo di progressiva giurisdizionalizzazione in tale materia, che impone l'osservanza delle regole coessenziali al giudizio in senso proprio infatti, il procedimento di prevenzione, all'esito del quale il giudice è chiamato ad esprimere un giudizio di merito, è idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e sostanziale su beni dell'individuo costituzionalmente tutelati, quali la libertà personale ari 13, primo comma, Cosi si vedano Ccomma 77/1995 Ccomma 93/2010 Sez. 1, Sentenza numero 212 del 21/01/1991 Cc. - dep. 01/03/1991 - Rv. 186501 Sez. 5, Sentenza numero 3311 del 25/10/1993 Cc. - dep. 23/11/1993 Rv. 196298 . Orbene alla luce dei sopra affermati principi, è evidente che l'interpretazione della Corte di appello di Torino dell'articolo 1, numero 1 e numero 2, della Legge 1423/1956 è erronea. Infatti, tale interpretazione secondo la quale i termini traffici delittuosi e attività delittuose comprendano anche le contravvenzioni, viola il principio di legalità, di determinatezza e di tassatività di cui si è sopra detto e il cui solo rispetto consente di ritenere la norma di cui si tratta conforme alla Costituzione. È proprio in base alle considerazioni sin qui svolte, che la Corte Cost. sent. 177/1980 ha dichiarato fondata la questione di legittimità costituzionale dell'ari 1, numero 3 ultima ipotesi, della legge numero 1423 del 1956. Afferma la Corte Cost. - nella sentenza 177/1980 della quale è opportuno riportare alcuni punti - che la disposizione di legge in esame a differenza ad esempio di quella di cui al numero 1 del medesimo articolo 1 r non descrive né una o più condotte, né alcuna manifestazione cui riferire, senza mediazioni, un accertamento giudiziale. Quali manifestazioni vengano in rilievo è rimesso al giudice e, prima di lui, al pubblico ministero ed alfa autorità di polizia proponenti e segnalanti già sul piano della definizione della fattispecie, prima che su quello dell'accertamento. I presupposti del giudizio di proclività a delinquere non hanno qui alcuna autonomia concettuale dal giudizio stesso. La formula legale non svolge, pertanto, la funzione di una autentica fattispecie, di individuazione, cioè, dei casi come vogliono sia l'articolo 13, che l'articolo 25, terzo comma, Cost. , ma offre agli operatori uno spazio di incontrollabile discrezionalità. Né per la ricostruzione della fattispecie può sovvenire il riferimento al o ai reati della cui prevenzione si tratterebbe. La espressione proclivi a delinquere usata dal legislatore del 1956 sembrerebbe richiamare l'istituto della tendenza a delinquere di cui al l'articolo 108 del codice penale, ma l'accostamento sui piano sostanziale non regge, posto che la dichiarazione prevista da quest'ultima norma presuppone l'avvenuto accertamento di un delitto non colposo contro la vita o l'incolumità individuale e dei motivi a delinquere, tali da far emergere una speciale inclinazione al delitto e l'indole particolarmente malvagia del colpevole. Nel caso in esame la proclività a delinquere deve, invece, essere intesa come sinonimo di pericolosità sociale, con la conseguenza che l'intera disposizione normativa, consentendo l'adozione di misure restrittive della libertà personale senza l'individuazione né dei presupposti né dei fini specifici che le giustificano, si deve dichiarare costituzionalmente illegittima. Quindi la Corte di Appello di Torino perviene all'errata interpretazione della norma di cui sopra non solo non tenendo conto di quanto affermato costantemente dalla Corte Costituzionale e dalla Giurisprudenza di questa Suprema Corte di Cassazione, ma anche sulla base di considerazioni apodittiche e poco chiare. Ad esempio la Corte territoriale afferma a pagina 4 che l'articolo 1 della citata legge 1423/1956 non è una norma penale, e cioè non fa parte di quella branca del diritto pubblico che disciplina i fatti costituenti reato e le sanzioni penali riconnesse alla commissione dei reati . È evidente che quanto rilevato dal Giudice di merito è vero, ma non si comprende quale incidenza abbia sulla interpretazione di cosa volesse intendere il Legislatore con le espressioni traffici delittuosi e attività delittuose . Per comprenderne l'esatto significato si deve tener presente la gravità delle misure di prevenzione e la loro incidenza su beni essenziali dell'uomo e garantiti dalla nostra Costituzione e dalla CEDU. Inoltre, si deve ancora ricordare che le condotte presupposte per l'applicazione delle misure di prevenzione, poiché si tratta di prevenire reati, non possono non involgere il riferimento, esplicito o implicito, al o ai reati o alle categorie di reati della cui prevenzione si tratta, talché la descrizione della o delle condotte considerate acquista tanto maggiore determinatezza in quanto consenta di dedurre dal loro verificarsi nel caso concreto la ragionevole previsione del pericolo che quei reati potrebbero venire consumati ad opera di quei soggetti. Orbene da ciò si può affermare che le categorie dei soggetti indicati attualmente dalla disposizione di cui all'articolo 1 della L. 1423/1956 si caratterizzano per il fatto di essere identificati con riferimento ad attività penalisticamente qualificate. E, invero, nel numero 1 e nel numero 2 il Legislatore aggiunge ai sostantivi traffici e attività l'aggettivo delittuosi, il cui unico significato è che costituiscono delitti . Pertanto il riferimento al termine delitto sgombra il campo da possibili estensioni alle contravvenzioni, restringendo l'applicazione delle misure di prevenzione solo ai soggetti sospettati di compiere le più gravi forme di reato. Mentre invece per le persone di cui al numero 3 la generica indicazione del termine reato consente di comprendere anche le contravvenzioni. L'interpretazione di cui sopra è conforme al primo canone ermeneutico grammaticale o semantico , fissato dall'articolo 12 delle preleggi che stabilisce che nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse . Ma è conforme - per quanto sopra esposto - anche a tutti gli altri criteri interpretativi quali ad esempio il criterio storico nel cui ambito si utilizza attualmente il c.d. metodo teleologia si veda ultima parte del primo comma del citato articolo 12 delle preleggi e dalla intenzione del legislatore” e il criterio logico sistematico. È appena il caso di ricordare che in campo penalistico il giudice deve rispettare il principio di stretta legalità, principio che, per quanto sopra detto, deve essere rispettato anche nel procedimento di prevenzione. Quindi, per evitare che il Giudice crei norme in tali delicati settori, il procedimento interpretativo deve essere tendenzialmente circoscritto all'interpretazione letterale, nella massima estensione possibile, della norma. In relazione a quanto sopra sottolineato si deve rilevare che anche la Corte di appello di Torino cerca di giustificare la sua interpretazione ricorrendo al canone grammaticale, quando evidenzia pagine 4 e 5 che nell'articolo 1 si sono inserite le locuzioni attività delittuose e traffici delittuosi perché congruenti col senso logico dell'espressione definitoria adoperata dal Legislatore, non potendosi parlare di attività di reato e di traffici di reato . È vero che non si può dire attività di reato o traffici di reato ma è sfuggito alla Corte di appello che se il Legislatore avesse voluto dare alle parole attività e traffici l'ampio significato al quale è pervenuto il Giudice di merito poteva costruire le locuzioni in vari altri modi come ad esempio i seguenti attività o traffici di rilevanza penale oppure attività o traffici costituenti illeciti penali . Il Legislatore, invece, ha usato l'aggettivo delittuoso - che come detto ha un preciso significato - per restringere e differenziare l'applicazione dei casi previsti nei numero 1 e 2 del predetto articolo 1 L1423/1956, rispetto al caso previsto nel numero 3 dello stesso articolo. Infine, si deve rilevare che, a ulteriore conferma dell'esatta interpretazione di cui sopra, nell'articolo 14 della L 19.03.1990 - articolo abrogato dall'articolo 11 del D.L. 23.05.2008 numero 92 convertito con modificazioni nella L. 24. 07.2008 numero 125 - nella parte finale del primo comma si afferma ai soggetti indicati nei numeri 1 e 2 dell'articolo 1 della Legge 27.12.1956, numero 1423 quando l'attività delittuosa da cui si ritiene derivino i proventi sia una di quelle previste dagli articoli 600, 601, 602, 629, 630, 644, 646 bis o 648 ter del codice penale quindi il Legislatore usa la locuzione attività delittuosa come sinonimo di delitto l'attività delittuosa sia una di quelle previste dai vari delitti sopra specificati . Alla stregua delle esposte considerazioni il decreto impugnato va pertanto cassato, con rinvio alla Corte di Appello di Torino - in diversa composizione rispetto a quella che ha giudicato nel presente giudizio in ossequio ai principi di cui all'articolo 34 c.p.p. - per nuovo esame, alla luce delle osservazioni e dei principi innanzi illustrati, sull'attualità della pericolosità sociale di B.G. e, in caso di effettiva sussistenza della pericolosità, per decidere in ordine alta confisca dei beni nella sua disponibilità diretta o indiretta. P.Q.M. Annulla il decreto impugnato in accoglimento del ricorso del Procuratore Generale presso la Corte di appello di Torino con riferimento all'omessa confisca dell'immobile intestato Y.A.I. nel procedimento di prevenzione a carico di C.A.comma e in accoglimento dei ricorsi di B.G. , S.R. , B.K. e B.V. con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Torino per nuovo giudizio.