Evidenti le carenze comportamentali e genitoriali della donna, che legittimano non solo la segnalazione del settore ‘Servizi sociali’ del Comune ma anche la decisione dei giudici di optare per lo stato di adottabilità. Assolutamente impossibile un legame della donna col figlio, neanche attraverso la figura della sorella, assolutamente incapace finanche di dare una mano nel semplice accadimento del minore.
Passato drammatico alle spalle, per una donna, con strascichi terribili anche sul presente. Ripercussioni non solo personali, però, ma che, soprattutto, ne minano le capacità genitoriali, e mettono seriamente a rischio lo sviluppo del figlio. Legittimo, allora, il provvedimento di adottabilità, accompagnato peraltro dalla sospensione di ogni rapporto tra familiari e bambino e collocamento di quest’ultimo presso una famiglia adottiva Cassazione, sentenza numero 2780, sezione Prima Civile, depositata oggi . Vita difficile. A dare il ‘la’ alla vicenda è la segnalazione del settore ‘Servizi sociali’ del Comune, con cui viene evidenziato che la donna «era stata vittima di una tratta finalizzata all’esercizio della prostituzione, era stata poi ricoverata in una comunità educativa, quindi sottoposta a trattamento sanitario obbligatorio e ricoverata in una comunità psichiatrica, rivelando una personalità borderline e una condotta antisociale». Step successivo è la decisione del Tribunale per i minorenni di dichiarare «lo stato di adottabilità» del figlio della donna, alla luce dell’accertato «stato di abbandono» del minore. E questa linea di pensiero viene condivisa anche dai giudici dell’Appello, soprattutto alla luce non solo della «personalità borderline», certificata dai medici, ma anche dei comportamenti tenuti, comportamenti «aggressivi e violenti» e caratterizzati anche dall’incapacità di «tollerare alcuna frustrazione» e da una «profonda divergenza fra progettualità e realtà» e dalla «tendenza ad estraniarsi». Senza dimenticare il rifiuto di fronte ad «un progetto volto alla ricerca di un lavoro». E, soprattutto, tenendo presenti gli episodi che avevano messo a repentaglio la sicurezza del bambino, che una volta stava per essere immerso «in acqua fumante» e che un’altra volta era caduto «dal letto». E questi ultimi fatti erano la testimonianza lapalissiana delle «carenze» della donna, ad avviso dei giudici. Bambino da salvare. Nonostante il quadro tracciato, però, la donna decide comunque di proseguire nella propria battaglia, proponendo ricorso in Cassazione e rivendicando il diritto di mantenere un rapporto col figlio, magari attraverso la figura della propria sorella. Ma anche di fronte ai giudici di terzo grado è evidente la necessità di salvaguardare il bambino, partendo da uno «stato di abbandono» che è lapalissiano. E per far ciò non ci si può ‘appoggiare’ a una donna – la sorella della madre – che ha già manifestato la propria «incapacità di aiutare» la sorella «nell’accudimento del figlio», incapacità che, secondo i giudici, è «rivelatrice della mancanza di un rapporto significativo tra zia e nipotino». Assolutamente inaccettabile è anche l’osservazione, mossa dalla donna, su una presunta mancanza di contraddittorio più precisamente, in materia di «partecipazione agli atti istruttori», si tratta di «facoltà prevista solo riguardo agli accertamenti disposti dal giudice nel corso del processo, non anche alle relazioni degli istituti ed operatori specializzati, che questi ultimi sono tenuti ad inviare periodicamente all’autorità giudiziaria per renderla edotta delle condizioni fisiche e psichiche del minore». Per tutti questi motivi, è assolutamente da confermare la decisione dei giudici di secondo grado, con affidamento del bambino a una famiglia adottiva, opzione che pare già avere prodotto i primi frutti.
Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 8 novembre 2012 – 6 febbraio 2013, numero 2780 Presidente Luccioli – Relatore De Chiara Svolgimento del processo Il Tribunale per i minorenni di Milano, disposta con decreto presidenziale del 9 giugno 2010 l’apertura del relativo procedimento, dichiarò, con sentenza del 1° febbraio 2011, lo stato di adottabilità del piccolo I.K.I., nato il 2 marzo 2010, figlio della sig.ra C.I., di nazionalità nigeriana, disponendo la sospensione di ogni rapporto del bambino con i familiari e il collocamento del medesimo presso idonea famiglia adottiva. Il procedimento di adottabilità era stato aperto dopo che, nell’ambito di precedente procedimento ai sensi dell’articolo 330 c.c. iniziato su segnalazione dei servizi sociali del Comune di Vimercate del 3 marzo 2010, l’8 marzo successivo era stato disposto l’affidamento del piccolo al Comune stesso, incaricato di collocarlo in comunità assieme alla madre e di svolgere un osservazione su entrambi. La richiamata segnalazione dei servizi sociali aveva evidenziato che la madre del piccolo era stata vittima di una tratta finalizzata all’esercizio della prostituzione, era stata poi ricoverata in una comunità educativa, quindi sottoposta a trattamento sanitario obbligatorio e ricoverata in una comunità psichiatrica, rivelando una personalità borderline e una condotta antisociale. La Corte d’appello milanese ha respinto il gravame proposto dalla madre e dal curatore speciale del minore, che contestavano l’accertamento dello stato di abbandono. Gli appellanti avevano rilevato che l’atteggiamento scarsamente collaborativo della madre, risultante dalle relazioni dei servizi sociali in data 24 e 26 maggio 2010, doveva ricondursi alla sofferenza dovuta al suo precedente inserimento in una comunità del tutto inadeguata, dal quale era poi derivato il trattamento sanitario obbligatorio, a sua volta inopportuno attesa l’infondatezza della diagnosi di personalità borderline con cui era stato giustificato, effettuata in un periodo di difficoltà della paziente contestato un comportamento inadeguato addebitato alla madre, ossia l’immersione del bambino nell’acqua alla temperatura di 42 gradi sostenuto che un altro episodio - la caduta dal letto del bambino - era stato del tutto accidentale ecomunque seguito dall’accompagnamento del piccolo al pronto soccorso sottolineato che la madre aveva ripetutamente chiesto di vedere il figlio anche quando le visite erano state sospese su provvedimento del giudice lamentato il mancato espletamento di consulenza tecnica d’ufficio e la mancata convocazione della sorella della sig.ra I., nonché della zia della medesima, regolarmente residente in Italia e dichiaratasi disponibile a presentare istanza di affidamento del nipotino. A tali rilievi la Corte ha risposto che la diagnosi di personalità borderline era stata effettuata da medici della cui competenza non era dato dubitare, e che dalle relazioni dei servizi del 4 e 12 dicembre 2006 e del 5 febbraio e 25 ottobre 2007, richiamate nella relazione clinica del 3 settembre 2010, risultava che la donna aveva tenuto comportamenti aggressivi e violenti, non aveva accettato di essere visitata e di dare notizie di sé, non era apparsa in grado di tollerare alcuna frustrazione e aveva rivelato una profonda divergenza fra progettualità e realtà, tendenza ad estraniarsi e rifiuto di sottoporsi a un trattamento psicoterapeutico per la diagnosticata personalità borderline che dalla relazione 3 marzo 2010 dei medesimi servizi sociali risultava che nell’aprile 2009 la sig.ra I., dopo aver richiesto un aiuto economico, durante un colloquio aveva tenuta un atteggiamento rivendicativo, si era rifiutata di fornire informazioni sul proprio passato, aveva riferito di essere stata inserita in due differenti comunità, dalle quali si era allontanata, aveva rifiutato un progetto volto alla ricerca di un lavoro ed infine si era allontanata urlando dopo essersi resa conto di non poter ottenere l’aiuto economico che dalla relazione 24 maggio 2010 della Comunità Artemisia risultava che il 10 di quello stesso mese, mentre l’appellante si accingeva a fare il bagno al bambino, l’operatrice della Comunità era accorsa avendo notato che stava per immergerlo in acqua fumante ed aveva constatato, con il termometro, che la temperatura dell’acqua era di 42 gradi che l’accidentalità della caduta dal letto non escludeva la scarsa attenzione rivelata dalla madre, e le richieste di vedere il figlio non escludevano le ripetute carenze comportamentali della medesima che la zia dell’appellante, convocata per un incontro, non si era presentata, mentre la sorella si era mostrata, ai servizi sociali, incapace di aiutare l’appellante, con la quale aveva un rapporto altalenante, fatto di litigi e rivendicazioni, come risultava dalla relazione 2 novembre 2010 ed era stato confermato dall’appellante stessa al CPS, che ne aveva riferito con relazione del 3 settembre 2010 che pertanto correttamente il Tribunale per i minorenni non aveva disposto alcuna consulenza tecnica, ritenendo con fondamento che i comportamenti della sig.ra I. fossero indicativi della sua incapacità genitoriale e che, a causa del rifiuto della medesima, non fosse praticabile un trattamento psicoterapeutico che la valutazione del Tribunale era stata poi confermata sia dalle relazioni in atti successive a quelle sopra richiamate, sia dagli ulteriori elementi emersi nel giudizio di appello, attestanti i notevoli miglioramenti del bambino - il quale tendeva ad assumere comportamenti autolesionistici e consolatori, indici di un’assai pericolosa mancanza di stimoli dopo la sua collocazione presso la famiglia adottiva che non aveva fondamento la censura della mancata convocazione dei congiunti ai sensi dell’articolo 10, comma 2, l. 9 maggio 1983, numero 184, essendo invece certa, per quanto sopra già riferito, l’inesistenza di parenti aventi rapporti significativi con il minore, dato che la zia della madre non aveva mai mostrato interesse né per la nipote, né per il suo bambino, e la sorella della medesima si era rivelata incapace di coadiuvare la ricorrente che, attesa la presumibile irreversibilità della situazione, dovuta al rifiuto del necessario trattamento psicoterapeutico da parte della madre, dedita piuttosto a strategie manipolatorie finalizzate all’ottenimento di benefici economici, le necessità del piccolo I. potevano dunque essere assicurate solo con l’adozione. La sig.ra I. ha proposto ricorso per cassazione articolando quattro motivi di censura. Il Comune di Vimercate, quale tutore del minore, ha resistito con controricorso. Motivi della decisione 1. - Con il primo motivo di ricorso, denunciando violazione degli articolo 1, 2 e 8 l. numero 184 del 1983, si deduce che la Corte d’appello sia venuta meno all’obbligo del rigore nell’accertamento dello stato di abbandono, avendo omesso di disporre la pur richiesta consulenza tecnica di ufficio volta a verificare nel contraddittorio le risorse genitoriali della madre fondato l’accertamento su un periodo di osservazione di neppure un mese dal 10 al 31 maggio 2010 , su due relazioni della Comunità Artemisia nelle quali gli stessi operatori rappresentavano l’impossibilità di fornire una valutazione globale sulla ricorrente, in ragione del troppo breve periodo di permanenza presso la struttura, e su una relazione psichiatrica redatta sulla base di tre soli incontri, non adeguati se si considera che la stessa psichiatra aveva evidenziato la necessità di un trattamento psicoterapeutico e non farmacologico omesso di chiamare a testimoni, come pure era stato richiesto, gli operatori della comunità presso cui era ospitato il bambino all’epoca degli episodi contestati omesso di accertare e comunque di motivare non già il mero disturbo psichico della madre, bensì l’assoluta e irreversibile incompatibilità di esso con l’allontanamento del figlio. 1.1. - Il motivo è inammissibile. L’accertamento dello stato di abbandono, da parte dei giudici di appello, è completo, come risulta chiaramente dalla sintesi della sua motivazione riferita sopra in narrativa. Le doglianze della ricorrente, per quanto rubricate come deduzione di violazione di legge, attengono in effetti all’accertamento in fatto operato dai giudici, senza peraltro integrare neppure gli estremi della deduzione del vizio di motivazione ai sensi del numero 5 dell’articolo 360 c.p.c., poiché si limitano a delineare una diversa prospettiva per quell’accertamento, ma non evidenziano decisive cadute o lacune dell’argomentare dei giudici di merito. 2. - Il secondo e il terzo motivo, essendo connessi, vanno esaminati congiuntamente. 2.1. - Con il secondo motivo, denunciando nuovamente violazione degli articolo 1, 2 e 8 l. numero 184 del 1983, si deduce la mancanza di un rigoroso accertamento dello stato di abbandono con riferimento alla disponibilità di congiunti del minore idonei a prendersene cura. Si lamenta, più specificamente, che non si sia tenuto conto né della manifestata disponibilità della sorella della ricorrente, certamente idonea in quanto a sua volta madre di tre figli e con un rapporto significativo con il nipotino, che aveva accudito assieme alla madre nel primo mese di vita, prima che i provvedimenti del Tribunale per i minorenni rendessero impossibili i contatti né della presenza di una zia della ricorrente, sbrigativamente accantonata dopo una sola convocazione davanti al predetto Tribunale, cui ella non aveva potuto ottemperare perché rischiava di perdere definitivamente il suo lavoro. 2.2 - Con il terzo motivo, denunciando violazione dell’articolo 12 l. numero 184 del 1983 e nullità delle sentenze di primo e secondo grado, si censura sotto il profilo processuale ossia appunto della nullità la già dedotta omissione della convocazione della sorella della ricorrente, giustificata dalla Corte d’appello con l’incongrua considerazione dei rapporti conflittuali tra le due donne e la conseguente incapacità della prima di aiutare la seconda, mentre invece suo compito era soltanto accertare la sussistenza o meno di significativi rapporti con il minore, nella specie indubbiamente sussistenti per quanto già riferito con il secondo motivo. 2.3. - Nessuno di tali motivi può essere accolto. L’articolo 12 l. numero 183 del 1984 prevede l’obbligo del giudice dello stato di adottabilità di convocare, oltre ai genitori, ai parenti entro il quarto grado, ma soltanto se abbiano mantenuto rapporti significativi con il minore, nella evidente prospettiva di ovviare, eventualmente, allo stato di abbandono nell’ambito della stessa famiglia di origine sicché la legittimazione ad essere convocati è condizionata da tale dato comportamentale, che costituisce elemento integrativo della fattispecie per tutte, Cass. 13133/1991 . Nel caso in esame la Corte d’appello ha espressamente accertato l’insussistenza di rapporti significativi tra la sorella della ricorrente e il bambino, facendo leva sulla incapacità rivelata dalla prima di aiutare la seconda nell’accudimento del figlio. Incapacità che, dunque, nel ragionamento dei giudici di appello non rileva di per sé, ma in quanto rivelatrice della mancanza, appunto, di un rapporto significativo tra zia e nipotino. Questo accertamento, che è accertamento di fatto, non viene attinto nel ricorso, né formalmente né sostanzialmente, da adeguate censure ai sensi del numero 5 dell’articolo 360 c.p.c. E di accertamento di fatto, del pari non adeguatamente censurato, deve parlarsi anche a proposito della ritenuta insussistenza di rapporti significativi tra il minore e la zia di sua madre. 3. - Con il quarto motivo si denuncia violazione dell’articolo 111 Cost. e dell’articolo 101 c.p.c. Premesso che con la novella di cui alla l. 28 marzo 2001, numero 149 si è inteso attribuire al processo di adottabilità carattere pienamente contenzioso, si lamenta la violazione del contraddittorio nella formazione delle prove poste a base della decisione della Corte d’appello, in particolare delle testimonianze scritte su episodi decisivi, contenute in due relazioni della Comunità Artemisia del 24 e 26 maggio 2010, e delle valutazioni psichiatriche della dott.ssa P. e psico-sociali del comune di Vimercate introdotte nel giudizio con semplici relazioni dei sevizi e non mediante consulenza teorica di ufficio. 3.1. - Nemmeno questo motivo può essere accolto. E’ certamente esatto che il principio del contraddittorio trova piena applicazione nel processo per la dichiarazione di adottabilità. Tuttavia le modalità del contraddittorio sono diverse a seconda delle situazioni. L’articolo 10, comma 2, l. numero 184 del 1983 prevede che i genitori o, in mancanza, i parenti entro il quarto grado che abbiano rapporti significativi con il minore avvertiti del procedimento di adottabilità all’atto della sua apertura possono partecipare a tutti gli accertamenti disposti dal tribunale, possono presentare istanze anche istruttorie e prendere visione ed estrarre copia degli atti contenuti nel fascicolo previa autorizzazione del giudice. Quanto alla partecipazione agli atti istruttori, tuttavia, questa Corte ha già avuto occasione di chiarire che si tratta di facoltà prevista solo riguardo agli accertamenti disposti dal giudice nel corso del processo, non anche alle relazioni degli istituti ed operatori specializzati che questi ultimi sono tenuti ad inviare periodicamente all’autorità giudiziaria per renderla edotta delle condizioni fisiche e psichiche del minore anche in seguito ai provvedimenti urgenti assunti ai sensi dei commi 3 e 4 dell’articolo 10, cit. Cass. 7282/2010 . Riguardo alle relazioni di tale ultimo tipo, che siano allegate agli atti del processo, il contraddittorio dunque non può consistere in altro che nella facoltà di tutte le parti di esaminarle, estrarne copia e svolgere al loro riguardo deduzioni o richieste, anche di approfondimenti o accertamenti ulteriori. La ricorrente, invece, fa riferimento a due relazioni della Comunità Artemisia del 24 e 26 maggio 2010, certamente non disposte dal giudice nel procedimento di adottabilità, essendo anteriori alla sua apertura, nonché alle valutazioni psichiatriche della dott.ssa Petrini e psico-sociali del Comune di Vimercate, delle quali non è nemmeno dedotto che si riferissero ad accertamenti disposti dal giudice nell’ambito del medesimo procedimento. La mancata pertecipazione della ricorrente ai predetti accertamenti, dunque, non può essere considerate illegittima, e, d’altro canto, è pacifico che la ricorrente stessa abbia avuto pieno accesso ai relativi atti, ampiamente controdeducendo sui medesimi. 4. - Il ricorso va in conclusione respinto. La particolarità della vicenda giustifica la compensazione delle spese processuali. P.Q.M. La corte rigetta il ricorso. Compensa le spese. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’articolo 52 d.lgs. numero 196 del 2003.