Il carattere psicologico dei reati di concussione e indebita induzione

Nei casi di reati di concussione ed abuso induttivo, il giudice a quo deve verificare la presenza di elementi psicologici adatti per ritenere le minacce credibili o provocare suggestioni persuasive nei confronti del destinatario

Così si espressa la Corte Suprema di Cassazione co la sentenza numero 1331/16, depositata il 14 gennaio. Il caso. L’imputato, appuntato dell’arma dei Carabinieri, ricorre in Cassazione per chiedere l’annullamento per violazione di legge e vizio di motivazione, relativamente alla sentenza emessa nei suoi confronti dalla Corte d’appello di Reggio Calabria, che lo condannava per tentata concussione nei confronti di un tecnico ausiliario dei servizi d’intercettazione. Nel caso concreto, l’imputato aveva chiesto, al tecnico, se avesse collocato microspie sulle autovetture di un suo conoscente, che all’epoca dei fatti era oggetto di indagini. I giudici di secondo grado rilevavano un abuso d’ufficio da parte dell’appuntato nei confronti del tecnico investigativo, nonostante tra i due soggetti non intercorresse nessun rapporto lavorativo, ma solo di amicizia. Induzione indebita. La Corte di legittimità, in primo luogo, esaminando il caso sottoposto alla sua attenzione, denota che le richieste avanzate dall’imputato al tecnico, non erano state fatte minacciandolo oppure usando un comportamento che potesse far pensare a conseguenze negative. Quindi, ricostruendo la vicenda dagli atti processuali, si apprende che al momento del fatto vigeva un clima disteso e sereno, tipico di un rapporto di amicizia, che non poteva indurre il tecnico a pensare di essere minacciato o costretto, tant’è che quest’ultimo si è rifiutato di rispondere senza subire conseguenze. In secondo luogo, la sentenza si incentra sulla distinzione tra il reato di concussione, rilevato dalla Corte d’appello, e il reato di indebita induzione. Secondo la S.C., il reato di concussione, articolo 317 c.p., ricomprende comportamenti abusivi del pubblico ufficiale che si concretizzano nella minaccia o nella violenza, atti a limitare la libertà di autodeterminazione del destinatario. Fattispecie, questa, che non si configura nel caso esaminato. Sarebbe più opportuno – secondo gli Ermellini – contestare, al limite, il reato di indebita induzione, articolo 319-quater c.p., consistente in una condotta di suggestione e persuasione che lascia ampi margini decisori al destinatario. Istigazione al delitto. Seguendo le motivazioni della sentenza in commento, tuttavia, non è configurabile nemmeno questa ultima ipotesi di reato, poiché è ravvisabile la totale mancanza di una pressione psicologica dell’imputato nei confronti del tecnico, dato il clima disteso in cui si è svolta la vicenda. A parere della Cassazione, infatti, sarebbe preferibile contestare all’imputato l’istigazione al delitto, dato che quest’ultimo ha più volte chiesto di rilevare al tecnico la presenza di microspie, ma senza ottenere risposte in merito. Per questi motivi la Corte di Cassazione ha deciso di annullare la sentenza impugnata e rinviare alla Corte d’appello di Reggio Calabria, in diversa composizione, per l’eventuale applicazione di misure di sicurezza nei confronti dell’imputato per istigazione al delitto.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 4 novembre 2015 – 14 gennaio 2016, numero 1331 Presidente Agrò – Relatore Di Salvo Ritenuto in fatto 1. M.V.F. ricorre per cassazione avverso la sentenza in epigrafe indicata, con la quale, qualificato il fatto ex articolo 56-319 quater cod. penumero , a fronte dell'originaria contestazione di tentata concussione, è stata confermata,in punto di responsabilità, la sentenza di condanna emessa in primo grado, per avere il M. , abusando della qualità di appuntato dell'Arma dei Carabinieri, chiesto a C.G. , tecnico ausiliario dei servizi di intercettazione, per conto della Compagnia Carabinieri di OMISSIS , se avesse in precedenza collocato delle microspie sulle autovetture in uso a B.G. e al cognato D.P. . 2.Il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione, poiché la richiesta di informazioni riservate è stata formulata in un contesto di convivialità amichevole,onde non si comprende sotto quale profilo il ricorrente avrebbe abusato dei suoi poteri quale appartenente all'Arma dei Carabinieri, nei confronti del C. , il quale, essendo un suo amico, non avrebbe potuto nutrire alcun timore e non avrebbe d'altronde avuto alcun vantaggio nel fornire le informazioni richieste. Il M. non ha infatti formulato alcuna minaccia né ha prospettato al C. il pericolo di subire conseguenze negative, ove non avesse ottemperato alla richiesta di informazioni. Non è dunque configurabile né costrizione né induzione, difettando qualunque forma di metus publicae potestatis. Nemmeno è ravvisabile, neanche sotto il profilo del tentativo, il reato di cui all'articolo 326 cod. penumero , poiché il C. si è categoricamente rifiutato di fornire le informazioni, per cui non vi è mai stato un pericolo effettivo. Il fatto è dunque penalmente irrilevante. Si chiede quindi annullamento della sentenza impugnata. Considerato in diritto 1. Le doglianze formulate sono fondate. Sez. U., numero 12228 del 24-10-2013, Maldera, nell'individuare il discrimine fra il delitto di concussione e quello di indebita induzione, ha stabilito che la nozione di induzione, ex articolo 319-quater cod. penumero , esplicando una funzione di selettività residuale rispetto al concetto di costrizione, di cui all'articolo 317 cod. penumero , copre gli spazi non riconducibili a quest'ultimo, inerendo a quei comportamenti, pur sempre abusivi, del pubblico agente che non si materializzano nella violenza o nella minaccia di un male ingiusto e non si traducono in una condotta del pubblico ufficiale che limiti radicalmente la libertà di autodeterminazione del destinatario. Il delitto di cui all'articolo 319-quater cod. penumero consiste infatti nell'abuso induttivo posto in essere dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di pubblico servizio, che, con una condotta di persuasione, suggestione o pressione morale, condizioni in modo più tenue che nel reato di concussione la libertà di autodeterminazione del privato, il quale, disponendo di ampi margini decisori, accetta di prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta,nella prospettiva di un tornaconto personale. Dunque la fattispecie di induzione indebita, di cui all'articolo 319-quater cod. penumero , è caratterizzata da una condotta di pressione non irresistibile da parte del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio, che lasci al destinatario un margine significativo di autodeterminazione e si coniughi con il perseguimento di un indebito vantaggio per il privato. Anche se quest'ultimo requisito è necessario solo nell'ipotesi della consumazione del reato di cui all'articolo 319- quater cod. penumero e non anche in quella del tentativo Cass., Sez. 6, numero 32246 del 11-4-2014, Rv. 262075 . 2. Orbene, dalla prospettazione in fatto enuclearle dalla sentenza impugnata si evince che non vi fu, da parte dell'imputato, una condotta di pressione, rilevante ex articolo 319-quater cod. penumero Precisa infatti il giudice a quo, nel riferire i termini della ricostruzione della vicenda desumibili dalla pronuncia di primo grado, che il C. aveva dichiarato di aver conosciuto, diversi anni prima, l'imputato, a Milano, e di aver instaurato con lui un rapporto di amicizia. Nel giorno in cui si verificarono i fatti,la moglie del militare lo aveva contattato, invitandolo a trascorrere il pomeriggio con loro, al mare. Il C. aveva accettato, si era recato al camping, dove era stato accolto personalmente dal M. , il quale gli aveva presentato, in un clima di particolare confidenza personale, il proprietario del lido - e cioè B.G. - e lo aveva poi invitato a cena. Durante la serata, il M. , dopo essersi assentato per pochi minuti, era ritornato con un foglietto di carta e, dopo essersi seduto al tavolo,aveva chiesto al C. , in presenza della moglie, se avesse montato qualcosa e cioè qualche microspia sulle automobili indicate sul foglio p. 5-6 . E la Corte d'appello precisa che il M. si era espresso in dialetto, nel porre la domanda,proprio per palesare una comunanza culturale con l'interlocutore, nel contesto di un clima del tutto disteso, come sottolineato dalla sentenza impugnata p.14 . Alla luce di questa ricostruzione fattuale, risulta del tutto illogica l'affermazione secondo cui il M. si sarebbe avvalso, nella circostanza, della sua autorità di amico espressione intrinsecamente contraddittoria, essendo evidente che a un rapporto di amicizia è del tutto estraneo il concetto di autorità. Né il giudice a quo spiega sotto quale profilo l'imputato si sia avvalso della sua autorità di appartenente alle Forze dell'ordine, tanto più che la Corte territoriale evidenzia Ineleganza dello stratagemma utilizzato dall'imputato e finalizzato ad apprendere l'esistenza di un'attività d'intercettazione, nei confronti del B. , avanzando una richiesta apparentemente neutra, nel quadro di un atteggiamento millantatorio relativo ad una profonda amicizia e confidenza con il C. . 3. Dalla trama motivazionale della sentenza impugnata emerge dunque l'assenza di quei connotati di pressione psicologica sul soggetto passivo necessari ad integrare il delitto di cui all'articolo 319-quater cod. penumero . Risulta invece che il M. abbia istigato il C. a commettere il reato di cui all'articolo 326 cod. penumero , chiedendogli reiteratamente di rivelargli l'eventuale installazione di dispositivi di intercettazione a bordo delle autovetture indicate. Tale istigazione non vale però ad ascrivere all'imputato il reato di cui all'articolo 326 cod. penumero , sotto il profilo del concorso morale,poiché tale norma incriminatrice prevede un reato proprio e, nei reati propri,in tanto è configurabile una responsabilità dell'extraneus in quanto l'intraneus si sia reso, a sua volta, responsabile del reato. Nel caso in disamina, soltanto ove il C. avesse accettato di rivelare la notizia coperta dal segreto d'ufficio sarebbe addebitabile al M. , per l'istigazione posta in essere nei confronti dell'intraneus, una responsabilità a titolo di concorso morale nel delitto ex articolo 326 cod. penumero , commesso dal C. . Ma è incontroverso che il C. non abbia rivelato alcun segreto d'ufficio e non abbia commesso dunque il reato di cui all'articolo 326 cod. penumero , onde quest'ultimo delitto non può essere addebitato nemmeno al M. . Tuttavia l'agire dell'imputato non è penalmente irrilevante, poiché l'articolo 115, quarto comma, cod. penumero , prevede la possibilità di sottoporre a misura di sicurezza l'istigatore, allorché l'istigazione non sia stata accolta e si sia trattato di istigazione a un delitto, come nel caso in disamina. 4. La sentenza impugnata va dunque annullata perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Reggio Calabria, per l'eventuale applicazione dell'articolo 115 cod. penumero . P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata perché il fatto non è previsto dalla legge come reato e rinvia ad altra Sezione della Corte d'appello di Reggio Calabria, per l'eventuale applicazione dell'articolo 115 cod. penumero .