La presunzione contenuta nell’articolo 275, comma 3, c.p.p. deve intendersi, per essere considerata costituzionalmente compatibile, relativa e dunque superabile da elementi di segno opposto che debbono però essere costituiti da elementi specifici in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
Ad affermarlo sono le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione, nella sentenza numero 26711 del 19 giugno 2013. Regime cautelare tra presunzione assoluta e presunzione relativa. La presunzione assoluta sulla quale fa leva il regime cautelare speciale non risponde con riferimento ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416 bis c.p. o al fine di agevolare le attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, a dati di esperienza generalizzati, essendo possibile configurare un’estraneità dell’autore di tali delitti a un’associazione di tipo mafioso, tale dal far escludere che si sia sempre in presenza di un reato che implichi o presupponga necessariamente un vincolo di appartenenza permanente a un sodalizio criminoso con accentuate caratteristiche di pericolosità. Una fattispecie, anche se collocata in contesto mafioso, non presuppone necessariamente una appartenenza dell’agente a tale contesto e, quindi, non assicura alla presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere un fondamento giustificativo costituzionalmente valido. Il semplice impiego del c.d. metodo mafioso o la finalizzazione della condotta criminosa all’agevolazione di un’associazione mafiosa non sono necessariamente equiparabili alla partecipazione all’associazione stessa ai fini dell’applicazione del disposto di cui all’articolo 275, comma 3, c.p.p Il regime cautelare speciale appare essere collegato non già a singole fattispecie incriminatrici ma a circostanze aggravanti delle stesse, riferibili per loro natura e struttura a molteplici condotte penalmente rilevanti, connotate da differenti situazioni soggettive ed oggettive, che ne rendono incompatibile, con i dettami costituzionali, l’applicazione. Il Giudice mantiene in relazione alla misura cautelare geneticamente originata dall’applicazione del disposto dell’articolo 275, comma 3, il potere di analizzare le esigenze cautelari in virtù ed in relazione agli specifici e concreti elementi sottoposti alla sua attenzione, fra i quali rientrano l’appartenenza dell’agente ad associazioni di tipo mafioso o la sua estraneità ad esse, nonché gli elementi costituenti positiva e concreta attenuazione del valore sintomatico del fato. Il semplice richiamo all’esistenza della presunzione contenuta nell’articolo 275, comma 3, c.p.p. non è, ex se, in grado di costituire idonea motivazione del provvedimento di diniego della richiesta applicazione di misure cautelari meno afflittive da parte dell’imputato. Il caso. Indagato per illecita detenzione e porto in luogo pubblico di arma comune da sparo, ricettazione e di estorsione, aggravati dall’uso del metodo mafioso, l’agente veniva attinto da misura cautelare della custodia in carcere disposta ex articolo 275, comma 3, c.p.p. Proposto rito abbreviato il GUP del Tribunale di Napoli, nel riconoscere l’imputato colpevole dei reati ascritti, disponeva modifica della misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari. Avverso detta pronuncia e solo in relazione alla parte afferente la modifica della misura cautelare proponeva ricorso, avanti al Tribunale del Riesame, che rilevava l’impossibilità di procedersi alla sostituzione della misura con quella meno afflittiva, stante la genesi della medesima rinvenibile nel disposto dell’articolo 275, comma 3, c.p.p Avverso il provvedimento del Tribunale del Riesame proponeva ricorso per cassazione l’imputato sostenendo come la presunzione contenuta nella norma de qua fosse da intendersi relativa e non assoluta e, dunque, vincibile. La Corte di Cassazione, sezione Sesta Penale, rimetteva il ricorso alle Sezioni Unite affinchè esse risolvessero il contrasto interpretativo esistente in seno alla Corte stessa, in relazione alla disposizione del codice di rito che, come è noto, una parte della giurisprudenza di legittimità riteneva assoluta ed una parte relativa. Le Sezioni Unite con una prima pronuncia in punto dichiaravano la presunzione disegnata dal Legislatore quale assoluta, ma, contemporaneamente sollevavano questione di legittimità Costituzionale in relazione al disposto della’articolo 275, comma 3, c.p.p. per contrasto con gli articolo 3, 13, comma 1, e 27, comma 3, Cost La Corte Costituzionale, con sentenza numero 57 del 25 marzo 2013, dichiarava l’illegittimità Costituzionale dell’articolo 275, comma 3, c.p.p. nella parte in cui «nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, slavo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure». Sulla scorta di detta declaratoria le SS.UU. hanno risolto la questione, ordinando l’annullamento dell’ordinanza del Tribunale del Riesame e rinviando al medesimo per la decisione sulla vicenda alla luce dei principi di diritto contenuti nella pronuncia in commento. Una norma poco gradita al Giudice delle leggi. Che l’articolo 275, comma 3, c.p.p. non fosse particolarmente gradita ai Giudici della Corte Costituzionale era, ed è, fatto piuttosto noto. Le pronunce del 21 luglio 2010 numero 265 , 12 maggio 2011 numero 164 , 22 luglio 2011 numero 231 e 3 maggio 2012 numero 110 dimostrano la profonda e radicata natura di tale apprezzamento. Molte le pronunce di incostituzionalità di una norma dettata da un Legislatore incolto e poco rispettoso dei principi Costituzionali che, francamente, pareva essere più attento agli umori del Paese che alle esigenze di politica giudiziaria e criminale. Un Legislatore che, nell’ultimo decennio è parso divenire vittima di quel fear of crime che le forze politiche da cui era sostenuto avevano provveduto ad alimentare, massicciamente, nel Paese. La norma introduce una presunzione di necessità di custodia cautelare in carcere per tutti i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416 bis c.p., ovvero al fine di agevolare le attività delle associazioni previste dallo stesso articolo. Di tal che l’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza in relazione a taluno di etti delitti importa l’obbligatorietà per il Giudice delle Indagini preliminari di disporre, su richiesta del Pubblico Ministero, la misura della custodia cautelare in carcere, essendogli preclusa ogni valutazione circa la possibilità di assolvere alla funzione tipica della misura richiesta con altra di carattere meno afflittivo. Nella lettura più restrittiva, e sposata anche dalle Sezioni Unite della Cassazione all’atto di sollevare questione di illegittimità Costituzionale della norma, una volta applicata la misura cautelare obbligata dalla norma, la valutazione circa il permanere delle esigenze cautelari era del tutto sottratta ad ogni sindacato di talchè la misura poteva decadere solo allorché l’indagato fosse stato riconosciuto estraneo al ai fatto reato contestato o, previa declaratoria di giudicato della sentenza resa nei suoi confronti la misura si fosse trasformata in pena detentiva. Il che, francamente, appariva configgere in modo tanto evidente quanto stridente, con alcuni capisaldi del sistema giuridico positivo o, se si preferisce, della stessa democrazia. In primo luogo la misura cautelare tornava, nel caso di specie, ad assumere quella purtroppo mal volentieri abbandonata natura di anticipazione della pena. Secondariamente veniva di fatto, per vero ex lege, impedita qualsiasi valutazione del Giudice in relazione alle esigenze appalesatisi nel caso concreto, alla personalità dell’indagato ed al suo coinvolgimento, da intendersi quale grado ed importanza, nell’associazione a delinquere costituita ex articolo 416 bis c.p Terzo veniva santificata e dichiarata positivamente l’esistenza di quel duplice binario della giustizia penale, teorizzato e vagheggiato da molti, che voleva essere definitivamente rimosso dal Codice Pisapia e che, ahinoi, continua invece ad occhieggiare, neppur troppo discretamente da numerose e devastanti, sotto il profilo logico e sistemico, disposizioni normative ed interpretazioni giurisprudenziali. Sollevata la questione di legittimità Costituzionale della norma, ed ottenuta la risposta da parte del Giudice delle Leggi che non poteva che dichiarare la totale incompatibilità del disposto dell’articolo 275, comma 3, pur nella formulazione residuata in seguito agli interventi apportati dalla stessa Corte, con i principi Costituzionali, le SS.UU. non possono che, prenderne atto ed indicare quei principi di diritto vincolanti per il giudice del rinvio, quelli riportati in epigrafe. Ovvero facendo opera di estrema sintesi che «il semplice richiamo all’esistenza della presunzione contenuta nell’articolo 275, comma 3, c.p.p. non è, ex se, in grado di costituire idonea motivazione del provvedimento applicativo della misura cautelare della custodia in carcere» dovendo il Giudice analizzare se nel caso concreto «le esigenze cautelari in virtù ed in relazione agli specifici e concreti elementi sottoposti alla sua attenzione, fra i quali rientrano l’appartenenza dell’agente ad associazioni di tipo mafioso o la sua estraneità ad esse, nonché gli elementi costituenti positiva e concreta attenuazione del valore sintomatico del fatto». Tornando così a rivitalizzare la funzione del Giudice delle Indagini Preliminari proprio in quell’ottica che lo vuole presidio della difesa del diritto di libertà dell’indagato, diritto che può essere compresso solo ed esclusivamente in presenza di specifiche e costituzionalmente compatibili esigenze e presupposti. Senza che possano far aggio su dette esigenze e presupposti presunzioni o scorciatoie che, a ben vedere, non hanno altra funzione che quella di imbarbarire il livello della politica giudiziaria e criminale del Paese. Con le conseguenze, ovvie ed immaginabili, che da detto imbarbarimento derivano. Forse la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione tentano, speriamo con risultati apprezzabili, di mandare un segnale forte a chi di politica criminale dovrebbe occuparsi meno disegni “svuota carceri” e più corretta, in senso garantistico, formulazione delle leggi. Il problema rimane inalterato però sotto un altro profilo non meno importante e relativo all’applicazione delle leggi chi avviserà i Giudici del merito della necessita di attenersi rigidamente ai canoni previsti per l’applicazione di quella misura, residuale e da interpretarsi quale estrema ratio, che è costituita dalla custodia cautelare in carcere? Chi convincerà finalmente i pubblici ministeri, e con loro i GIP, che la custodia cautelare in carcere non costituisce metodo o mezzo istruttorio ma misura atta ad evitare la fuga dell’indagato, la commissione di nuovi delitti o l’inquinamento probatorio? Secoli di inquisizione e un decennio di “arresti all’alba” molto gradita dall’opinione pubblica producono sedimenti culturali che è difficile eliminare. Ogni tanto, però, buone ed importanti sentenze aiutano a continuare nella battaglia di civiltà che ci ha visto e ci vedi impegnati.
Corte di Cassazione, sez. Unite Penali, sentenza 30 maggio - 19 giugno 2013, numero 26711 Presidente Santacroce – Relatore Romis Ritenuto in fatto 1. Il Tribunale di Napoli, con ordinanza del 16 febbraio 2012 - depositata il successivo 23 febbraio 2012 - in funzione di giudice dell'appello cautelare, ha accolto l'impugnazione del Pubblico Ministero nei confronti del provvedimento del 6 maggio 2010 con il quale il Giudice del medesimo Tribunale, all'esito di giudizio celebrato con il rito abbreviato, aveva sostituito con la misura degli arresti domiciliari quella della custodia cautelare in carcere, disposta nei confronti di U.V. , per vari reati di illecita detenzione e porto in luogo pubblico di arma comune da sparo clandestina, di ricettazione e di estorsione, aggravati dall'uso del metodo mafioso e dalla finalità di agevolazione mafiosa. Il Tribunale del riesame ha rilevato l'impossibilità di sostituzione della misura cautelare carceraria con altra meno gravosa, ritenendo a ciò ostativo il combinato disposto degli articolo 275, comma 3, e 299, comma 2, cod. proc. penumero , e ciò in conseguenza della contestazione all'U. della circostanza aggravante di cui all'articolo 7 d.l. numero 152 del 1991. 2. Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso per cassazione U.V. , per mezzo del difensore avv. Antonio Abet, deducendo violazione di legge processuale e difetto di motivazione, con argomentazioni che possono così riassumersi la disposizione di cui all'articolo 275, comma 3, cod. proc. penumero , contiene una presunzione soltanto relativa di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, tale da poter essere superata dall'apprezzamento discrezionale del giudice, e ciò alla luce dell'evoluzione giurisprudenziale in materia influenzata dalle plurime decisioni della Corte costituzionale che hanno di recente dichiarato la parziale illegittimità, per categorie di reato, della disposizione sopra indicata. 3. Con ordinanza del 10 maggio 2012 la Sesta Sezione penale, alla quale il ricorso era stato assegnato in base ai criteri tabellari, ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite, per la risoluzione della questione, oggetto di contrasto in giurisprudenza, se la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere consenta di sostituire detta misura, successivamente alla sua adozione, con altre meno afflittive, oppure permetta soltanto di revocarla qualora le esigenze cautelari siano del tutte venute meno. Con l'ordinanza di rimessione sono state indicate le più significative decisioni della Corte di cassazione a sostegno dell'uno e dell'altro indirizzo, e sinteticamente ricordate le considerazioni addotte a sostegno dei due contrapposti orientamenti a nelle decisioni favorevoli all'orientamento della presunzione assoluta di inadeguatezza di ogni altra misura diversa da quella della custodia in carcere, anche successivamente all'adozione della misura, vengono valorizzate la lettera della norma ed un argomento sistematico ritenuto desumibile dall'articolo 299, comma 2, cod. proc. penumero , laddove è consentita la sostituzione della misura con altra meno grave, quando le esigenze cautelari risultano attenuate ovvero quando la misura applicata non appare più proporzionata all'entità del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata, ma con espressa eccezione proprio delle ipotesi contemplate dall'articolo 275, comma 3, del codice di rito con conseguente irrilevanza, quindi, dell'eventuale affievolimento delle esigenze cautelari, perché solo il venir meno delle stesse potrebbe comportare la revoca della misura b per l'orientamento contrario, l'obbligatorietà dell'applicazione della misura della custodia in carcere opererebbe solo in occasione dell'adozione del provvedimento genetico della misura cautelare dovendo essere valutati il decorso del tempo e la concreta sussistenza della prosecuzione della pericolosità sociale del soggetto e, qualora questa risulti attenuata, la possibilità, da ritenersi dunque legittima, di applicare la misura meno afflittiva. 4. Con decreto del 6 giugno 2012, il Primo Presidente ha assegnato il ricorso in esame alla Sezioni Unite, fissando l'udienza del 19 luglio 2012 per la trattazione in camera di consiglio. 5. Con ordinanza numero 3447 emessa all'esito dell'udienza del 19 luglio 2012 dep. 10/09/2012 , le Sezioni Unite, ribadendo quanto incidentalmente affermato da Sez. U, numero 27919 del 31/03/2011, Ambrogio, hanno enunciato il seguente principio “La presunzione di adeguatezza della custodia in carcere ex articolo 275, comma 3, cod. proc. penumero opera non solo in occasione dell'adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva ma anche nelle vicende successive che attengono alla permanenza delle esigenze cautelari”. 6. Risolto il quesito sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite, ed essendo stata contestata all'U. l'aggravante prevista dall'articolo 7 d.l. numero 152 del 1991 convertito dalla legge numero 203 del 1991 , il Collegio, con la riferita ordinanza del 19 luglio 2012, ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. penumero , in relazione all'articolo 7 del citato decreto-legge, in riferimento agli articolo 3, 13, primo comma, e 27, terzo comma, Cost, rimettendo conseguentemente gli atti, previa sospensione del procedimento, alla Corte cost. 7. La Corte costituzionale, con sentenza numero 57 del 25 marzo 2013, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. penumero , come modificato dall'articolo 2, comma 1, d.l. 23 febbraio 2009, numero 11 recante Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori , convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, numero 38, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. 8. A seguito della restituzione degli atti alla Corte di cassazione, il Primo Presidente ha quindi fissato l'odierna udienza camerale per la decisione del ricorso proposto dall'U. . 9. In data 22 maggio 2013, l'avv. Antonio Abet, difensore dell'U. , ha comunicato, a mezzo telefax, la propria intenzione di aderire all'astensione nazionale degli avvocati dalle udienze proclamata per i giorni 29 e 30 maggio dall'Organismo Unitario dell'Avvocatura, ed ha chiesto il rinvio del procedimento. Considerato in diritto 1. Va preliminarmente dato atto che il Collegio ha rigettato la riferita richiesta di rinvio formulata dal difensore del ricorrente, con ordinanza letta in udienza, che qui di seguito si trascrive. “Ritenuto che la Corte Costituzionale con la sentenza numero 171 del 1996 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 2, commi 1 e 5, della legge 12 giugno 1990, numero 146, nella parte in cui non era previsto, nel caso di astensione collettiva dall'attività giudiziaria degli avvocati e procuratori legali, l'obbligo d'un congruo preavviso e di un ragionevole limite temporale dell'astensione e non prevedeva altresì gli strumenti idonei a individuare e assicurare le prestazioni essenziali, nonché le procedure e le misure consequenziali nell'ipotesi di inosservanza considerato che il Giudice delle leggi ha affermato in particolare che se l'astensione dalle udienze degli avvocati e procuratori è manifestazione incisiva della dinamica associativa volta alla tutela di questa forma di lavoro autonomo, essa non può essere ricondotta a mera facoltà di rilievo costituzionale , avuto riguardo alle indubbie peculiarità della avvocatura considerate In più parti della Carta costituzionale riconducendo in tal modo l'astensione collettiva dalla attività giudiziaria da parte degli avvocati nel perimetro dei diritti di libertà dei singoli e dei gruppi che ispira l'intera prima parte della Costituzione un diritto, quindi, e non semplicemente un legittimo impedimento partecipativo - considerato che, per soddisfare le esigenze di bilanciamento tra le istanze contrapposte additate dalla richiamata pronuncia della Corte costituzionale, la legge numero 146 del 1990 è stata appositamente novellata ad opera della legge numero 33 del 2000, la quale ha introdotto l'articolo 2-bis che ha appunto previsto per l'astensione collettiva da parte di lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori l'adozione di appositi codici di autoregolamentazione destinati a realizzare il contemperamento con i diritti della persona costituzionalmente tutelati di cui all'articolo 1 della stessa legge, previa verifica di idoneità da parte della apposita Commissione di garanzia -considerato che, in base alla richiamata disposizione legislativa è stato adottato da parte degli organismi di categoria, il 4 aprile 2007, il Codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati, e che tale codice, con le modifiche apportate nel corso delle successive audizioni, è stato valutato idoneo dalla Commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali con deliberazione del 13 dicembre 2007, la quale ha disposto la pubblicazione del codice stesso e della citata delibera sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e sul sito Internet della stessa Commissione - considerato, dunque, che il codice di che trattasi assume valore di normativa secondaria alla quale occorre conformarsi considerato che l'articolo 4, lett. a , del codice in questione espressamente prevede che l'astensione non è consentita in materia penale, fra l'altro, in riferimento alle udienze afferenti misure cautelari - rilevato che nella specie non trova applicazione l'ipotesi di cui alla lett. b dell'articolo 4 del Codice di autoregolamentazione, concernendo essa le attività processuali partecipate - che si svolgono in qualsiasi stato e grado del procedimento - diverse dalle udienze afferenti misure cautelari - riguardanti imputati sottoposti a custodia cautelare o detenzione - ritenuto, dunque, che, nel caso in esame, il procedimento cui si riferisce la dichiarazione di astensione dalle udienze è relativo alla trattazione di una procedura incidentale de li berta te ai sensi dell'articolo 311 cod. proc. penumero , e che dunque per essa, al lume della richiamata disposizione del Codice di autoregolamentazione, non è consentita l'astensione dalla udienza - P.Q.M. Respinge l'istanza di rinvio presentata dal difensore del ricorrente”. 2. Venendo al merito del ricorso, come ricordato nella parte narrativa, con l'ordinanza del 19 luglio 2012 le Sezioni Unite hanno ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. penumero , come modificato dall'articolo 2 d.l. 23 febbraio 2009, numero 11 Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori , convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, numero 38, nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi al fine di agevolare le attività delle associazioni previste dall'articolo 416-bis cod. penumero aggravante così contestata nella concreta fattispecie , è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure non manifesta infondatezza ritenuta ravvisabile in relazione ai seguenti articoli della Costituzione articolo 3, per l'ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti aggravati ai sensi dell'articolo 7 d.l. numero 152 del 1991 a quelli concernenti i delitti di mafia nonché per l'irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai paradigmi punitivi considerati articolo 13, primo comma, quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale articolo 27, secondo comma, con riferimento all'attribuzione alla coercizione processuale di tratti funzionali tipici della pena. È stata evocata l'evoluzione della giurisprudenza costituzionale - avente ad oggetto la portata della presunzione di cui all'articolo 275, comma 3, cod. proc. penumero sviluppatasi attraverso plurime pronunce di declaratoria di parziale incostituzionalità di tale norma tutte specificamente ed analiticamente ricordate nell'ordinanza di rimessione . 3. La Corte Costituzionale, con la citata sentenza numero 57 del 25 marzo 2013 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc penumero , come modificato dall'articolo 2, comma 1, d.l. 23 febbraio 2009, numero 11 recante Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori , convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, numero 38, nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis cod. penumero ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. 3.1. In parte motiva, la sentenza ricorda che l'irragionevolezza in questione è stata già riscontrata rispetto alla presunzione assoluta dell'articolo 275, comma 3, cod. proc. penumero , nella parte in cui era riferita ad alcuni delitti a sfondo sessuale sent. numero 265 del 2010 , all'omicidio volontario sent. numero 164 del 2011 , all'associazione finalizzata al traffico di stupefacenti sent. numero 231 del 2011 , all'associazione per delinquere realizzata allo scopo di commettere i delitti previsti dagli articolo 473 e 474 cod. penumero sent. numero 110 del 2012 e anche rispetto alla presunzione assoluta dell'articolo 12, comma 4-bis, d.lgs. 25 luglio 1998, numero 286 Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero , relativa ad alcune figure di favoreggiamento delle immigrazioni illegali sent. numero 331 del 2011 . 3.2. Quanto al caso di specie, la Corte osserva in particolare quanto segue “ciò che vulnera i parametri costituzionali richiamati [articolo 3, 13, primo comma, 27, secondo comma] non è la presunzione in sé, ma il suo carattere assoluto, che implica una indiscriminata e totale negazione di rilevanza al principio del minore sacrificio necessario, mentre la previsione di una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria, superabile da elementi di segno contrario, non eccede i limiti di compatibilità costituzionale, rimanendo per tale verso non censurabile l'apprezzamento legislativo circa la ordinaria configurabilità di esigenze cautelari nel grado più intenso”. A tale conclusione la Corte costituzionale perviene attraverso un triplice ordine di considerazioni. In primo luogo, la presunzione assoluta, sulla quale fa leva il regime cautelare speciale, non risponde, con riferimento ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis cod.penumero o al fine di agevolare le attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, a dati di esperienza generalizzati, essendo possibile configurare un'estraneità dell'autore di tali delitti a un'associazione di tipo mafioso, tale da far escludere che si sia sempre in presenza di un reato che implichi o presupponga necessariamente un vincolo di appartenenza permanente a un sodalizio criminoso con accentuate caratteristiche di pericolosità. Sicché “una fattispecie che, anche se collocata in un contesto mafioso, non presupponga necessariamente siffatta appartenenza non assicura alla presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere un fondamento giustificativo costituzionalmente valido”. Per la Corte, quindi, “il semplice impiego del cosiddetto metodo mafioso o la finalizzazione della condotta criminosa all'agevolazione di un'associazione mafiosa [ ] non sono necessariamente equiparabili, ai fini della presunzione in questione, alla partecipazione all'associazione”. In secondo luogo, la sentenza ricorda che la disciplina censurata è applicabile, con riferimento a qualsiasi delitto, perfino di modesta entità, purché connotato dalla finalità di agevolazione mafiosa o dalla realizzazione mediante il metodo mafioso , il che sta a significare che il regime cautelare speciale è collegato non già a singole fattispecie incriminatrici ma a circostanze aggravanti, riferibili ai più vari reati e correlativamente alle più diverse situazioni oggettive e soggettive. Alla luce di tale rilievo oggettivo, la Corte osserva che “l'ampio numero dei reati-base suscettibili di rientrare nell'ambito di applicazione del regime cautelare speciale segnala la possibile diversità del significato di ciascuno di essi sul piano dei pericula libertatis, il che offre un'ulteriore conferma dell'insussistenza di una congrua base statistica a sostegno della presunzione censurata” la qual cosa accentua la differenza di situazioni tra la posizione dell'autore dei delitti commessi avvalendosi del cosiddetto metodo mafioso o al fine di agevolare le attività delle associazioni di tipo mafioso, delle quali egli non faccia parte, e quella dell'associato o del concorrente nella fattispecie associativa, per la quale soltanto la presunzione delineata dall'articolo 275, comma 3, cod. proc. penumero risponde a dati di esperienza generalizzati. In terzo ed ultimo luogo, la Corte esclude che “l'inserimento dei delitti commessi avvalendosi del cosiddetto metodo mafioso, o al fine di agevolare le attività delle associazioni previste dall'articolo 416-bis cod. penumero , tra i reati indicati dall'articolo 51, comma 3-bis, cod. proc. penumero sia idoneo, di per sé solo, a offrire legittimazione costituzionale alla norma in esame posto che la disciplina stabilita da tale disposizione risponde a una logica distinta ed eccentrica rispetto a quella sottesa alle disposizioni sottoposte a scrutinio, trattandosi di una normativa ispirata da ragioni di opportunità organizzativa degli uffici del pubblico ministero, anche in relazione alla tipicità e alla qualità delle tecniche di indagine richieste da taluni reati, ma che non consentono inferenze in materia di esigenze cautelari, tantomeno al fine di omologare quelle relative a tutti procedimenti per i quali quella deroga è stabilita”. 3.3. Nel dichiarare quindi l'Illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. penumero , nella parte in cui non fa salva l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, la Corte costituzionale ha compiuto un'affermazione che risulta rilevante nel giudizio in corso, laddove ha osservato che “nell'apprezzamento di queste ultime risultanze, il giudice dovrà valutare gli elementi specifici del caso concreto, tra i quali l'appartenenza dell'agente ad associazioni di tipo mafioso ovvero la sua estraneità ad esse”. In uno dei primi commenti alla sentenza, si è messo in rilievo che “la trasformazione della presunzione da assoluta a relativa implica pur sempre che il giudice, nell'applicare nel caso concreto una misura diversa dalla custodia in carcere, veda elementi di positiva e concreta attenuazione del valore sintomatico del fatto”. 4. Passando ora ad esaminare le censure dedotte dall'U. , quali sopra riassunte nella parte narrativa, appare evidente la fondatezza delle stesse alla luce del dictum della Corte costituzionale appena illustrato. Il Tribunale del riesame, invero, ha disposto nei confronti dell'U. la misura della custodia in carcere - in accoglimento dell'appello del P.m. avverso il provvedimento con il quale all'U. stesso erano stati concessi gli arresti domiciliari - muovendo esplicitamente dal rilievo della ritenuta presunzione assoluta di adeguatezza della più severa misura coercitiva, ex articolo 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. penumero , in presenza della contestata aggravante dell'uso del metodo mafioso e dalla finalità di agevolazione mafiosa di cui all'articolo 7 d.l. numero 152 del 1991. Orbene, sulla scorta della declaratoria di incostituzionalità pronunciata con la sentenza numero 57 del 2013, si impone l'annullamento dell'ordinanza impugnata dall'U. , con rinvio al Tribunale di Napoli che, in applicazione dei canoni interpretativi indicati dal Giudice delle leggi, dovrà valutare se tuttora sussistano esigenze cautelari da tutelare in relazione alla contestazione mossa all'U. , e se tali esigenze, ove ritenute persistenti, siano tali da poter essere adeguatamente salvaguardate con misura diversa da quella della custodia in carcere. P.Q.M. Annulla la ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Napoli.