Alla Corte di Cassazione non è riservato il compito di stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti né deve condividerne la giustificazione. Essa deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune.
Dunque, il giudizio di legittimità, cui è chiamata la Corte di Cassazione, non può prevedere una nuova valutazione degli elementi fattuali già sottoposti all’esame dei giudici di merito esso può riguardare esclusivamente, sotto il profilo del vizio di illogicità, l’esistenza di aporie, incongruità, carenze o contraddittorietà nel ragionamento logico giuridico che si pongano oltre i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento . Ne discende che il vizio di illogicità della motivazione deve essere percepibile ictu oculi dovendo il sindacato di legittimità essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze. Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, nella sentenza numero 17662 del 18 aprile 2013. Il caso . Una coppia entrava nel possesso di un cane. Scopertone il proprietario lo contattava e prospettava allo stesso la possibilità di rientrarne in possesso dietro pagamento della somma di euro 1.000,00. In difetto di pagamento di detto importo la perdita del cane sarebbe divenuta per il proprietario definitiva. Si procedeva nei confronti della coppia per estorsione ed i giudici di prime e seconde cure dichiaravano entrambi gli imputati colpevoli del reato ascrittogli. Proponevano ricorso per cassazione gli imputati deducendo vizio di motivazione sub specie di illogicità della stessa e travisamento della prova. Il vizio di motivazione nella lettura della Corte di Cassazione . Che il vizio di motivazione possa costituire lo strumento atto a sollecitare una valutazione della vicenda sottoposta all’esame del Giudice di legittimità il più possibile orientata ed imperniata su di una rivalutazione fattuale della vicenda è, parafrasando il linguaggio burocratico, circostanza nota all’ufficio. Che l’operazione per essere condotta a buon fine necessiti di particolarissime attenzioni e di fine abilità giuridica è altrettanto noto. Così come, del resto, costituisce patrimonio comune dei giuristi la propensione della Corte ad effettuare riletture di fatto delle vicende giuridiche laddove l’interpretazione delle stesse fornite dai Giudici di merito appaia essere difficilmente condivisibile. In questa ottica forse potremmo leggere le motivazioni rese in relazione alla cosiddetta “sentenza Stasi” il cui dispositivo è stato reso pubblico ieri. Il cocktail prodotto da questi tre elementi è ben sintetizzato nell’affermazione, vero e proprio principio di diritto rectius principio interpretativo della norma contenuta nell’articolo 606 lett. e c.p.p. contenuta nella motivazione della pronuncia con la quale la Corte ribadisce che la ricostruzione effettuata dal Giudice di merito deve essere compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento. Ovvero, è illogica la motivazione che si scontra con il senso comune e con i limiti della plausibile opinabilità di apprezzamento. Il che, a mio avviso, lascia aperti alcuni problemi e in particolare quelli relativi alla definizione di senso comune e, ancor più, dei limiti della plausibile opinabilità di apprezzamento. La plausibile opinabilità . Si tratta di una formula, utilizzata a ripetizione dalla Corte, che a ben vedere si ricollega immediatamente al disposto dell’articolo 533 c.p.p. e del conseguente limite del ragionevole dubbio. È al di fuori della opinabilità plausibile tutto ciò che non può dirsi essere ricompreso nel margine del ragionevole dubbio circa la sussistenza di una ricostruzione alternativa ed anodina della vicenda? Se è così, e mi pare di poter dire che una ricostruzione atta a fornire concreto e positivo contenuto all’allocuzione non possa che essere ricostruita in questo modo, la Corte avrebbe di fatto, e di diritto, il compito di effettuare una valutazione fattuale in relazione alla vicenda sottoposta al suo esame e, all’esito di detta attività, alla luce del paradigma del ragionevole dubbio pronunciarsi. Di fatto contravvenendo al principio, sempre contenuto nella pronuncia in commento, inerente l’impossibilità della Corte di valutare le possibili ricostruzione dei fatti scegliendone la migliore. Ma, del resto, se così non fosse, il principio della plausibile opinabilità si troverebbe del tutto sprovvisto di ogni aggancio normativo finendo col divenire, il che sarebbe inaccettabile, espressione di arbitrio. Dunque la Corte, attraverso una formula che apparentemente è volta a chiudere la porta a qualsiasi riesame fattuale della vicenda processuale in realtà pare invece dotarsi di un potere, significativo, di rivalutazione complessiva del fatto allorché questi appaia essere descritto ed interpretato dal Giudice di merito, oltre i limiti della plausibile opinabilità. Il senso comune . Non meno problematica è l’analisi da condursi circa la portata della definizione di senso comune . Ammesso che un senso comune esista e possa essere individuato, pare opportuno tentare di definirlo e delimitarlo attraverso il riferimento al comune sentire della collettività. Collettività che nel caso delle pronunce giudiziali dovrebbe avere quale riferimento quella costituita dall’insieme dei Giudici di merito. Ma se così non vi fosse e per avventura il comune sentire fosse quello della gente comune, una volta individuatolo, ci troveremmo dinnanzi ad un giudizio di logicità della motivazione fornito sulla scorta non di criteri logico giuridici ma della comune opinione corrente . Ovvero di un giudizio che rischia d’essere dichiarato illogico solo perché non conforme a ciò che la gente ritiene essere logico. Con il chè la funzione del Diritto quale strumento regolatore asettico e privato dalla pulsioni popolari verrebbe definitivamente affossata. Lo scenario è tutt’altro che tranquillizzante. Il Giudizio di Cassazione, al di la degli sbarramenti posti in tema di inammissibilità sempre divenire un giudizio di merito, il terzo, riservato ai casi più eclatanti che hanno scosso la coscienza popolare, con la conseguenza di rendere il Giudice di legittimità, non solo cultore e custode della nomofiliachia ma autore, sempre più presente ed importante di quel diritto vivente nel quale il sistema è ormai immerso.
Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 28 marzo - 18 aprile 2013, numero 17662 Presidente Petti – Relatore Rago Fatto e diritto 1. Con sentenza del 21/02/2012, la Corte di Appello di Cagliari confermava la sentenza con la quale, in data 17/04/2008, il giudice dell'udienza preliminare del Tribunale della medesima città aveva ritenuto P.F. e PA.Pi. colpevoli del delitto di estorsione ai danni di B.A. perché, mediante minaccia - consistita nel prospettare di rendere definitiva la perdita di un cane di proprietà del B. rinvenuto dagli imputati e la cui restituzione veniva subordinata al pagamento della predetta somma - lo costringevano a consegnare loro la somma di Euro 1.000,00. 2. Avverso la suddetta sentenza, entrambi gli imputati, a mezzo del comune difensore, con un unico ricorso, hanno proposto ricorso per cassazione deducendo l'illogicità della motivazione ed il travisamento della prova. Sostengono i ricorrenti che la Corte territoriale avrebbe fatto malgoverno del compendio istruttorio in quanto la Pa. aveva trovato il cane abbandonato e malnutrito, sicché se ne era impossessata al solo fine di curarlo. Successivamente, quando era stata contattata dal B. , che era venuto a sapere che il cane era in possesso di essa ricorrente, prontamente si era offerta di restituire il cane. Essi ricorrenti, invero, si erano limitati solo a ricevere il pensierino che il B. , riconoscente, aveva loro spontaneamente offerto. 3. Il ricorso, nei termini in cui è stata dedotta la doglianza, è manifestamente infondato. La Corte territoriale, dopo avere ricostruito i fatti e, dopo avere preso in esame la tesi difensiva mancanza di dolo insussistenza dell'elemento oggettivo dell'estorsione contraddittorietà delle dichiarazioni della parte offesa , l'ha disattesa con ampia motivazione sia in fatto che in diritto cfr pag. 2 ss. Conseguentemente, va replicato che i ricorrenti, in modo surrettizio, tentano di introdurre, in modo inammissibile, in questa sede di legittimità, una nuova valutazione di quegli elementi fattuali già ampiamente presi in esame dalla Corte di merito la quale, con motivazione accurata, logica, priva di aporie e del tutto coerente con gli indicati elementi probatori, ha puntualmente disatteso la tesi difensiva. Pertanto, non essendo evidenziabile alcuna delle pretese incongruità, carenze o contraddittorietà motivazionali dedotte dal ricorrente, la censura, essendo incentrata tutta su una nuova rivalutazione di elementi fattuali e, quindi, di mero merito, va dichiarata inammissibile. In altri termini, le censure devono ritenersi manifestamente infondate in quanto la ricostruzione effettuata dalla Corte e la decisione alla quale è pervenuta deve ritenersi compatibile con il senso comune e con “i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento” infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune Cass. numero 47891/2004 rv. 230568 Cass. 1004/1999 rv. 215745 Cass. 2436/1993 rv. 196955. Sul punto va, infatti ribadito che l'illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, dev'essere percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze ex plurimis SSUU 24/1999. In conclusione, l'impugnazione deve ritenersi inammissibile a norma dell'articolo 606/3 c.p.p., per manifesta infondatezza alla relativa declaratoria consegue, per il disposto dell'articolo 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000,00 ciascuno. P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.