«Ho amici in polizia», dirlo a un agente è reato … potrebbe intimorirlo

Non conta il raggiungimento dello scopo o il fatto che il destinatario della minaccia si sia in concreto sentito intimorito, la sola intenzione di impedire al poliziotto di compiere un atto di ufficio configura il reato di minacce.

«Ho anche io amici in polizia e vi rovino». Questa frase è una minaccia, anche se non viene raggiunto lo scopo di impedire al poliziotto di compiere un atto di ufficio. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza numero 37104/2012, depositata il 26 settembre. Il caso. «Va bene sono ubriaca e sono venuta contromano, ma siete voi che mi siete venuti addosso e adesso mi volete incastrare non mi dovete rompere il cazzo, perché voi siete dei pezzi di merda, ho anche io amici in polizia e vi rovino». Questa l’espressione che ha portato alla condanna, nei due giudizi di merito, di una donna che, dopo essersi messa al volante della sua auto in stato di ebbrezza, aveva imboccato una strada contromano, terminando la sua corsa contro la volante degli agenti. Il ricorso per cassazione che la donna presenta si fonda su un presunto vizio di motivazione in riferimento alla valutazione della prova dell’elemento oggettivo del reato. Non conta se il soggetto passivo si sente effettivamente minacciato. La S.C. ritiene inammissibile il ricorso, valorizzando le testimonianza degli agenti, della sua corretta qualificazione giuridica e ricordando come non sia necessario l’impedimento in concreto della libertà di azione del pubblico ufficiale ai fini della prova dell’elemento oggettivo del reato, essendo sufficiente l’uso della minaccia per opporsi all’atto di ufficio. Questo, indipendentemente dal raggiungimento dell’intento. Il ricorso è dunque, secondo la Corte, inammissibile. Scatta, inoltre, la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di 1.000 euro in favore della cassa delle ammende.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 19 luglio – 26 settembre 2012, numero 37104 Presidente Garribba – Relatore Gramendola Fatto e diritto B P. ricorre per cassazione a mezzo del suo difensore contro la sentenza indicata in epigrafe, che ha confermato la decisione del giudice di primo grado, con la quale era stata condannata alla pena di giustizia, siccome ritenuta colpevole del reato di cui all'articolo 337 c.p., per essersi opposta agli agenti C. e B. , che stavano procedendo ai controlli e alle verifiche del caso, dopo che l'autovettura, alla cui guida costei si trovava, aveva colliso con quella condotta dai predetti con l'espressione vabbene sono ubriaca e sono venuta contromano, ma siete voi che mi siete venuti addosso e adesso mi volete incastrare non mi dovete rompere il cazzo, perché voi siete dei pezzi di merda, ho anche io amici in polizia e vi rovino . Nell'unico motivo a sostegno della richiesta di annullamento dell'impugnata decisione la ricorrente denuncia il vizio di motivazione in riferimento alla valutazione della prova dell'elemento oggettivo del reato, fondata unicamente sulla deposizione dei verbalizzanti, sulla sua qualificazione giuridica e sulla idoneità delle espressioni, profferite dopo l'attività di controllo, a ingenerare negli operanti il timore di una minaccia seria e concreta tale da ostacolare lo svolgimento di una attività già compiuta. Il ricorso è inammissibile, per difetto di specificità delle doglianze, speculari a quelle poste a fondamento del gravame, già valutate e respinte dalla corte di merito, che ha dato conto, con puntuale e adeguato apparato argomentativo, della sussistenza dell'ipotesi criminosa contestata, valorizzando le testimonianze degli agenti, della sua corretta qualificazione giuridica, ricordando come l'attività di ufficio fosse ancora in atto nel momento in cui l'imputata si allontanava, dopo aver pronunciato la frase, riportata nel capo di accusa, e come non fosse necessario l'impedimento in concreto della libertà di azione del pubblico ufficiale ai fini della prova dell'elemento oggettivo del reato, essendo sufficiente l'uso della minaccia per opporsi all'atto di ufficio, indipendentemente dal raggiungimento dell'intento da parte del prevenuto ovvero dalla circostanza che il soggetto passivo si sia in concreto sentito minacciato, in tal modo correttamente interpretando e applicando i principi più volte espressi dalla giurisprudenza di legittimità in materia ex multis Cass. Sez. VI 27/9/95-26/1/96 numero 756 Rv.204107 . Segue alla declaratoria di inammissibilità la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento in favore della cassa delle ammende della somma, ritenuta di giustizia ex articolo 616 c.p.p., di Euro 1.000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.