Confermata la condanna per il titolare della pescheria. Non credibile la difesa portata avanti dall’uomo, e poggiata sull’affermazione che i prodotti ittici, rimasti invenduti, erano stati conservati per essere poi consumati solo da lui e dalla sua famiglia.
Scorta alimentare monstre ben 35 chilogrammi di pesce e conservati in un frigo. Ma l’alibi si rivela davvero fragile Consequenziale la condanna del proprietario della pescheria per aver detenuto quell’alimento, congelato abusivamente, in un cattivo stato di conservazione Cassazione, sentenza numero 45918, sez. III Penale, depositata oggi . Sicurezza. Blitz fatale nei locali della pescheria in tale occasione, difatti, vengono rinvenuti, all’interno di un «frigo congelatore», ben «35 chili di pesce in cattivo stato di conservazione e congelati abusivamente». Tali prodotti ittici erano destinati alla «somministrazione» ai compratori, sostiene l’accusa. E tale visione viene condivisa dai giudici di merito, i quali, difatti, condannano al pagamento di una ammenda il titolare della pescheria per avere violato il Testo unico sulla sicurezza alimentare. Quantità. Pronta la replica dell’imprenditore, il quale ribadisce, col ricorso in Cassazione, che quei «prodotti ittici», rimasti invenduti, erano stati destinati non più «alla vendita» bensì «al consumo interno della famiglia». E a sostegno di questa tesi vengono richiamate anche le parole di un «collaboratore occasionale» del titolare della pescheria. Evidente, allora, la consapevolezza dell’uomo, spiegano i giudici, sul «cattivo stato di conservazione» dei «prodotti». Ma l’alibi messo sul tavolo, ossia che la «conservazione del pesce fresco invenduto» fosse finalizzata al «consumo» della famiglia dell’imprenditore, non può essere valutato come credibile. Innanzitutto perché «nella pescheria esisteva un unico frigorifero funzionante, che era proprio quello che conteneva il pesce in questione, perciò evidentemente destinato alla vendita». E poi, aggiungono i giudici, «il quantitativo rinvenuto nel congelatore era del tutto incompatibile con l’uso familiare», se non di fronte alla «ipotetica esistenza di un ambito familiare talmente vasto da rendere configurabile una vera e propria ‘distribuzione per il consumo’».
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 18 settembre – 6 novembre 2014, numero 45918 Presidente Squassoni – Relatore Andronio Ritenuto in fatto 1. - Con sentenza del 21 maggio 2013, il Tribunale di Trani - sezione distaccata di Molfetta ha condannato l'imputato alla pena dell'ammenda per il reato di cui all'articolo 5, lettera b , della legge numero 283 del 1962, perché, quale titolare di una pescheria, deteneva per la somministrazione all'interno di un frigo congelatore 35 kg di prodotti ittici in cattivo stato di conservazione e congelati abusivamente. 2. - Avverso la sentenza l'imputato ha proposto personalmente ricorso per cassazione, rilevando, con unico motivo di doglianza, la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione quanto alla ritenuta inverosimiglianza della tesi difensiva secondo cui i pesci erano destinati non alla vendita ma al consumo interno della famiglia. In particolare, tale inverosimiglianza sarebbe stata rilevata non sulla base di una non corrispondenza della dichiarazione del teste che aveva deposto in tal senso con la realtà dei fatti, ma sulla base di un contrasto della stessa con le risultanze della comunicazione della notizia di reato, mai acquisite al fascicolo del dibattimento e, perciò, inutilizzabili. Del tutto erronea sarebbe, poi, la considerazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui il concetto di distribuzione al consumo rientra comunque la distribuzione per il consumo di familiari. Considerato in diritto 3. - Il ricorso è inammissibile, perché si fonda su un motivo formulato in modo non specifico. Il ricorrente sostanzialmente ammette che gli alimenti presenti nella sua pescheria fossero in cattivo stato di conservazione e concentra le sue critiche sulla motivazione del Tribunale relativa alla prospettazione difensiva secondo cui il congelatore all'interno del quale erano stati rinvenuti prodotti ittici in questione era destinato alla conservazione del pesce fresco invenduto, che veniva utilizzato per il consumo dell'imputato e di più stretti parenti. Il ricorrente non contrasta - neanche in via di mera prospettazione - il dato pacifico in atti e correttamente ritenuto decisivo dal Tribunale secondo cui nella pescheria dell'imputato esisteva un unico frigorifero funzionante, che era proprio quello che conteneva il pesce in questione, perciò evidentemente destinato alla vendita. A tale dirimente rilievo, lo stesso Tribunale aggiunge l'ulteriore logica considerazione che il quantitativo rinvenuto nel congelatore 35 kg era del tutto incompatibile con l'uso familiare. E ciò, a meno di non considerare l'ipotetica esistenza di un ambito familiare talmente vasto da rendere configurabile una vera e propria distribuzione per il consumo attività anch'essa espressamente punita dalla stessa disposizione incriminatrice. È con tali decisivi elementi e non con la semplice notizia di reato, peraltro acquisita al fascicolo del dibattimento sull'accordo delle parti, che la testimonianza di D.V.A., collaboratore occasionale dell'imputato, si pone in parziale contrasto, laddove egli riferisce dell'uso familiare dei prodotti ittici. E nel ricorso non si contesta, comunque, che la circostanza che il pesce sequestrato fosse quello destinato al consumo familiare non era direttamente conosciuta dal teste, ma gli era stata riferita dall'imputato. 4. - L'impugnazione deve perciò essere dichiarata inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, numero 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'articolo 616 cod. proc. penumero , l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 1.000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.