Se il reato è perseguibile d’ufficio la denuncia non è fonte di responsabilità per danni a carico del denunciante

La denuncia di un reato perseguibile d’ufficio non è fonte di responsabilità per danni a carico de denunciante, ai sensi dell’articolo 2043 c.c., anche in caso di proscioglimento o di assoluzione del denunciato, se non quando essa possa considerarsi calunniosa.

Al di fuori di tale ipotesi, infatti, l’attività pubblicistica dell’organo titolare dell’azione penale si sovrappone all’iniziativa del denunciante, togliendole ogni efficacia causale e così interrompendo ogni nesso causale tra tale iniziativa e il danno togliendole ogni efficacia causale e così interrompendo ogni nesso causale tra tale iniziativa e il danno eventualmente subito dal denunciato. Ne consegue che spetta all’attore, che in sede civile chieda il risarcimento dei danni assumendo che la denuncia era calunniosa, dimostrare che la controparte aveva consapevolezza dell’innocenza del denunciato. Ad affermarlo è la Corte di Cassazione nella sentenza n. La fattispecie. Nel caso in esame il Giudice di gravame, riformando la sentenza di primo grado, aveva rigettato la domanda risarcitoria formulata in sede civile dal querelato, poi assolto nel giudizio penale, nei confronti del querelante. La posizione della Corte. Il Supremo osserva che la denuncia di un reato perseguibile d’ufficio, o la proposizione della querela in relazione a un fatto perseguibile a querela di parte, non è di per sé fonte di responsabilità per danni a carico del denunciante o del querelante in caso di proscioglimento dell’imputato se non quando dette possano considerarsi calunniose. E’ necessario il dolo del querelante. In altre parole il querelato avrà diritto al ristoro del danno unicamente venga dimostrata una condotta dolosa del denunciante volta alla consapevole attribuzione della commissione di un reato in capo a un individuo della cui innocenza il denunciante sia conscio. La ratio di tale restrizione. Le ragioni di tale restrizione di questa ipotesi di responsabilità al solo caso di comportamento doloso sono fondate sull’interesse pubblico della repressione dei reati a tal fine è necessaria la collaborazione del cittadino e, questa, verrebbe sicuramente scoraggiata dalla possibilità di una richiesta risarcitoria.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 9 febbraio - 10 giugno 2016, numero 11898 Presidente Travaglino – Relatore Rubino Fatto e diritto O.S. veniva tratto a giudizio su querela di P.S. per rispondere del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose, in quanto il P. , titolare di un esercizio commerciale di vendita di materiale hardware e software, addebitava all’O. di essersi introdotto nel suo negozio e di aver prelevato una scheda informatica da un espositore portandola via senza pagare contro la volontà del negoziante. Assolto in sede penale, l’O. conveniva il P. dinanzi al giudice di pace chiedendo che fosse condannato a risarcirgli i danni subiti per averlo coinvolto, benchè innocente, in un processo penale. All’esito del giudizio di primo grado, il giudice di pace accoglieva la domanda, condannando il P. a risarcire i danni all’O. , in misura pari alle spese da questo sostenute per difendersi nel giudizio penale. Il Tribunale di Livorno, con la sentenza numero 12 del 2013 qui impugnata, sovvertiva l’esito del giudizio di primo grado, rigettando la domanda risarcitoria dell’O. per l’assoluta mancanza, in capo al P. , dell’elemento soggettivo caratterizzante il reato di calunnia, in quanto i fatti attribuiti al P. non erano tali da poter integrare astrattamente né il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni né altri reati. O.S. propone un motivo di ricorso per cassazione nei confronti di P.S.A. , per la cassazione della sentenza numero 12 / 2013, depositata dal Tribunale di Livorno, sezione distaccata di Cecina, in data 1.2.2013, non notificata. Resiste con controricorso il P. . Vi è memoria del ricorrente. O.S. , con l’unico, articolato motivo di ricorso, denuncia la violazione e falsa applicazione dell’articolo 368 c.p. e conseguentemente dell’articolo 2043 c.c. ed anche la presenza di un vizio di motivazione, consistente nell’omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio oggetto di discussione tra le parti la sussistenza della calunnia . Il giudice di merito escludeva la ravvisabilità nella querela presentata dal P. di alcuna ipotesi di calunnia, perché affermava che il fatto denunciato, ed attribuito all’O. non presentava gli estremi di un reato integrato in tutti i suoi elementi poiché la denuncia non era tale da attribuire un vero e proprio reato al P. il giudice ne escludeva la potenzialità calunniosa. Sostiene il ricorrente, proponendo una sua personale rilettura dei fatti di causa alla quale, inammissibilmente, sollecita la Corte, che la denuncia presentata dall’O. non era così imprecisa da non poter essere presa in considerazione tanto che, al contrario, essa non soltanto non era stata archiviata, ma aveva portato all’emissione, a carico del denunciato, di un decreto penale di condanna, per cui questi era stato costretto a difendersi in giudizio per far constare la sua innocenza. Aggiunge il ricorrente che dal giudizio penale inoltre era emerso che nella denuncia gli erano stati attribuiti comportamenti rivelatisi mai accaduti nel corso dell’istruttoria penale in particolare, l’essersi impossessato della scheda informatica con violenza sulle cose, essendo stato accertato in giudizio che la scheda era stata consegnata dal negoziante al cliente in sostituzione di altra acquistata e non funzionante e che il cliente aveva soltanto rifiutato di pagare la differenza di prezzo tra le due schede . Sostiene quindi il ricorrente che la querela era stata costruita ad arte perché invece di un semplice diverbio tra negoziante e cliente i fatti si potessero leggere come esercizio arbitrario delle proprie ragioni da parte sua. Il ricorso è infondato. La sentenza impugnata correttamente richiama il principio di diritto costantemente affermato da questa Corte secondo il quale la denuncia di un reato perseguibile d’ufficio o la proposizione della querela in relazione ad un fatto perseguibile a querela di parte non è di per sé fonte di responsabilità per danni a carico del denunciante o del querelante in caso di proscioglimento o assoluzione dell’imputato, se non quando la denuncia o la querela possano considerarsi calunniose Cass. numero 1542 del 2010 Cass. numero 10033 del 2004 Cass. numero 15646 del 2003 Cass. numero 750 del 2002 Cass. numero 3536 del 2000 , ovvero solo in caso di condotta dolosa del denunciante o del querelante volta alla consapevole attribuzione della commissione di un reato in capo a soggetto della cui innocenza il denunciante sia conscio. Come segnalato dal giudice di appello, le ragioni della restrizione di questa ipotesi di responsabilità al solo caso della condotta dolosa sono fondate in primo luogo sull’interesse pubblico alla repressione dei reati, per una efficace realizzazione della quale è necessaria anche la collaborazione del privato cittadino, che verrebbe significativamente scoraggiata dalla possibilità di andare incontro a responsabilità in caso di denunce inesatte o rivelatesi infondate. A ciò si aggiunga che la deroga si giustifica per il fatto che l’iniziativa per l’esercizio della azione penale è rimessa all’attività pubblicistica dell’organo titolare dell’esercizio dell’azione penale, che si sovrappone alla iniziativa del denunciante o querelante, togliendole ogni effetto causale sull’effettivo inizio del procedimento penale a carico del denunciato l’iniziativa pubblicistica volta alla repressione del reato opera interrompendo il nesso causale tra la denuncia e il danno eventualmente subito dal denunciato o dal querelato per essere stato sottoposto a procedimento penale benché innocente, legame che può continuare a sussistere solo in caso di dolo dell’autore di una denuncia o di una querela infondate in questo senso v. Cass. numero 10033 del 2004 “ La denuncia di un reato perseguibile d’ufficio non è fonte di responsabilità per danni a carico del denunciante, ai sensi dell’articolo 2043 cod. civ., anche in caso di proscioglimento o di assoluzione del denunciato, se non quando essa possa considerarsi calunniosa. Al di fuori di tale ipotesi, infatti, l’attività pubblicistica dell’organo titolare dell’azione penale si sovrappone all’initiativa del denunciante, togliendole ogni efficacia causale e così interrompendo ogni nesso causale tra tale iniziativa ed il danno eventualmente subito dal denunciato. Ne consegue che spetta all’attore, che in sede civile chieda il risarcimento dei danni assumendo che la denuncia era calunniosa, dimostrare che la controparte aveva consapevolezza dell’innocenza del denunciato . In applicazione di questi principi, la sentenza impugnata ha esaminato il contenuto della denuncia-querela depositata dal P. , escludendo che essa, per come strutturata, benché contenesse l’esposizione di alcune circostanze di fatto non rispondenti alla reale dinamica come accertata nel corso del procedimento penale e quindi benché contenesse consapevolmente da parte del denunciante, presente ai fatti, l’attribuzione al denunciato di comportamento non veri , fosse in concreto priva di offensività, in quanto i fatti denunciati non erano tali da essere neppure astrattamente riconducibili ad alcuna fattispecie penale. Il danno subito dal P. , indubbiamente verificatosi e conseguente dall’essere stato coinvolto e costretto a difendersi suo malgrado in un procedimento penale, non è posto dalla corte d’appello in rapporto causale con la denuncia, ma con la valutazione poco oculata che di essa ha fatto il P.M., che interrompendo il nesso causale tra l’operato del denunciante e gli eventi successivi, ha ritenuto di procedere penalmente nei confronti dell’O. la corte territoriale fa riferimento ad una scarsa ponderazione della querela da parte del P.M. . La sentenza impugnata si è uniformata ai principi sopra richiamati. Si deve concludere puntualizzando che, perché sorga una responsabilità civile per danni a carico di chi denunci un reato perseguibile d’ufficio o proponga querela per un reato perseguibile solo su iniziativa di parte, in caso di proscioglimento o di assoluzione, è necessario che la denuncia possa considerarsi calunniosa ovvero che essa contenga sia l’elemento oggettivo che l’elemento soggettivo del reato di calunnia ovvero, che contenga tutti gli elementi per rendere astrattamente attribuibile la commissione di un fatto reato a carico del denunciato, unitamente alla consapevolezza della loro non veridicità in tutto o in parte in capo al denunciante, poiché, al di fuori di tale ipotesi, l’attività pubblicistica dell’organo titolare dell’azione penale si sovrappone all’iniziativa del denunciante, interrompendo così ogni nesso causale tra tale iniziativa ed il danno eventualmente subito dal denunciato. Quindi, la denuncia o querela contenente la descrizione un fatto reato la cui responsabilità viene addebitata ad una terza persona può rilevare come fonte di responsabilità civile in capo al denunciante allorché essa sia stata fonte di un danno ingiusto potendosi ritenere tale la sottoposizione a procedimento penale a carico di un soggetto la cui innocenza sia stata giudizialmente accertata a condizione che essa sia calunniosa, ovvero che l’attribuzione di fatti non verificatisi o verificatisi diversamente sia deliberata e che essa sia astrattamente idonea a contenere la descrizione del reato denunciato in tutti i suoi elementi costitutivi, tale che essa possa essere presa in considerazione dal P.M. ai fini dell’esercizio dell’azione penale. Il ricorso va pertanto rigettato. La particolarità della vicenda e l’alterno esito dei giudizi di merito inducono a compensare le spese del giudizio di cassazione. Atteso che il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, ed in ragione della soccombenza del ricorrente, la Corte, ai sensi dell’articolo 13 comma 1 quater del d.P.R. numero 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del presente giudizio. Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.