La mancanza di dolo nella condotta censurata al lavoratore e la non rilevante entità della perdita economica lamentata dal datore di lavoro rendono sproporzionato e dunque illegittimo il licenziamento per giusta causa, massima sanzione disciplinare irrogabile.
Così ha stabilito la Corte di Cassazione, sezione Lavoro, con la sentenza numero 10329, pubblicata il 21 giugno 2012. La fattispecie esaminata. Un lavoratore dipendente di una catena di supermercati veniva licenziato per giusta causa, a motivo di presunte irregolarità commesse nella sua qualità di responsabile di mercato in un punto vendita aziendale. Le irregolarità sarebbero consistite in ammanchi di cassa per €. 5.167,16, rispetto ai quali egli non avrebbe adottato le iniziative necessarie per scoprirne le cause ed evitarne il ripetersi. Il lavoratore adiva il Tribunale del lavoro che riteneva illegittimo il licenziamento, ordinava la reintegrazione del lavoratore e condannava l’azienda al risarcimento del danno. Proponeva appello quest’ultima e la Corte d’Appello, con sentenza non definitiva, respingeva il gravame confermando l’illegittimità del licenziamento, riservando alla prosecuzione del giudizio la determinazione del danno risarcibile, avendo il lavoratore nel corso del giudizio iniziato lo svolgimento di altra attività. Proponeva ricorso in Cassazione il datore di lavoro, fondato su di un unico motivo di impugnazione, articolato in più profili. In Cassazione nessuna rivalutazione del merito della causa. Un primo motivo di censura riguarda la valutazione data dal giudice di merito circa la condotta rimproverata al lavoratore. Sostiene infatti il datore di lavoro che il dipendente avrebbe volutamente omesso di impartire specifici ordini ai propri sottoposti in merito al rispetto preciso ed integrale delle direttive aziendali e delle procedure concernenti la gestione del denaro. A sostegno della tesi il ricorrente lamenta la mancata ammissione della prova testimoniale dedotta, da cui sarebbe scaturita la prova dell’origine dolosa degli ammanchi di cassa. La Corte di legittimità non ritiene meritevole di accoglimento il motivo di censura, rilevando prima di tutto che il giudice di legittimità non può riesaminare il merito della vicenda, dovendo limitarsi al controllo della correttezza giuridica e della coerenza logico –formale della motivazione resa dal giudice di merito requisiti sussistenti nel caso specifico, essendo la motivazione resa dalla Corte territoriale immune da vizi logici. In secondo luogo, rileva la Cassazione, le critiche mosse in punto ammissione delle prove non possono essere accolte in quanto, per il principio di diritto secondo il quale, ove sia denunziato un vizio di motivazione riguardante la mancata ammissione di un mezzo istruttorio, il ricorrente ha l’onere, per il principio di autosufficienza del ricorso, di indicare in maniera specifica ed analitica le circostanze oggetto di prova, la loro rilevanza ai fini della decisione, i soggetti chiamati a deporre e le ragioni per le quali essi sono qualificati a testimoniare, onde consentire al giudice di legittimità valutare la decisività della prova non ammessa. Nella condotta censurata al lavoratore non vi era dolo La sussistenza dell’elemento doloso nelle circostanze contestate al lavoratore viene così ad essere indimostrato in giudizio. Risulta infatti che sia nella contestazione di addebito sia nel corso delle fasi di merito del giudizio non venne mai contestata al lavoratore l’intenzionalità delle omissioni di controllo rilevate. Né è possibile introdurre nel giudizio di legittimità l’argomento, vertente su questioni non dibattute nelle fasi di merito ed implicanti modificazioni dei fatti di causa. Corretta ed incensurabile pertanto la decisione della Corte di merito che aveva escluso ogni elemento intenzionale nella condotta censurata al dipendente, ravvisandovi al più condotta negligente, ma di gravità limitata, tale da non giustificare la sanzione disciplinare adottata. e il danno subito dall’azienda era di lieve entità. Analogamente la Suprema Corte, sul principio di diritto secondo il quale il giudice di legittimità non può riesaminare il merito della vicenda, non ritiene accoglibile un altro aspetto di censura proposto nel ricorso, riguardante l’entità della perdita subita, dimostrabile attraverso le prove testimoniali non ammesse. Anzi, sostiene la Corte di legittimità, il danno subito dall’azienda e direttamente riconducibile al lavoratore, in ragione del periodo temporale in cui ha ricoperto l’incarico di responsabile del mercato, è stato definito dalla Corte di merito in soli €. 1.416,21 e, con ragionamento logico ed immune da vizi, il medesimo giudice ha ritenuto del tutto sproporzionato il licenziamento intimato, non ravvisandovi elementi di gravità tali da far venir meno il vincolo fiduciario e giustificare così la massima sanzione espulsiva. La motivazione resa dalla Corte d’Appello a sostegno della propria decisione è stata ritenuta dalla Suprema Corte immune da vizi logici, corretta dal punto di vista giuridico e dunque il ricorso proposto dal datore di lavoro è stato rigettato.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 26 aprile – 21 giugno 2012, numero 10329 Presidente Lamorgese – Relatore Mancino Svolgimento del processo 1. Con sentenza non definitiva del 21 gennaio 2010, la Corte d'Appello di Roma respingeva, con riferimento all'invalidazione del licenziamento e alle conseguenti statuizioni reintegratore e risarcitorie, il gravame svolto dalla GS s.p.a. contro la sentenza di primo grado che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato ad A.M. , ordinato la reintegrazione nel posto di lavoro e condannato la società al risarcimento del danno dal licenziamento all'effettiva reintegrazione, oltre contributi previdenziali e assicurativi. 2. La Corte territoriale puntualizzava che - A.M. , dipendente della GS s.p.a. dal 1995, lamentava di essere stato licenziato per giusta causa per presunte irregolarità nella sua attività di responsabile di mercato presso il supermercato gestito dalla società e, in particolare, che con lettera del 3 marzo 2005, la società gli aveva contestato irregolarità commesse nella gestione del supermercato e un conseguente ammanco di Euro 5.167,16 rispetto al quale egli non avrebbe assunto le necessarie iniziative per scoprire le cause ed evitarne il ripetersi - il dipendente agiva, pertanto, in giudizio deducendo l’illegittimità del licenziamento per plurimi profili, quali la mancata affissione del codice disciplinare presso la filiale ove era addetto, la modifica dei motivi di recesso nel corso del procedimento disciplinare rispetto a quelli oggetto dell'originaria contestazione l'assenza della giusta causa o del giustificato motivo la sproporzione rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva dell'addebito, sul presupposto che solo la minor parte dell'ammanco fosse riferibile al periodo nel quale egli aveva gestito il supermercato e che le operazioni di cambio effettuate ogni giorno comportassero piccole sfasature tali da giustificare l'ammanco e che eventuali omissioni, a fronte del costante rispetto delle procedure imposte dalla società, fossero riferibili all'aumento dei carichi di lavoro e alla mancanza di personale - il primo giudice ha ritenuto illegittimo il licenziamento - la società ha proposto gravame. 3. A sostegno del decisum la Corte territoriale riteneva quanto segue - la giustificatezza del licenziamento doveva essere verificata alla stretta stregua dei soli fatti imputati nella lettera di contestazione disciplinare, ed esattamente 1 nel non aver posto in essere iniziative per scoprire le origini dell'ammanco accertato, né per ovviare al progressivo espandersi di esso 2 nell'aver omesso la costituzione dei fondi personalizzati, 3 nell'aver omesso il controllo settimanale della giacenza fondo cassa 4 nell'aver omesso di inviare comunicazioni settimanali circa gli ammanchi in cassa centrale all'ispettorato aziendale 5 nell'aver consentito agli addetti alle casse l'utilizzo della chiave supervisore del registratore di cassa per gli storni contabili - le irregolarità contestate risultavano sproporzionate rispetto alla sanzione espulsiva non presentando una gravità tale da giustificarne l’irrogazione, non ravvisandosi nelle plurime condotte contestate la massima gravità necessari per rescindere il legame fiduciario tra le parti, nel profilo oggettivo per la non rilevante entità della perdita economica lamentata dalla società, attesa l'imputabilità al dipendente di una somma effettiva di Euro 1.416,21 e nel profilo soggettivo per non essere stata contestata al dipendente una condotta a titolo di dolo né l'appropriazione indebita delle somme mancanti, ma piuttosto di aver omesso in tutto o in parte iniziative e procedure di controllo per prevenire gli ammanchi e per porvi rimedio - trattavasi, al più, di condotte colpose, comunque negligenti e sanzionabili con un'esemplare sanzione conservativa di minor afflittività, ma non così dirompenti, anche in considerazione degli effetti economici lievi prodottisi in danno della società, da giustificare l'estromissione, non sussistendo la progressiva espansione degli ammanchi ma piuttosto un'altalenante e fisiologica consistenza della cassa centrale - ulteriori circostanze contestate, come le assenze ingiustificate durante l'orario di lavoro non assumevano decisiva rilevanza, giacché non debitamente conteste, né valutabili in termini tali da stravolgere il giudizio di inidoneità degli addebiti ad integrare giusta causa e giustificato motivo di recesso - infine, il dedotto esercizio di altra attività commerciale rilevava, per il periodo successivo all'interruzione del rapporto di lavoro, ai fini della valutazione del danno risarcibile in favore del lavoratore licenziato, onde con separata ordinanza veniva disposto il prosieguo del giudizio per la relativa delibazione. 4. Avverso l'anzidetta sentenza della Corte territoriale, la GS s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione fondato su un unico motivo articolato in più profili e illustrato con memoria. L'intimato ha resistito con controricorso, eccependo l'inammissibilità ed infondatezza del ricorso. Motivi della decisione 5. Con un articolato motivo di ricorso la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli articolo 2106,2118, 2119, 2697 cc articolo 1,3 L.604/1966 articolo 18 l. 300/1970 articolo 212, 217 CCNL del terziario anche sotto il profilo della violazione degli articolo 1362-1367 c.c. articolo 116 e 116 c.p.c., omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a punti decisivi della controversia. La ricorrente si duole che la corte non abbia ammesso le prove puntualmente dedotte in giudizio sul presupposto che le circostanze quand'anche provate non avrebbero rivestito gravità tale da giustificare il licenziamento, assumendo che l'entità degli addebiti avrebbe potuto e dovuto scaturire dalla prova testimoniale non ammessa. Assume, pertanto, che la corte territoriale ha del tutto trascurato il ruolo rivestito dall’A. responsabile di mercato e del centro di costo il cui compito principale risiedeva nel pretendere dai subordinati l'integrale rispetto delle direttive aziendali ed anche delle procedure concernenti la gestione del denaro inoltre, l'origine dolosa degli ammanchi, sotto il profilo della cosciente e premeditata violazione degli obblighi del dipendente e sotto il profilo dell'appropriazione indebita. 6. Il motivo non è meritevole di accoglimento. 7. Invero è censurata l'erronea valutazione della fattispecie concreta, ma in sostanza si censura la ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito. 8. Invero, la denuncia di un vizio di motivazione nella sentenza impugnata non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico - formale, le argomentazioni - svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l'accertamento dei fatti, all'esito dell'insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento - con la conseguenza che il vizio di motivazione deve emergere dall'esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato o insufficiente esame di un fatto decisivo e controverso, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico - giuridico posto a base della decisione, non rilevando la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti. 9. In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto - consentito al giudice di legittimità - non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata invero, una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità. 10. La motivazione in fatto dell'impugnata sentenza, richiamata nello storico di lite, non risulta, invero, inficiata da vizi siffatti. 11. Peraltro le censure, incentrate sul ruolo del dipendente, sono articolate in modo avulso dal decisum della Corte territoriale, incentrato, invece, sulla tenuità del danno e sull'assenza di proporzionalità tra addebito e sanzione, e sono, pertanto, prive di specificità non concretandosi in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell'esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere. 12. Né il Collegio ritiene ammissibili le doglianze indirizzate avverso il giudizio di irrilevanza delle prove costituende richieste e di quelle costituite fornite e la mancata ammissione della prova, mancando qualsiasi concreto rifermento agli elementi probatori pretermessi o la cui acquisizione era stata richiesta, sì da consentire alla Corte di legittimità di valutarne la decisività. 13. Le critiche mosse dalla ricorrente non possono essere valutate dalla Corte in applicazione del principio di diritto, assorbente ogni altra questione, secondo il quale, quando sia denunziato, con il ricorso per Cassazione, un vizio di motivazione della sentenza sotto il profilo della mancata ammissione di un mezzo istruttorio, il ricorrente ha l'onere, in virtù del principio di autosufficienza del ricorso, di indicare specificamente le circostanze che formavano oggetto della prova, la loro rilevanza, i soggetti chiamati a rispondere e le ragioni per le quali essi sono qualificati a testimoniare, onde consentire al giudice di legittimità il controllo sulla decisività della prova testimoniale non ammessa sulla base delle deduzioni contenute nell'atto, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative ex multis, Cass. nnumero 9748/2010, 5479/2006, 19138/2004, 9290/2004 . 14. Passando alla dedotta origine dolosa degli ammanchi, sotto il profilo della cosciente e premeditata violazione dei propri obblighi da parte del dipendente e sotto il profilo dell'appropriazione indebita, osserva il Collegio che la censura risulta improponibile in questa sede di legittimità giacché involge questioni non dibattute nelle precedenti fasi di merito e implicanti una modificazione dei termini in fatto della controversia, giacché la Corte di merito, sulla base delle questioni disputate tra le parti, ha rimarcato che al lavoratore non era stata rimproverata dalla società alcuna condotta a titolo di dolo. 15. Quanto alla violazione delle disposizioni contrattuali collettive e dei canoni legali di ermeneutica del contratto collettivo, osserva la Corte che le censure investono il contratto collettivo nazionale di lavoro senza che risulti osservata la prescrizione dell'articolo 369, secondo comma, numero 4 c.p.c., secondo cui, col ricorso per cassazione, devono essere depositati, a pena di improcedibilità, gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda . 16. La disposizione ricomprende nel proprio ambito anche i contratti o accordi collettivi, a seguito della modifica ad essa apportata dall'articolo 7 del d. lgs. 2 febbraio 2006 numero 40, applicabile ratione temporis, a norma dell'articolo 27, secondo comma del medesimo decreto legislativo, che fa riferimento ai ricorsi per cassazione avverso le sentenze depositate successivamente alla data del 1 marzo 2006 essa riguarda il contratto o accordo nel suo testo integrale ed è, infine, da porsi in collegamento con la modifica operata dalla legge all'articolo 360 numero 3 c.p.c., con l'estensione del controllo di legittimità al vizio di violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro per cui deve ritenersi riferita esclusivamente a tali accordi e contratti collettivi . 17. Nel caso in esame la società ricorrente si è limitata a richiamare il contenuto delle disposizioni collettive, ma questa Corte ha già avuto modo di precisare che, a norma dell'articolo 369, secondo comma, numero 4 c.p.c., non appare sufficiente ad adempiere al relativo onere l'allegazione dell'intero fascicolo di parte del giudizio di merito v., ex multis, Cass. S.U. 21747/2009 , essendo necessario, a tal fine, un atto specifico di deposito, né essendo sufficiente la parziale allegazione del C.C.N.L. invocato v., ex multis, Cass. 21358/2010 . 18. È stato infatti al riguardo ripetutamente affermato, in sede di procedimento ex articolo 420-bts c.p.c. contenente la disciplina del procedimento relativo all'accertamento pregiudiziale sull'efficacia, validità e interpretazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, che prevede l'immediata decisione da parte del giudice, con una sentenza impugnabile in cassazione , che questa Corte, nell'interpretazione del contratto invocato, ha il potere di ricercare all'interno dell'intero contratto collettivo le clausole ritenute utili a tale fine, senza essere in tale funzione condizionata dalle prospettazioni di parte cfr., ad es. Cass. nnumero 5050/08 e 19560/07 . 19. Tale regola trova applicazione anche in sede di controllo di legittimità del contratto collettivo nazionale di lavoro a seguito di ricorso per cassazione ai sensi dell'articolo 360, 3 comma c.p.c., in quanto la produzione parziale di un documento sarebbe incompatibile con i principi fondamentali dell'ordinamento che non consentono a chi invoca in giudizio un contratto di produrne solo una parte , nonché con i criteri di ispirazione dell'intervento legislativo citato, volto a potenziare la funzione nomo filatura della Corte nei medesimi termini, cfr. Cass. 21358/2010 . 20. La regola appare, infine, coerente con i canoni di ermeneutica contrattuale di cui la Corte deve fare applicazione, in particolare con la regola relativa all'interpretazione complessiva delle clausole, secondo la quale Le clausole del contratto si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell'atto articolo 1363 c.c. . 21. In definitiva, il ricorso va rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese, liquidate in Euro 40,00 per esborsi, oltre Euro 4.000,00 per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali.