Colpo dolorosissimo per l’uomo, beccato dalla coniuge nella zona più cara e più delicata Inevitabili, però, le conseguenze a livello penale per la donna. Fragilissima la linea difensiva poggiata su una presunta aggressione da parte dell’uomo.
Mira da cecchino professionista per una moglie, che centra in pieno il marito con un calcio, colpendolo, volutamente, nella zona più cara agli uomini Momento di follia o reazione a un comportamento aggressivo da parte del coniuge? Più plausibile la prima ipotesi. E ciò comporta la condanna della donna Cassazione, sentenza numero 9693, Quinta Sezione Penale, depositata oggi . Violenza. Sfavorevole alla donna è già la decisione del Giudice di pace, il quale ne sancisce la responsabilità per «lesioni personali semplici» in danno del marito, colpito «ai testicoli con un calcio». Per il difensore, però, è stata sottovalutata la «necessità» della moglie «di difendersi da un atteggiamento aggressivo dell’uomo», come certificato anche dal fatto che «la donna, dopo il fattaccio, giunse trafelata ed impaurita nell’ufficio» di un amico. Tale ricostruzione alternativa si rivela assai fragile, ad avviso dei giudici della Cassazione, i quali, difatti, confermano la condanna decisa dal Giudice di pace, alla luce della violenza messa in atto dalla moglie ai danni del marito. Decisivo, innanzitutto, il richiamo alle «dichiarazioni» dell’uomo, accompagnate da «idoneo certificato medico, che attesta lesioni perfettamente compatibili» con l’episodio così come ricostruito. Rilevante, poi, anche la mancanza di appigli concreti per la tesi della «legittima difesa». Per esser chiari, quale era il «pericolo che incombeva sulla donna»? Quale era stata «l’azione offensiva posta in essere dal marito» e a cui la moglie «avrebbe dovuto reagire»? Queste domande sono rimaste senza risposte E, aggiungono i giudici del ‘Palazzaccio’, non sono state neanche «indicate le conseguenze patite» dalla donna a seguito dell’«aggressione», conseguenze inevitabili se davvero ci si fosse trovati di fronte all’azione di un «soggetto violento», come sostenuto dal difensore. E poi, anche la «circostanza che la donna giunse trafelata e impaurita» da un amico – poi da lei chiamato a testimoniare – non può condurre, in automatico, a sostenere che ella «fosse stata aggredita» assolutamente plausibile, difatti, concludono i giudici, che la donna fosse sì «impaurita» ma «solo perché temeva la reazione dell’uomo» duramente colpito, fisicamente e nel proprio orgoglio
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 20 gennaio – 5 marzo 2015, numero 9693 Presidente Lombardi – Relatore Settembre Ritenuto in fatto 1. Il Giudice di pace di Recanati, con sentenza del 24/2/2014, ha condannato V.T. a pena di giustizia per lesioni personali semplici in danno di E.L., colpendolo ai testicoli con un calcio. 2. Contro la sentenza suddetta ha proposto ricorso per cassazione, nell'interesse dell'imputata, l'avv. G.G., dolendosi del mancato riconoscimento della legittima difesa. Deduce che la sentenza è priva di un apparato logico-argomentativo idoneo a sostenere la conclusione cui è pervenuta, in quanto omette di valutare adeguatamente la tesi difensiva - imperniata sulla necessità dell'imputata di difendersi da un atteggiamento aggressivo dell'uomo - e di spiegare perché la tesi accusatoria abbia maggiore credibilità di quella difensiva. Lamenta un travisamento delle dichiarazioni dell'imputata - che ha parlato della possibilità di aver toccato l'uomo per divincolarsi da lui e non ha ammesso di averlo deliberatamente colpito - e la sottovalutazione delle dichiarazioni dei teste G., che accolse la donna allorché, dopo il fatto, giunse trafelata nel suo ufficio ed evidentemente impaurita. Considerato in diritto Il ricorso è manifestamente infondato. L'affermazione di responsabilità è avvenuta sulla base delle dichiarazioni della persona offesa, assistite da idoneo certificato medico, che attesta lesioni perfettamente compatibili col racconto dell'uomo. Si tratta, quindi, di pronuncia emessa sulla base di testimonianza adeguatamente riscontrata, senz'altra idonea a sorreggere la conclusione cui è pervenuto il giudicante. Non appare corretta l'affermazione dei ricorrente, secondo cui peso decisivo è stato dato alla confessione dell'imputata, essendosi il giudice di pace limitato a rilevare che l'imputata non ha negato che, nel divincolarsi, possa aver colpito il marito. Peraltro, la legittima difesa è rimasta - nella prospettazione difensiva - solo una ipotesi, non suffragata da alcuna evenienza processuale e svalutata dalla mancata specificazione delle circostanze in cui si sarebbe spiegata, nonché dalla mancata indicazione dei pericolo che incombeva sulla donna non ha indicato quale sia stata l'azione offensiva posta in essere dal marito, a cui avrebbe dovuto reagire . La tesi rivela, oltretutto, la sua aleatorietà laddove non vengono indicate le conseguenze patite dall'aggressione circostanza senz'altro improbabile, trattandosi di aggressione proveniente da un soggetto che era - nella tesi difensiva - violento. Né la motivazione appare illogica nella valutazione delle dichiarazioni del teste G., che, per non essere stato presente ai fatti, non poteva sapere come si erano svolti. Peraltro, la circostanza che la donna giunse da lui trafelata o anche impaurita non significa affatto che fosse stata aggredita, potendolo essere solo perché temeva la reazione dell'uomo che era stato da lei colpito. In conclusione, sebbene la sentenza non sia di agevole lettura e contenga passaggi non perfettamente comprensibili come rimarcato dal ricorrente, che preferisce fare una diversa - e per lui più favorevole - qualificazione delle cadute relative a quei passaggi , niente autorizza a ritenere che sia anche illogica o apodittica, essendo comunque ancorata ad obbiettive risultanze processuali e non essendo contraddetta da una diversa ricostruzione della vicenda ad opera della ricorrente. Il ricorso è pertanto inammissibile. Consegue, ai sensi dell'articolo 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma a favore della Cassa delle ammende, che si reputa equo quantificare in € 1.000. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000 a favore della Cassa delle ammende.