Confermata l’assoluzione nei confronti di quattro cittadini che avevano messo nel mirino un loro vicino, architetto di professione, peraltro anche per il Comune. Viene ritenuta legittima la scelta di ricorrere all’esposto per ottenere l’intervento della pubblica autorità. E anche il riscontro negativo rispetto alle accuse non modifica la situazione non si può parlare di diffamazione.
‘Esposto shock’ consegnato da alcuni cittadini al sindaco del Comune un architetto, che opera per l’Ente pubblico, è accusato di aver ‘taroccato’ documenti relativi a presunte “proprietà irregolari”. Ma, alla fine, la denuncia si rivela essere una bolla di sapone. Tutto falso, quindi. Ma ai firmatari dell’esposto non può essere contestato il reato di diffamazione. Cassazione, sentenza numero 29379, Quinta sezione Penale, depositata il 9 luglio 2013 . Penna velenosa A scatenare la bagarre – favorita anche dal contesto territoriale del piccolo paese – è una missiva, scritta da quattro cittadini, consegnata al sindaco del Comune, e finalizzata ad esporre «presunte irregolarità edilizie poste in essere» da un architetto – «loro vicino di casa» – col ricorso all’autocertificazione di «titoli e proprietà irregolari». A rendere ancor più gravi le accuse anche la considerazione che l’architetto svolge la propria professione per il Comune. Ma la situazione diventa caldissima quando l’esposto si rivela «infondato all’esito dei successivi accertamenti» Pronta, e piccata, la reazione dell’architetto, che chiede l’addebito del reato di diffamazione nei confronti dei quattro firmatari della missiva. Tale domanda, però, viene ritenuta non accettabile, sia dal Giudice di pace sia dai giudici del Tribunale, perché l’esposto è da considerare un’espressione del diritto al «libero pensiero», peraltro finalizzata a «sollecitare il legittimo intervento della pubblica autorità». Il fine e il mezzo. Questa visione, nonostante le rimostranze manifestate dall’architetto, viene condivisa, e quindi confermata, anche dai giudici della Cassazione, i quali chiariscono che è illogico parlare di «diffamazione». Ciò perché, come in questa vicenda, ci si trova di fronte all’azione di un cittadino, che, ricorrendo a «un esposto all’autorità», attribuisce «ad altri, fatti illeciti od anche immorali» col solo scopo di «giustificare la richiesta d’intervento dell’autorità stessa». Ottica di riferimento, secondo i giudici, è quella della prevalenza del «diritto di critica» rispetto al «bene della dignità personale», anche perché «senza la libertà di espressione e di critica, la dialettica democratica non può realizzarsi». E questo principio regge, secondo i giudici, anche laddove, come in questo caso, «i successivi accertamenti non confermino la fondatezza» dell’esposto.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 8 febbraio – 9 luglio 2013, numero 29379 Presidente Ferrua – Relatore Guardiano Fatto e Diritto Con sentenza pronunciata il 10.6.2011 il tribunale di Saluzzo in composizione monocratica, in qualità di giudice di appello, confermava la sentenza con cui il giudice di pace di Racconigi, in data 15.10.2010, aveva assolto T.S., T.G.M., S.F. e A.I. dal reato di cui all’articolo 595, c.p., ad essi contestato in relazione ad una missiva inviata al sindaco pro-tempore del comune di Cavallerleone il 7.5.2007, con la quale, esponendo presunte irregolarità edilizie poste in essere dall’architetto S.T.A., loro vicina di casa, affermavano che quest’ultima “autocertificava titoli e proprietà irregolari”, offendendo, in tal modo, secondo l’impostazione accusatoria, la reputazione della stessa S., che svolgeva l’attività di architetto nel suddetto comune. Avverso tale sentenza, di cui chiede l’annullamento senza rinvio, ha proposto ricorso la parte civile, ai soli effetti civili, rilevando che il giudice di secondo grado avrebbe erroneamente applicato la legge penale, nel ritenere insussistente l’ipotesi di reato contestata agli imputati, sull’assorbente rilievo che un esposto, quale quello indirizzato dagli imputati al sindaco del comune di Cavallerleone, pur quando si riveli infondato all’esito dei successivi accertamenti, non possa integrare gli estremi del reato di diffamazione, trattandosi di una modalità di esercizio del diritto previsto dall’articolo 21, Cost., volto a sollecitare il legittimo intervento della pubblica autorità. Ad avviso della ricorrente, infatti, avere accusato la parte civile di avere autocertificato titoli e proprietà irregolari, non solo non risponde al vero, come emerso nel corso del giudizio di primo grado, ma, soprattutto, non può trovare giustificazione nella presentazione dell’esposto, in quanto le condotte di cui la S. è stata ingiustamente accusata non hanno alcun rapporto con gli abusi edilizi oggetto dell’esposto in relazione ai quali si chiedeva l’intervento dell’autorità. Tanto premesso il ricorso non può essere accolto, essendo infondato il motivo di diritto posto a sostegno dello stesso. Ritiene, infatti, il Collegio di aderire al costante e prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui deve escludersi l’ipotesi di diffamazione quando un cittadino, in un esposto all’autorità, attribuisca ad altri fatti illeciti od anche immorali, al solo fine di giustificare la richiesta d’intervento dell’autorità stessa, nel casi in cui tale intervento sia ammesso dalla legge. Ed invero l’evento lesivo, in questo caso, non è suscettibile di persecuzione penale ricorrendola generale causa di giustificazione di cui all’articolo 51 c.p., sub specie dell’esercizio di un diritto di critica, costituzionalmente tutelato dall’articolo 21 Cost., da ritenersi prevalente rispetto al bene della dignità personale, pure tutelato dalla Costituzione agli articolo 2 e 3, considerato che senza la libertà di espressione e di critica la dialettica democratica non può realizzarsi cfr. Cass., sez. V, 20/02/2008, numero 13549, rv. 239825 Cass., sez. V, 14/07/2009, numero 38348 Cass., Sez. V, 21.11.1980, Speranza, rv. 14.7505 . Proprio in applicazione di tali criteri interpretativi, la Suprema Corte ha ritenuto che non integri gli estremi del delitto di diffamazione l’inoltro di un esposto, contenente notizie di una serie di abusi edilizi, al sindaco di un comune, al solo fine di richiederne l’intervento, ancorché i successivi accertamenti non ne confermino la fondatezza cfr. Cass., sez. V, 07/03/2006, numero 18090, rv. 234551 . Di conseguenza deve ritenersi che il giudice di appello abbia, fatto buon governo dei principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in subiecta materia, nel confermare la sentenza di primo grado, affermando, nei termini in precedenza indicati, che la condotta degli imputati non integra gli estremi del reato di diffamazione. Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso proposto nell’interesse della S. va, dunque, rigettato, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.