Risoluzione del contratto di leasing per inadempimento dell’utilizzatore ed effetti a seguito del fallimento

Gli effetti della risoluzione del contratto di leasing, verificatasi anteriormente alla dichiarazione di fallimento, devono essere regolati sulla base di quanto previsto dall’articolo 72-quater l. fall

Così la Corte di Cassazione con la sentenza numero 12552/19, depositata il 10 maggio. La vicenda. Un istituto bancario proponeva ricorso in opposizione allo stato passivo di una S.r.l. in relazione al mancato accoglimento dell’istanza di rivendica di alcuni immobili che aveva concesso in locazione finanziaria alla società. Il Tribunale, qualificando la domanda come azione personale di restituzione fondata sul diritto nascente dal contratto di leasing risolto prima della dichiarazione di fallimento per inadempimento dell’utilizzatore che si era reso da mesi inadempiente nel versamento dei canoni e non di rivendica, accoglieva l’opposizione e riconosceva il diritto della banca alla restituzione dei beni. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione la Curatela del Fallimento. Risoluzione del contratto e restituzione del bene. La Corte coglie l’occasione per ricordare che, in tema di leasing, la restituzione del bene non è subordinato al rimborso delle rate riscosse. Resta fermo infatti il principio secondo cui in caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, questi, dopo la restituzione della cosa, ha diritto alla restituzione delle rate riscosse mentre al concedente è riconosciuto il risarcimento del danno e un equo compenso per l’uso dei beni oggetto del contratto. Nel caso di specie, la motivazione deve comunque essere corretta in quanto il Tribunale ha erroneamente fatto riferimento all’articolo 1526 c.c., anziché alla disciplina di cui all’articolo 72-quater l. fall. seppur dettata in relazione all’ipotesi in cui lo scioglimento del contratto di leasing derivi da una scelta del curatore. Precisa inoltre la Corte che tale interpretazione è conforme con la fisionomia unitaria del leasing finanziario di cui alla l. numero 124/2017. In conclusione, come si legge nella sentenza, «gli effetti della risoluzione del contratto di leasing, verificatasi anteriormente alla dichiarazione di fallimento, dovranno dunque essere regolati sulla base di quanto previsto dall’articolo 72-quater l. fall., che ha carattere inderogabile e prevale su eventuali difformi pattuizioni delle parti». In conclusione la Corte rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 14 febbraio – 10 maggio 2019, numero 12552 Presidente Didone – Relatore Federico Fatti di causa Il Banco BPM s.p.a. già Banco Popolare Società Cooperativa proponeva ricorso in opposizione L. Fall., ex articolo 98, allo stato passivo del fallimento omissis srl, nella parte in cui non era stata accolta l’istanza di rivendica dei beni immobili così individuati struttura turistico alberghiera denominata Hotel omissis in Comune di omissis con accesso dalla Litoranea Mattinata - Vieste km 16, costituita da tre corpi di fabbrica, servizi annessi, area circostante destinata a verde e parcheggi. Il Banco BPM esponeva che - con contratto del 15.03.2007 Banca Italease divenuta successivamente BPSC, oggi Banco BPM aveva concesso in locazione finanziaria a omissis srl gli immobili oggetto di rivendica, dietro il pagamento di un canone complessivo di Euro 22.885.131,80 suddiviso in 180 rate mensili - successivamente il contratto era stato modificato sia in relazione alla durata che ai canoni da versare - poiché la debitrice si era resa inadempiente al pagamento di numerosi canoni, Banca Italease le aveva comunicato con raccomandata a/r in data 13-18.10.2011 la risoluzione del contratto, invitandola contestualmente alla restituzione degli immobili, ed aveva altresì intrapreso domanda di risoluzione innanzi al Tribunale di Milano. - la domanda di rivendica presentata a seguito del fallimento di omissis , finalizzata ad ottenere la restituzione dalla curatela fallimentare degli immobili oggetto del contratto di leasing, era stata rigettata con decreto del 29.11.2016 dal G.D. del Fallimento omissis srl, sulla base del presupposto che, trattandosi di domanda di rivendica, la stessa non era stata adeguatamente documentata. Il Tribunale di Foggia, adito su ricorso del Banco BPM, con decreto del 20.07.2017, comunicato il 21.07.2017, qualificata la domanda quale azione personale di restituzione e non già di rivendica, in accoglimento dell’opposizione, riconosceva il diritto di BPM alla restituzione dei beni indicati nel ricorso in opposizione, condannando la curatela al pagamento delle spese di rito. Il tribunale, in particolare, ha qualificato la domanda proposta dal Banco BPM come domanda di restituzione, fondata su un diritto nascente dal contratto di leasing, risoltosi anteriormente alla dichiarazione di fallimento dell’utilizzatore inadempiente ed ha ritenuto che la disposizione dell’articolo 1526 c.c., ritenuta applicabile al c.d. leasing traslativo, contrariamente a quanto dedotto dalla curatela fallimentare, non condiziona la restituzione del bene al rimborso delle rate riscosse, dovendo escludersi la configurabilità di uno ius retentionis in favore della curatela fallimentare, non previsto dalla legge rilevava, in ogni caso, che l’articolo 14 del contratto di leasing prevedeva che in caso di risoluzione anticipata del contratto gli effetti della risoluzione non si sarebbero estesi alle prestazioni già eseguite, con la conseguenza che, a seguito dell’anticipata risoluzione del contratto, tutti gli importi corrisposti dall’utilizzatore sarebbero rimasti definitivamente acquisiti al concedente. Considerato dunque che i profili economici del contratto non erano stati oggetto di domanda da parte del creditore, né avevano formato materia di contestazione da parte del curatore, le relative pretese avrebbero dovuto eventualmente essere fatte valere nelle sedi competenti. Avverso detto decreto propone ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, la Curatela del Fallimento omissis srl. Resiste con controricorso il Banco BPM. Ragioni della decisione Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’articolo 1526 c.c., ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., numero 3, per non avere il Tribunale subordinato la restituzione dell’immobile concesso in leasing alla preventiva restituzione dei canoni incamerati dal concedente. Il ricorrente censura entrambe le rationes decidendi poste dal Tribunale a fondamento della statuizione di accoglimento dell’opposizione la prima, secondo la quale la disposizione dell’articolo 1526 c.c., non condiziona la restituzione del bene oggetto del contratto al previo rimborso delle rate riscosse, non potendo configurarsi in detta materia uno ius retentionis in favore della curatela fallimentare la seconda, fondata sulla clausola contrattuale numero 14 che prevedeva espressamente che in caso di risoluzione anticipata del contratto gli effetti della risoluzione non si estendevano alle prestazioni già eseguite, con la conseguenza che tutti gli importi già corrisposti dall’utilizzatore o comunque già maturati, sarebbero rimasti definitivamente acquisiti al concedente. Il motivo è infondato, pur dovendo correggersi la motivazione del provvedimento, il cui dispositivo è peraltro conforme a diritto. Incontroversa la qualificazione del contratto come leasing traslativo è parimenti pacifico che il contratto si è risolto a seguito della dichiarazione della concedente di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa ex articolo 1456 c.c., in conseguenza dell’inadempimento dell’utilizzatore, in data anteriore alla dichiarazione di fallimento. Quanto alla prima ratio decidendi, il tribunale ha ritenuto che la disciplina dell’articolo 1526 c.c. non condizioni la restituzione del bene al rimborso delle rate riscosse, applicando il principio, più volte affermato da questa Corte, secondo cui nel leasing traslativo, in caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, quest’ultimo, restituita la cosa, ha diritto alla restituzione delle rate riscosse, mentre al concedente la norma riconosce, oltre al risarcimento del danno, il diritto ad un equo compenso per l’uso dei beni oggetto del contratto Cass. 21895/2017 18195/2007 . La statuizione secondo cui la restituzione del bene non è condizionata al rimborso delle rate riscosse è senz’altro conforme a diritto, seppure deve disporsi la correzione della motivazione della sentenza, nella parte in cui ha ritenuto di individuare quale paradigma normativo per la disciplina della risoluzione di un contratto di leasing finanziario verificatasi ante-fallimento, la norma dell’articolo 1526 c.c Il Tribunale ha erroneamente fatto riferimento alla disposizione dell’articolo 1526 c.c., piuttosto che alla disciplina prevista L. Fall., articolo 72 quater, che, seppure dettata in relazione all’ipotesi in cui lo scioglimento del contratto di leasing deriva da una scelta del curatore e non dall’inadempimento dell’utilizzatore, è del tutto coerente con la fisionomia unitaria del leasing finanziario di cui alla L. 124/2017 articolo 1 commi 136-140, dovendo ritenersi definitamente superata la distinzione, di matrice giurisprudenziale, tra leasing c.d. di godimento e leasing traslativo ed il ricorso in via analogica, per tale seconda figura, alla disciplina dettata dall’articolo 1526 c.c Gli effetti della risoluzione del contratto di leasing, verificatasi anteriormente alla dichiarazione di fallimento, dovranno dunque essere regolati sulla base di quanto previsto dal dalla L. Fall., articolo 72 quater, che ha carattere inderogabile e prevale su eventuali difformi pattuizioni delle parti. Nel caso. di specie, peraltro, il tribunale, se come già evidenziato, ha correttamente affermato che non può farsi dipendere la restituzione del bene al concedente dall’adempimento di eventuali obblighi di rimborso a suo carico, in quanto la restituzione discende in via immediata dalla risoluzione del contratto. Ed invero, l’obbligo di restituzione della cosa è fondamentale nell’equilibrio del contratto e non può essere subordinata al rimborso dei canoni del tutto eventuale , non essendo configurabile in capo alla curatela uno ius retentionis del bene oggetto del contratto, bene in relazione al quale non si è prodotto l’effetto traslativo in favore della debitrice e sul quale, verificatasi la risoluzione del contratto, l’utilizzatore non vanta alcun titolo. E ciò impregiudicato il successivo esito della vendita, a cura del concedente, secondo il paradigma della L. Fall., articolo 72 quater. Il rigetto di tale censura assorbe l’ulteriore profilo concernente l’autonoma ratio decidendi della pronuncia impugnata, avente ad oggetto la validità ed efficacia della clausola contrattuale articolo 14 che prevedeva il trattenimento da parte della concedente dei canoni corrisposti dall’utilizzatrice nel caso di specie ciò che viene in rilievo, quale oggetto dell’insinuazione, è unicamente la restituzione del bene alla società concedente, cui essa ha diritto per effetto della risoluzione del contratto, salva la successiva regolazione dei rapporti debito-credito del concedente nei confronti della curatela fallimentare, secondo le disposizioni della legge fallimentare e, segnatamente, della L. Fall., citato articolo 72 quater. Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’articolo 2697 c.c., in relazione all’articolo 360 c.p.c., numero 3, per avere il Tribunale fondato il proprio convincimento su una prova documentale inidonea, vale a dire il contratto di compravendita del 10.12.2004 piuttosto che il contratto di leasing intercorso tra le parti. Il motivo è inammissibile. La violazione dell’articolo 2697 c.c., si configura solo se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata, secondo le regole di ripartizione basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni Cass. 26769/2018 . Anche sotto altro profilo il motivo è inammissibile, in quanto, nonostante la rubrica, si risolve nella sollecitazione ad un riesame, nel merito, dell’accertamento del tribunale. Nel caso di specie il tribunale, con apprezzamento adeguato, premesso che la pretesa dell’opponente si fondava su azione personale di restituzione del bene, ha ritenuto che il Banco BPM, sulla base della documentazione prodotta, avesse assolto al relativo onere probatorio tale accertamento non risulta adeguatamente ed efficacemente contestato sulla base della generica deduzione della ricorrente. Con il terzo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione della L. Fall., articolo 93, comma 3, e articolo 98, nonché degli articolo 91 e 92 c.p.c., ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., numero 3, per avere il tribunale tratto elementi decisivi per l’accoglimento dell’opposizione dall’attività istruttoria svolta dal Banco BPM nel relativo giudizio, condannando la curatela al pagamento delle spese di lite, pure se il giudizio di opposizione era stato causato dal ritardo con cui il Banco BPM aveva prodotto la documentazione. La curatela deduce al riguardo che le spese del giudizio avrebbero dovuto gravare sull’opponente, che aveva dato causa al giudizio per la sua negligenza, considerata l’incompletezza della documentazione allegata in sede di insinuazione. Il motivo è infondato. Come questa Corte ha già affermato, in tema di spese processuali, a seguito delle modifiche apportate alla L. Fall., articolo 101, dal D.Lgs. numero 5 del 2006, articolo 86, non si pone più il problema dell’estensione ai giudizi di opposizione allo stato passivo del principio desumibile dalla previgente L. Fall., articolo 101, comma 4, non riproposto nella nuova formulazione della norma - che, in materia di dichiarazione tardiva di credito, poneva a carico del creditore le spese conseguenti al ritardo della domanda - sicché, anche nei giudizi di cui alla L. Fall., articolo 98, si applica la regola generale di cui all’articolo 91 c.p.c. Cass. 3956/2018 . Orbene, nel caso di specie il Tribunale ha correttamente applicato al presente giudizio il criterio della soccombenza, facendo discendere dall’accoglimento dell’opposizione L. Fall., ex articolo 98, la condanna della curatela fallimentare alla refusione delle spese di lite in favore dell’opponente. Il ricorso va dunque respinto e le spese del presente giudizio, regolate secondo soccombenza, si liquidano come da dispositivo. Ai sensi del D.P.R. numero 115 del 2002, articolo 13 comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna la curatela alla refusione delle spese del giudizio, che liquida in complessivi 5.200,00 Euro di cui 200,00 Euro per esborsi, oltre a rimborso forfettario per spese generali, in misura del 15h ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. numero 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.