“Sei una co…ona”, ossia “sei un’ingenua”: nessuna offesa

Cade l’accusa nei confronti di un maresciallo che ha così apostrofato un caporale maggiore donna. Per i Giudici il linguaggio tendenzialmente colorito utilizzato dall’uomo e il contesto dell’episodio rendono l’epiteto non grave.

Parole forti, volgari, non proprio oxfordiane. “Sei una coona” così un maresciallo si rivolge a un caporale maggiore – una donna – durante un dialogo in un ufficio. Per i Giudici, però, non si considerare offensivo l’epiteto utilizzato Cassazione, sez. I Penale, sentenza numero 34442/17, depositata oggi . Dialogo. Cade definitivamente l’accusa di ingiuria. A essere decisivi sono il contesto dell’episodio e la tendenza del maresciallo a utilizzare un linguaggio assai colorito. In pratica, ricostruito il dialogo tra i due protagonisti, è emerso, secondo i Giudici della Cassazione, che «la frase adoperata non aveva carica offensiva» perché «andava tradotta nel senso di “ingenua”, “sprovveduta”». A questo proposito, significativa, viene aggiunto, è la circostanza che «il maresciallo aveva riproposto lo stesso termine nei suoi confronti, aggiungendo subito “Te lo dico proprio perché ti voglio bene”». Ciò è sufficiente, secondo i Giudici, per ritenere che «si era trattato di un epiteto forte» sì «ma espresso, se non con pacatezza, comunque non con animosità e in un clima che se non è stato del tutto colloquiale sembrerebbe comunque improntato non tanto a un intervento correttivo, quanto a una sollecitazione rivolta alla subordinata a prendere atto di quello che il maresciallo reputava essere un atteggiamento erroneo».

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 3 maggio – 13 luglio 2017, numero 34442 Presidente Di Tomassi – Relatore Talerico Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 27 novembre 2014, il Tribunale Militare di Verona, assolveva Ma. Anumero dall'imputazione di ingiuria a inferiore continuata per insussistenza del fatto quanto al punto A della rubrica per avere offeso, verso la fine del mese di luglio 2012, il prestigio, l'onore e la dignità dell'inferiore gerarchico, 1. Caporale Maggiore Sa. Ro., dicendo io mi ricordo ancora la prima volta che ti ho vista in borghese con il tuo bel culetto e mimando con le mani la sagoma del corpo e perché il fatto non costituisce reato quanto al punto B della rubrica per avere offeso, verso la fine di settembre 2012, il prestigio, l'onore e la dignità del medesimo inferiore gerarchico, dicendo sei una cogliona . 2. La Corte militare di appello, con pronuncia resa il 2 marzo 2016, dichiarava l'imputato responsabile del reato di ingiuria a inferiore allo stesso ascritto al punto A dell'imputazione e, concesse circostanze attenuanti di cui agli articolo 62 bis cod. penumero e 48, ultima parte, cod. penumero mil. pace, lo condannava alla pena di mesi tre di reclusione militare, concedendogli i doppi benefici di legge, nonché al risarcimento del danno nei confronti della costituita parte civile, da liquidarsi in separata sede confermava la decisione appellata con riguardo al reato di ingiuria a inferiore contestato al punto B dell'imputazione. 3. Per quanto qui rileva, la Corte Militare evidenziava che il Ma., primo maresciallo effettivo presso il 32. reggimento Genio Guastatori di Torino, aveva, all'interno dell'ufficio del capitano Fe. Pi., rivolto nei confronti del Caporale Maggiore Ro. Sa. l'espressione cogliona , come era risultato inequivocabilmente dalla registrazione effettuata da quest'ultima. Riteneva, tuttavia - dopo avere evidenziato che l'accertamento del carattere ingiurioso delle parole proferite implicava necessariamente la valutazione del contesto in cui il temine in questione era stato pronunciato - che si era trattato di un epiteto forte ma espresso se non con pacatezza comunque non con animosità e in un clima che se non è stato del tutto colloquiale sembrerebbe comunque improntato non tanto a un intervento correttivo, quanto a una sollecitazione rivolta alla subordinata a prendere atto di quello che il Ma. reputava essere un atteggiamento erroneo . Aggiungeva la Corte che, così ricostruito il contesto nel quale la frase era stata pronunciata, l'espressione volgare, pur se evocativa di oscenità, era stata solo sintomo di impoverimento del linguaggio, oltre che di maleducazione da parte dell'imputato, il quale era risultato essere persona non particolarmente formale nel linguaggio, che si lasciava spesso andare a espressioni colorite concludeva affermando che, nel caso di specie, si era verificato uno scadimento del lessico come evidenzia va anche il fatto che la parola in questione risulta va essere stata parte del linguaggio corrente e usuale del sottoufficiale, tanto da averla attribuita anche a sé stesso, circostanza questa che porta va a escludere che l'espressione fosse connotata dalla volontà di umiliare la destinataria . 4. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale militare di Roma, denunciando, con un unico motivo, inosservanza o erronea applicazione della legge penale - articolo 606, comma 1, lett. b cod. proc. penumero - con riferimento all'articolo 196, comma 2, cod. penumero mil. pace, nonché manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione - articolo 606, comma 1, lett. e cod. proc. penumero - per avere erroneamente ritenuto che l'imputato abbia pronunciato l'espressione in questione in un contesto non ingiurioso o, comunque, senza la volontà di umiliare la destinataria . Ha, in proposito, evidenziato che, ai fini della configurabilità del reato di ingiuria militare, è sufficiente il dolo generico e ha sostenuto che la Corte Militare di appello avrebbe dovuto riportarsi alla pacifica giurisprudenza in materia e non invocare, al fine di escludere il dolo, la necessità di contestualizzare il fatto con riferimento a un non meglio specificato e insussistente standard di sensibilità sociale del tempo che la sentenza sarebbe, altresì, contraddittoria nella parte in cui, dopo avere premesso di non condividere la pronuncia di primo grado in tema di gergo di caserma , ha successivamente, affermato che l'epiteto offensivo andava contestualizzato in un clima colloquiale perdendo di vista la sua immediata e diretta lesività, valorizzando, in chiave favorevole all'imputato, la propensione di questi alla maleducazione e la sua abitudine a esprimersi in maniera greve e colorita, propensione che nulla ha a che vedere con la problematica del dolo. Considerato in diritto 1. Il ricorso è infondato per le ragioni che seguono. E in vero, non ricorre il vizio della violazione di legge né sotto il profilo della inosservanza per non avere il giudice a quo applicato una determinata norma in relazione all'operata rappresentazione del fatto corrispondente alla previsione della disposizione, ovvero per averla applicata sul presupposto dell'accertamento di un fatto diverso da quello contemplato dalla fattispecie , né sotto il profilo della erronea applicazione, avendo il giudice a quo esattamente interpretato la norma di cui all'articolo 196 cod. penumero mil. pace alla luce dei principi di diritto fissati da questa Corte. A ben vedere, la ratio della decisione impugnata - in precedenza riportata - è che, nel contesto in cui la frase era stata adoperata dall'imputato, la stessa non aveva carica offensiva perché andava tradotta nel senso di ingenua , sprovveduta , come risultava chiaramente anche dalla circostanza che il Ma. aveva riproposto lo stesso termine nei suoi confronti, aggiungendo, subito dopo te lo dico . proprio perché ti voglio bene . In altri termini, secondo i giudici di merito, l'espressione colorita utilizzata dal Ma., nel contesto descritto, non poteva essere percepita in altro modo di quello indicato, atteso che la valenza offensiva del termine è sempre direttamente ricollegabile al significato che viene attribuito a esso dall'agente. Tale valutazione di merito, assolutamente logica, è insindacabile in questa sede e resiste alle doglianze del ricorrente, tendenti ad attribuire al Ma. una volontà diversa di quella effettiva. P.Q.M. Rigetta il ricorso.