Lei cattolica, lui ‘Testimone di Geova’: impensabile una scelta confessionale delle figlie minori

A chiusura del rapporto tra uomo e donna, restano gli strascichi, anche religiosi, per la prole. Snodo decisivo è l’adesione dell’uomo, post separazione, ai ‘Testimoni di Geova’, e il suo desiderio di condividere questa fede colle figlie. Dai giudici, però, arriva una risposta negativa le bambine non potranno prendere parte alle ‘Adunanze’, momento importante per i ‘Testimoni di Geova’, e condivideranno con la madre compleanni e festività pasquali e natalizie. Ancora prematuro chiedere alle due bambine una scelta consapevole, considerando la tenera età e il fatto di esser cresciute in un contesto familiare cattolico.

Nessuna possibilità di equivoco sul contenuto dell’articolo 19 della Costituzione della Repubblica italiana “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, in qualsiasi forma individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”. Ma questo principio cardine va sì applicato, però con elasticità, quando si parla di bambini. Perché, per queste ultime, è difficile ipotizzare una scelta confessionale consapevole, a maggior ragione quando le due opzioni sono rappresentate tra il ‘Cattolicesimo’ della madre e l’adesione del padre ai ‘Testimoni di Geova’. Di fronte a questo quadro, meglio salvaguardare, quasi ‘congelare’, gli equilibri ‘assorbiti’ dalla prole – simboleggiati, in questo caso, dalla crescita in un contesto familiare originariamente cattolico a tutto tondo –, e prender tempo in attesa che, crescendo, abbiano la forza e la maturità per scegliere Cassazione, sentenza numero 24683/2013, Sezione Prima Civile, depositata oggi Cambio di rotta. Snodo decisivo della vicenda è l’«adesione» dell’uomo ai ‘Testimoni di Geova’, adesione – un netto cambio di rotta rispetto alla fede cattolica – che si concretizza a «separazione» già concreta dalla donna e che comporta strascichi, purtroppo, per la posizione della prole della coppia. Più precisamente, argomento di discussione, anzi oggetto di scontro, è la scelta dell’uomo di «condurre le figlie alle ‘Adunanze del Regno’», rendendole così partecipi concretamente della «adesione ai ‘Testimoni di Geova’», scelta mal vista dalla donna, legata a un «credo religioso cattolico». Di fronte a una situazione così delicata, i giudici ritengono prioritario valutare la «impossibilità per le bambine, fino ad allora educate in un contesto connotato dal credo religioso cattolico, di praticare una scelta confessionale veramente autonoma». E proprio ragionando in questa ottica, viene fissato un «divieto», nei confronti dell’uomo, per impedire la «partecipazione delle figlie minori alle ‘Adunanze del Regno’», e, allo stesso tempo, viene stabilito «l’obbligo di far trascorrere alle minori i giorni più significativi delle festività natalizie e pasquali, nonché il giorno del loro compleanno, con la madre». Scelta posticipata. Pronta la reazione dell’uomo, desideroso, è evidente, di condividere con le figlie la propria fede. Di fronte ai giudici della Cassazione, però, elemento centrale è il richiamo alla Costituzione, ossia al «diritto di manifestazione della propria religione», che, secondo l’uomo, è clamorosamente negato proprio dal «divieto di partecipazione delle figlie minori alle ‘Adunanze del Regno’». Questa obiezione, teoricamente fondata, è, però, da valutare come non accoglibile, secondo i giudici del ‘Palazzaccio’, i quali, difatti, mostrano di condividere l’ottica adottata in secondo grado. Elemento decisivo è la «valutazione negativa» tracciata dai ‘Servizi sociali’ del Comune ciò ha portato a ritenere, in sostanza, che «l’età delle figlie non consentisse loro di praticare una scelta confessionale veramente autonomo», almeno per ora, e che, quindi, «fosse inopportuno uno stravolgimento di credo religioso che non potesse essere elaborato con la necessaria maturità, considerato che le minori avevano vissuto in un contesto connotato dal credo religioso cattolico».

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 30 settembre – 4 novembre 2013, numero 24683 Presidente Luccioli – Relatore Piccininni Fatto e Diritto Con ricorso del 24.1.2011 L.R.comma adiva il Tribunale dei Minorenni di Milano, per sentir pronunciare l’affidamento condiviso delle figlie minori G. ed A., nate da una relazione di convivenza con R.B., e sentir stabilire l’assegno per il loro mantenimento originariamente concordato in complessivi € 600 in € 150 per ciascuna, in esso escluse parte delle spese straordinarie, da porre a suo carico nella misura del 50%. Il tribunale accoglieva la richiesta di affido condiviso, poneva a carico del comma l’assegno di € 600, oltre il 50% delle spese straordinarie, con provvedimento che veniva reclamato da entrambi, dal comma in via principale, con riferimento alla quantificazione dell’assegno, dalla B. in via incidentale, in relazione al disposto affidamento condiviso. La Corte di appello, sezione per i minori, con decreto provvisorio dell’1.3.2012 faceva dapprima divieto a R.comma di condurre le figlie alle Adunanze del Regno, alle quali il reclamante principale prendeva parte conducendo con sé le bambine in relazione alla sua intervenuta adesione dopo la separazione ai Testimoni di Geova. Quindi, all’esito dell’istruttoria, confermava sostanzialmente il provvedimento del primo giudice, eccezion fatta a per il già disposto divieto stabilito provvisoriamente con il citato decreto dell’1.3.2012, relativamente alla partecipazione delle figlie minori alle Adunanze nel Regno, che veniva così confermato b per la prescrizione concernente l’obbligo di far trascorrere alle minori “i giorni più significativi delle festività natalizie e pasquali, e cioè il 24 e il 25 dicembre, l’1 e il 6 gennaio e il giorno di Pasqua, nonché il giorno del loro compleanno”, con la madre misure entrambe adottate in relazione all’affermata impossibilità per le bambine, fino ad allora educate in un contesto connotato dal credo religioso cattolico, di praticare una scelta confessionale veramente autonoma”. Avverso la decisione comma proponeva ricorso per cassazione affidato a tre motivi, cui resisteva B. con controricorso con il quale veniva fra l’altro eccepita la nullità della notifica dell’atto di impugnazione, atti cui facevano seguito le rispettive memorie. Con i motivi di ricorso comma ha denunciato 1 violazione dell’articolo 360 numero 1 c.p.c. e 111, comma 7, Cost., con riferimento alla disposta condanna al pagamento delle spese processuali, quantificate in € 2.400, e quindi in misura particolarmente elevata, tale da porsi in contrasto con l’articolo 24 Cost. Per di più, secondo il ricorrente, il principio della soccombenza andrebbe affermato tenendo presente l’esito finale della lite, mentre la B. non risulterebbe “la parte vittoriosa del procedimento” 2 violazione dell’articolo 19 Cost., in relazione al disposto divieto di partecipazione delle figlie minori alle Adunanze del Regno, divieto che si porrebbe in contrasto con il diritto di manifestazione della propria religione, normativamente riconosciuto 3 vizio di motivazione sotto il profilo della apoditticità della decisione, asseritamente adottata con un semplice appiattimento sulle affermazioni del primo giudice, senza che fosse tenuto debito conto degli specifici rilievi formulati con il reclamo. Osserva il Collegio che l’eccezione di nullità della notifica del ricorso in esame, perché effettuata presso la residenza anagrafica di essa controricorrente anziché presso il domicilio eletto, è priva di pregio, attesa l’avvenuta costituzione in giudizio della B., che come effetto conseguente ne ha determinato la sanatoria ai sensi dell’articolo 156 c.p.c. comma 04/8893, comma 02/9362, comma 01/8632, comma 00/2085, comma 98/4910, comma 97/5575 . Venendo quindi all’esame del ricorso, si rileva che il provvedimento sulla liquidazione delle spese processuali, contrariamente a quanto sostenuto dalla B., è certamente ricorribile comma 12/2986, comma 2006/14742, comma 05/9516 , ma la censura è nel merito infondata. Ed infatti la Corte di Appello ha motivato la propria decisione sul punto in ragione della prevalente e non contestata soccombenza del comma e tale circostanza esclude anche l’astratta configurabilità di una violazione di legge sotto l’aspetto denunciato, atteso che il principio della liquidazione delle spese processuali sulla base della soccombenza impone che non possa essere condannata la parte vittoriosa, ipotesi incontestabilmente non ricorrente nella specie. Quanto alla doglianza relativa all’asserita “esosità” dell’importo liquidato, la stessa appare generica, in quanto riconducibile ad una valutazione dell’interessato e non sorretta da alcuna deduzione in ordine al mancato rispetto delle tariffe professionali. Analogamente infondata è poi la censura sollevata con il secondo motivo di impugnazione, incentrata su una asserita compressione del diritto di manifestazione del proprio credo religioso, pur costituzionalmente garantito. La Corte territoriale, cui era stata specificamente sottoposta la questione concernente l’indirizzo religioso dato dal comma alle figlie minori, ha invero espresso sul punto una valutazione negativa all’esito degli accertamenti svolti dai Servizi del Comune di S. Donato Milanese, ritenendo sostanzialmente che l’età delle figlie non consentisse loro di “praticare una scelta confessionale veramente autonoma” e fosse inopportuno “uno stravolgimento di credo religioso” che non potesse essere elaborato con la necessaria maturità, considerato che le minori “avevano vissuto in un contesto connotato dal credo religioso cattolico”. Appare dunque all’evidenza che la Corte di appello, lungi dal negare e comprimere il diritto di professare la propria fede religiosa la cui violazione è stata denunciata dal C., ha piuttosto adottato le prescrizioni ritenute più idonee per assicurare la corretta formazione psicologica ed affettiva delle minori e le relative statuizioni, sorrette da adeguata motivazione non viziata sul piano logico, non sono censurabili in questa sede di legittimità. Resta infine il terzo motivo, con il quale comma ha denunciato un vizio di motivazione in relazione all’avvenuta conferma in sede di gravame dei provvedimenti di natura economica. La conferma sarebbe intervenuta senza la debita considerazione della sua “difficile situazione economica”, ma il motivo risulta inammissibile, poiché la Corte di appello ha espresso sul punto una valutazione di merito della quale ha dato sufficiente e non illogica motivazione, mentre la censura formulata al riguardo è generica e consiste nella riproposizione di argomenti che a dire del ricorrente avrebbero dovuto condurre a conclusioni difformi a sé favorevoli, piuttosto che in errori addebitabili al giudice del merito, semplicemente enunciati e apoditticamente richiamati. Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente, soccombente, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 3.200, di cui € 3.000 per compenso, oltre agli accessori di legge. In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità egli altri dati identificativi, ai sensi dell’articolo 52 d.lgs. 196/03.