«Decido io se approvare o meno il bilancio». E non è una minaccia

Il voto espresso in assemblea dal socio è di per sé funzionale al suo interesse individuale, e non direttamente e immediatamente a quello della società, che di regola si definisce solo attraverso la formazione delle maggioranze assembleari.

In tale prospettiva, l’interesse sociale costituisce il limite all’esercizio del diritto di voto nell’interesse individuale del socio, tanto che, in caso di conflitto, non potrebbe spingersi legittimamente al punto di danneggiare la società. Da ciò deriva che la minaccia di far valere il proprio diritto di voto contro l’approvazione del bilancio può costituire causa di annullabilità del contratto di vendita delle azioni solo quando è diretta a conseguire vantaggi ingiusti, diversi da quelli che può perseguire il venditore, atteso l’intrinseco rapporto tra titolarità della partecipazione ed esercizio del controllo sulla gestione. Con la sentenza del 22 aprile 2013, numero 9680, la Corte di Cassazione ritorna della problematica, di centrale rilevanza nell’ambito del fenomeno societario, del rapporto tra interesse del singolo socio ed interesse della società, escludendo che la determinazione sull’approvazione del bilancio possa essere presa in considerazione in termini di minaccia durante il perfezionamento di una compravendita azionaria, in modo da rendere viziato il consenso della parte alienante. Il caso. La vicenda ha origine dall’acquisto di un pacchetto di azioni la cui legittimità viene posta in discussione dagli acquirenti, in quanto il loro consenso sarebbe stato estorto con la minaccia di non approvare bilancio da parte degli alienanti, nell’ambito di una complessa operazione di dismissione della società capogruppo. Accolta tale prospettazione in primo grado, la sentenza viene riformata in appello, sul rilievo che la questione relativa all’approvazione o meno del bilancio non poteva condurre all’annullamento dell’operazione, trattandosi dell’esercizio di un diritto del socio, strettamente connesso alla gestione della società e non estraneo all’interesse della società. Avverso tale pronuncia gli acquirenti hanno proposto ricorso per cassazione, sostenendo, per contro, l’estraneità dell’interesse della società relativamente all’operazione in questione. Minaccia e annullamento del contratto, quando rileva? Secondo l’articolo 1438 c.c., la minaccia di far valere un diritto assume i caratteri della violenza morale, invalidante il consenso prestato per la stipulazione di un contratto, soltanto se è diretta a conseguire un vantaggio ingiusto il che si verifica quando il fine ultimo perseguito consista nella realizzazione di un risultato che, oltre ad essere abnorme e diverso da quello conseguibile attraverso l’esercizio del diritto medesimo, sia anche esorbitante ed iniquo rispetto all’oggetto di quest’ultimo, e non quando il vantaggio perseguito sia solo quello del soddisfacimento del diritto nei modi previsti dall’ordinamento. In un caso, ad esempio, la Cassazione ha ritenuto che, con riferimento ad una pattuizione di aumento degli interessi convenzionali stipulata tra i mutuatari e l’istituto di credito mutuante, potesse integrare violenza morale l’asserita minaccia consistita nel prospettare l’eventualità che, in mancanza di accordi sulla dilazione di pagamento, la banca avrebbe insistito nell’azione esecutiva in essere e non avrebbe richiesto un rinvio della imminente vendita già fissata, non potendo riferirsi la valutazione in termini di ingiustizia all’esercizio dell’azione esecutiva in sé considerata, né reputarsi iniqua la concessione in via transattiva della dilazione di pagamento da parte dell’istituto di credito a fronte del riconoscimento di un rincaro del tasso di interessi sulle somme ancora dovute dai debitori esecutati. L’interesse del socio come e perché. La regola poc’anzi descritta assume contorni del tutto peculiari nell’ambito societario. In applicazione del principio di buona fede in senso oggettivo al quale deve essere improntata l’esecuzione del contratto di società, infatti, la c.d. regola di maggioranza consente al socio di esercitare liberamente e legittimamente il diritto di voto per il perseguimento di un proprio interesse fino al limite dell’altrui potenziale danno l’articolo 2373 c.c. sancisce una limitazione all’esercizio del voto del socio in conflitto d’interessi, sicché il socio non è privato del diritto di voto, né può essere escluso dallo stesso ad opera del presidente dell’assemblea, ma è tenuto soltanto ad esercitarlo in linea con l’interesse sociale. L’interesse ad agire non può essere individuato esclusivamente nella lesione di un interesse meramente economico esiste, infatti, un complesso di diritti e interessi generali tutelati da norme imperative, aventi natura non esclusivamente economica, dei quali i soci sono titolari e la cui violazione, perpetrata mediante una delibera, pur economicamente vantaggiosa per la società, attribuisce ai soci stessi l’interesse ad agire ai sensi dell’articolo 2379 c.c. costituisce lesione degli interessi dei soci la violazione delle norme imperative dettate, ad esempio, dagli articolo 2410 e 2441 c.c Conflitto di interessi del socio con la società? L’esistenza del conflitto di interessi richiede che lo scopo effettivamente perseguito dal socio sia incompatibile con la realizzazione dell’interesse sociale e che il perseguimento dell’interesse individuale o altrui possa recare danno alla società. La situazione di conflitto di interessi suscettibile di inficiare la valida formazione della volontà sociale si configura solo quando il socio risulti vincolato da interessi in contrasto con quello della società ovvero a favore di persone in conflitto di interessi con la stessa e non solo quando l’interesse del socio di minoranza chiamato a decidere sull’esclusione di altro socio di minoranza sia in contrasto solo con la posizione del socio di maggioranza, promotore della decisione. La società è obbligata ad informare il socio sul bilancio. È peraltro evidente che, nel sistema delineato dal codice civile, il socio possa realizzare il proprio interesse, tendenzialmente di natura patrimoniale, soltanto per il tramite di una puntuale conoscenza dei dati di bilancio. In ordine a tale questione, in particolare, si è ritenuto che, proprio relativamente all’approvazione del bilancio, il socio debba essere in grado di valutarne compiutamente la struttura ed il contenuto ed in tale prospettiva è fatto obbligato alla società di fornire al socio tutte le necessarie informazioni al fine di consentirgli un esame puntuale ed esauriente dello stesso. In tal senso, la giurisprudenza ritiene pacificamente che il diritto d’informazione del socio è strettamente funzionale al principio di chiarezza alla cui osservanza è tenuto l’organo amministrativo pertanto il socio ha la facoltà di richiedere chiarimenti agli amministratori sul bilancio soggetto ad approvazione qualora rilevi nel bilancio, ovvero anche in singole poste del medesimo, delle opacità che non trovano esplicazione neppure nella relazione sulla gestione e sul controllo. Quando il diritto diventa abuso. In diverse occasione la giurisprudenza ha dovuto vagliare la legittimità di alcune condotte, soprattutto di soci che, se dal punto di vista apparivano del tutto legittime, in realtà, inserendosi in un contesto del tutto peculiare, erano l’espressione del diritto riconosciuto al socio, così assumendo i contorni di un vero e proprio abuso. L’abuso o eccesso di potere può costituire motivo di invalidità della delibera assembleare, quando vi sia la prova che il voto determinante del socio di maggioranza è stato espresso allo scopo di ledere interessi degli altri soci, oppure risulta in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell’esecuzione del contratto. Si realizza la figura dell’abuso di potere della minoranza allorquando il socio eserciti il proprio diritto di voto per paralizzare l’attività della società o per arrecare alla stessa un danno non giustificato da un proprio apprezzabile interesse. Alienazione di azioni ed approvazione del bilancio nessun legame, nessuna minaccia rilevante. Venendo al caso di specie, la Cassazione ha ritenuto, confermando la sentenza di appello, che la minaccia di non approvare il bilancio – utilizzata come strumento di pressione per realizzare un’operazione di compravendita di azioni – non può essere considerata alla stregua di una minaccia rilevante ai sensi dell’articolo 1438 c.c., posto che, per il tramite dell’approvazione o meno del bilancio, il socio manifesta il proprio interesse alla partecipazione societaria e ciò in relazione al legame, effettivamente incontestabile, tra gestione della società ed approvazione del bilancio, considerando che soltanto nel bilancio trovano conferma ed attuazione le politiche di gestione della società secondo le disposizioni dettate dagli amministratori e, qualora sia consentito, dall’assemblea.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 15 marzo – 22 aprile 2013, numero 9680 Presidente Rordorf – Relatore Ceccherini Svolgimento del processo 1. Nel 1993 la Deutscher Ring Lebensversicherung AG citò con atti distinti i signori A.M.O. e A. , chiedendone la condanna al pagamento delle prime due rate delle tre pattuite, dovute, da ciascuno dei convenuti, per la compravendita delle azioni ordinarie di Lloyd Internazionale Compagnia di assicurazioni s.p.a. e SIDA Società Italiana di assicurazioni s.p.a., ad essi vendute con scrittura 14 settembre 1990. I convenuti eccepirono che il contratto era annullabile per essere stato loro estorto con illegittime pressioni. Con sentenza in data 1 agosto 2001, il Tribunale di Roma respinse la domanda, accogliendo la tesi dei convenuti che, per la minaccia della società Baloise che controllava la Deutscher Ring , di impedire l'approvazione dei bilanci delle società del gruppo Tirrena, essi sarebbero stati indotti all'acquisto che altrimenti non avrebbero stipulato delle azioni delle due società del gruppo Tirrena, delle quali la Baloise voleva disfarsi, avendo ripensato la sua politica di investimenti in Italia. Il tribunale condannò l'attrice al risarcimento dei danni cagionati ai convenuti, e li liquidò in L. 300.000.000. 2. La decisione è stata riformata dalla Corte d'appello di Roma con sentenza 3 giugno 2005. La corte ha considerato che la minaccia, assunta quale vizio della volontà degli acquirenti, consisteva nel diniego di approvazione del bilancio delle società di cui gli acquirenti erano già azionisti, vale a dire nell'esercizio di un diritto inerente alle azioni in vendita, sicché il diritto del quale si minacciava l'esercizio non era estraneo all'oggetto della compravendita. Dalle prove raccolte in corso di causa non era emerso che le ragioni del rifiuto di approvare i bilanci in questione, genericamente e immotivatamente indicate dai testimoni come strumentali, fossero estranee all'interesse inerente alla partecipazione da dimettere era infatti ragionevole e legittimo che l'approvazione del bilancio, rispecchiando gli indirizzi generali, fosse fatta dipendere dalla stabilità della partecipazione. Non era invece allegato, né dimostrato, che il prezzo accettato dagli acquirenti fosse sproporzionato al valore dei titoli. 3. Per la cassazione della sentenza, non notificata, ricorrono A.M.O. e A. per due motivi. La Deutscher Ring Lebensversicherung AG resiste con controricorso. I ricorrenti hanno depositato una memoria. Motivi della decisione 4. La circostanza, allegata dai ricorrenti nella memoria depositata, che la controparte sarebbe stata nel frattempo in tutto o in parte soddisfatta del suo credito con il pagamento di un fideiussore, non vale a far ritenere cessata la materia del contendere, che per effetto delle difese dei convenuti, coltivate anche con il presente ricorso, sono estese alla validità dell'intero contratto. 5. Con il primo motivo si denuncia la violazione dell'articolo 1438 c.c., e la violazione o falsa applicazione degli articolo 1175 e 1375 c.c Si deduce che, nella stessa ricostruzione della corte del merito, il vantaggio perseguito dalla venditrice era diverso da quello ottenibile con l'esercizio del diritto. L'abuso del diritto di voto, che è ravvisabile quando il socio, pur esercitando il suo diritto, persegua un interesse personale e antitetico a quello sociale coinvolto, o interessi extrasociali con danno anche potenziale della società, costituirebbe violazione delle norme e dei principi relativi alla correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto. Si censura pertanto l'affermazione della corte di merito, secondo cui il diritto di non approvare il bilancio potrebbe essere esercitato legittimamente dal socio in funzione dell'interesse a conservare o dismettere la partecipazione. 5.1. Il motivo è infondato. La minaccia di far valere un diritto assume i caratteri della violenza morale, invalidante il consenso prestato per la stipulazione di un contratto, ai sensi dell'articolo 1438 cod. civ., soltanto se è diretta a conseguire un vantaggio ingiusto il che si verifica quando il fine ultimo perseguito consista nella realizzazione di un risultato che, oltre ad essere abnorme e diverso da quello conseguibile attraverso l'esercizio del diritto medesimo, sia anche esorbitante ed iniquo rispetto all'oggetto di quest'ultimo giurisprudenza consolidata cfr. da ultimo, Cass. 23 agosto 2011 numero 17523 . L'applicazione di questo principio alla fattispecie di causa pone la questione se la dismissione della partecipazione sociale sia un obiettivo esorbitante e iniquo rispetto al controllo della gestione sociale attraverso il voto in assemblea sull'approvazione del bilancio. A questo riguardo occorre chiarire che il voto espresso dal socio in assemblea è di per sé funzionale al suo interesse individuale, e non direttamene e immediatamente a quello della società, che di regola si definisce solo attraverso la formazione delle maggioranze assembleari. Vero è, soltanto, che l'interesse sociale costituisce il limite all'esercizio del diritto di voto nell'interesse individuale del socio, nel senso che in caso di conflitto non potrebbe spingersi legittimamente al punto di danneggiare la società. Ne consegue che la minaccia di far valere il proprio diritto di voto contro l'approvazione del bilancio può bensì costituire causa di annullabilità del contratto di vendita delle azioni, quando è diretta a conseguire vantaggi ingiusti ma tali non sono i vantaggi perseguiti dal venditore, per il solo fatto di non essere funzionali all'interesse sociale. È quindi immune da censure l'affermazione del giudice di merito, che fosse ragionevole e legittimo far dipendere la scelta tra il votare a favore o contro il bilancio dalla prospettiva di dismissione delle azioni, che non è un elemento estraneo ed esorbitante rispetto alle opzioni intrinseche all'esercizio del diritto di voto. L'intrinseco rapporto tra titolarità della partecipazione ed esercizio del controllo sulla gestione vale dunque a escludere l'estraneità del vantaggio perseguito al diritto fatto valere e la sua abnormità, e con ciò la sua ingiustizia. Ciò detto, è solo da aggiungere che sono estranei alla fattispecie di causa, vertente sull'annullabilità per violenza morale del contratto della cui esecuzione si discute, i richiami alle disposizioni sull'obbligo di comportamento in buona fede del creditore e del debitore e nell'esecuzione del contratto medesimo. 6. Con il secondo motivo del ricorso si denuncia il vizio di motivazione nell'accertamento dei motivi del minacciato rifiuto di approvare il bilancio da parte della società avversaria. A dimostrazione dell'assunto che i motivi sarebbero stati quelli di un radicale mutamento della politica d'investimento in Italia si riporta il contenuto dei capitoli di prova e delle risposte fornite dai testi. 6.1. Il motivo, nella misura in cui non lo si ritenga assorbito dal rigetto del motivo precedente - il mutamento della politica degli investimenti essendo appunto in tesi il motivo perseguito, egoistico ma non per questo lesivo dell'interesse sociale - è inammissibile in questa sede di legittimità, traducendosi in una questione di apprezzamento dei risultati delle prove, e come tale appartenente al merito della causa. 7. Il ricorso è respinto. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo. P.Q.M. La corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 12.200,00, di cui Euro 12.000,00 per compenso, oltre agli accessori di legge.