L’attenuazione o l’esclusione delle esigenze cautelari non può essere desunta dal mero decorso del tempo di esecuzione della misura della custodia in carcere, né questa deve necessariamente essere rivisitata sol perché il soggetto incensurato che vi è sottoposto ha tenuto una regolare condotta carceraria. L’impegno lavorativo della madre di un minore affetto da una grave patologia non comporta alcun divieto di applicare la custodia cautelare in carcere al padre del predetto minore, in assenza della prova della impossibilità assoluta di accudire altrimenti quest’ultimo.
Ecco i tre principi espressi dalla Terza Sezione della Cassazione, con la sentenza numero 257, depositata l’ 8 gennaio 2015, con cui è stato dichiarato inammissibile il ricorso proposto dall’imputato. Le esigenze cautelari non vengono meno con il semplice trascorrere del tempo. E’ sicuramente vero che il prolungarsi dello stato di custodia cautelare, e quindi l’evolversi della vicenda processuale nel contesto della quale la misura è disposta, possono comportare una attenuazione dei pericoli che, appunto con la cautela, si mira a prevenire. Tuttavia, come rilevano gli Ermellini riportandosi ad un proprio orientamento interpretativo, il decorso del tempo non è l’unico elemento da tenere in considerazione per giudicare attenuate – o, a maggior ragione, del tutto esaurite – le esigenze cautelari. Ne occorrono altri «di sicura valenza sintomatica», che possano dimostrare come la situazione iniziale e cioè quella, per intenderci, che ha giustificato l’applicazione della custodia in carcere, sia effettivamente mutata. Il decorso del tempo non rileva nel giudizio cautelare di modifica o revoca della misura. I supremi giudici sono molto precisi sul punto, e spiegano che il tempo trascorso dalla commissione del reato per il quale si procede può tutt’al più incidere sull’originaria applicazione della massima misura custodiale – nel senso che un fatto remoto, accertato in epoca parecchio successiva, può giustificare una misura più blanda – ma non rileva nel giudizio della sua revoca o sostituzione. Questa conclusione, sposata in un recente orientamento si conosce un precedente del 2011 , chiude definitivamente le porte a quanti intendano far principalmente leva sull’argomento temporale per ottenere l’ “addolcimento” della misura cautelare della custodia in carcere. Incensuratezza e “buona condotta” non sono elementi decisivi per l’attenuazione. Posto che, per rivisitare il provvedimento cautelare, sono necessari elementi nuovi, la Suprema Corte passa ad esaminare un’altra interessante questione come valutare l’incensuratezza ed il regolare comportamento intramurario del soggetto sottoposto alla misura della custodia in carcere? La duplice risposta è netta lo stato di incensuratezza non è certamente un qualcosa di nuovo, quindi non gioca alcun ruolo decisivo nella rivalutazione della sussistenza delle esigenze cautelari. Lo si comprende bene, in effetti l’assenza di pregiudizi penali è un elemento coevo rispetto all’applicazione della misura cautelare, e non sopravviene certamente in un momento successivo. Quanto alla buona condotta carceraria, la valutazione della sua irrilevanza è lapidaria «l’osservanza delle prescrizioni connesse al regime custodiale è, a ben vedere, il minimo che ci si possa attendere da parte di chi vi è sottoposto». Come a dire un detenuto che si comporti bene non fa nulla di eccezionale, quindi la sua regolare condotta tra le mura del carcere non può essere valutata per decidere se le esigenze cautelari permangano inalterate oppure no. L’impegno lavorativo della madre di un minore non impedisce che al padre sia applicata la custodia in carcere. Nemmeno se il minore, come nel caso di specie, è affetto da una conclamata, grave patologia, si crea automaticamente quella situazione di assoluto impedimento ad accudire il figlio, che farebbe divieto di fare ricorso all’applicazione della custodia in carcere al genitore privo di impegni lavorativi. La prova della assolutezza dell’impedimento a prendersi cura del minore d’età, anche se gravemente ammalato, deve essere fornita rigorosamente. Niente da fare, quindi, se il soggetto sottoposto a custodia in carcere si limita ad allegare le assenze – per ragioni lavorative – dell’altro genitore ragionando diversamente, afferma la Corte, si perverrebbe alla paradossale conclusione secondo cui «nessuna madre di figli in tenera età possa lavorare». Non sposta nulla il fatto che uno dei genitori sia permanentemente impossibilitato a prendersi cura del proprio figlio poiché in stato di custodia in carcere ciò perché, come viene osservato dai giudici di Piazza Cavour, la situazione in cui un minorenne è affidato ad uno solo dei genitori è – al giorno d’oggi – del tutto comune. Per ottenere gli arresti domiciliari, in parole molto povere, è necessaria la prova specifica che il minore, i cui genitori siano il primo in carcere, e l’altro costantemente fuori casa per lavoro, verserebbe in stato di totale abbandono.
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 20 novembre 2014 – 8 gennaio 2015, numero 257 Presidente Squassoni – Relatore Mulliri Ritenuto in fatto 1. Vicenda processuale e provvedimento impugnato - Il ricorrente si trova sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere perché accusato di aver fatto parte di un'associazione criminosa dedita al traffico di sostanze stupefacenti, aggravata ai sensi dell'articolo 7 L. 203/91. Avendo chiesto la sostituzione della misura più severa con quella degli arresti domiciliari, il Tribunale dinanzi ai quale pende il giudizio di primo grado ha respinto ed anche il relativo appello - proposto dinanzi al Tribunale - è stato rigettato con il provvedimento oggetto del presente gravame. 2. Motivi del ricorso - Avverso tale decisione, l'indagato ha presentato ricorso, tramite difensore, deducendo violazione di legge e vizio della motivazione. La critica del ricorrente muove dal rilievo che vi sarebbe una evidente discrasia tra le premesse da cui è partito il Tribunale e le conclusioni tratte. Ed infatti, i giudici di merito, dopo avere ricordato che - a seguito delle pronunzie nnumero 231/11 e 57/13 della Corte costituzionale - la presunzione contenuta nell'articolo 275 comma 3 c.p.p. è relativa, di fatto ha operato una valutazione concretamente ancorata alla previgente presunzione assoluta. Ciò si afferma di fronte alla constatazione che il Tribunale non ha ritenuto sussistenti, né idonei, i molteplici elementi concreti ed attuali sui quali si era basata l'istanza difensiva quali il decorso del tempo e la incensuratezza del ricorrente . Per di più, si critica il fatto che il Tribunale abbia evocato a carico del F.F. comportamenti pericolosi posti in essere solo da altro soggetto il fratello F.I. e considerato anche che il collaboratore di giustizia C.D. non ha mai menzionato F.F. . Si fa, inoltre, notare che il Tribunale non ha dato il giusto peso al comportamento carcerario del F. in questi due anni di custodia e si cita, per contro, la recente decisione di questa V sez. numero 4718/14 che, proprio in tema di valutazione delle esigenze cautelari e segnatamente del pericolo di reiterazione, ha censurato un provvedimento di merito nel quale non si era tenuto conto dell'assenza di precedenti penali né della vita anteatta dell'imputato valorizzando, per contro, elementi comportamentali relativi al fatto ascritto che, però, non erano da ritenere sussistenti. In pratica, secondo il ricorrente, si sarebbe dovuto tenere in maggior considerazione l'incensuratezza del F. ed operare una valutazione effettiva, concreta ed attuale circa l'adeguatezza della presente misura. Al contrario, il Tribunale ha sostenuto che i fatti ai quali si riferisce la misura non sono neppure tanto risalenti sebbene sia pacifico, dalla stessa contestazione, che essi sono stati commessi nel 2009 ed, a tutto concedere - vista anche l'accusa di cui all'articolo 73 - solo fino al 2010. Da ultimo, il ricorrente critica il provvedimento impugnato per non avere tenuto nella dovuta considerazione la possibilità di applicare l'articolo 275 comma 4 c.p.p. con riferimento alle conseguenze che la custodia in carcere determina sulla figlia minore dell'imputato. A tal fine, ricorda che la certificazione del neuropsichiatra dell'ASP di Caltanissetta ha dato atto della patologia infantile da cui è affetta la figlia minore del ricorrente di 11 anni e che potrebbe invece essere contrastata adeguatamente ove il padre fosse posto agli arresti domiciliari. In tal modo, soggiunge il ricorrente, si darebbe anche attuazione ai principi giurisprudenziali enunciati da questa S.C. in tema di arresti domiciliari nei confronti di padri di figli minorenni sussistendo l'impossibilità della madre di prestare assistenza al minore numero 4748/13 , in applicazione dei principi costituzionali in tema di tutela dell'infanzia. Il ricorrente conclude invocando l'annullamento della ordinanza impugnata. Considerato in diritto 3. Motivi della decisione - Il ricorso è inammissibile perché manifestamente infondato. A ben vedere, infatti, si è al cospetto di una mera reiterazione dei medesimi argomenti svolti dinanzi al Tribunale che vi ha replicato in modo più che adeguato e con considerazioni del tutto logiche. Non vi è, innanzitutto, nessuna discrasia - come denuncia il ricorrente - tra l'avere preso le mosse dal principio di presunzione relativa e l'avere escluso che gli elementi concreti portati dalla difesa siano inidonei a rivedere il giudizio cautelare. Al contrario, proprio perché la presunzione di adeguatezza delle misura custodiale in carcere, ora, è relativa, il Tribunale ha cercato di verificare l'esistenza o il sopraggiungere di elementi che depongano nel senso dell'adeguatezza della, invocata, misura degli arresti domiciliari. A tale stregua, però, esso ha opportunamente evidenziato come il decorso del tempo non sia affatto elemento da solo sufficiente a giustificare una revisione della misura. Ricordando precedenti giurisprudenziali recenti sez. n, 30.11.11, numero 47416 sez. 11, 20.4.11, numero 21424 , si afferma, cioè, che l'attenuazione o esclusione delle esigenze cautelari non può essere desunta dal solo decorso del tempo di esecuzione della misura ovvero dalla osservanza puntuale delle prescrizioni ad essa connesse “dovendosi valutare ulteriori elementi di sicura valenza sintomatica in ordine al mutamento della situazione apprezzata all'inizio del trattamento cautelare”. Tra l'altro, di recente, è stato anche affermato che - mentre il tempo trascorso dalla commissione del reato deve essere oggetto di valutazione, a norma dell'articolo 292, comma 1, lett. c , c.p.p., da parte del giudice che emette l'ordinanza di custodia cautelare – “analoga valutazione non è richiesta dall'articolo 299 c.p.p. ai fini della revoca o sostituzione della misura” Sez. II, 30.ll.i1, Pantano, Rv. 252050 . Opportunamente, poi, il Tribunale ha ricordato il particolare allarme sociale dei comportamenti ascritti al ricorrente, sì da far sbiadire il valore della incensuratezza formale del ricorrente. Con riferimento alle minacce rivolte al pentito C. , il commento svolto dai giudici di merito è del tutto coerente con la logica e, comunque, convincente. Pur puntualizzando, infatti, che esse erano state rivolte da F.I. fratello del ricorrente i giudici hanno anche sottolineato che spesso tali minacce erano avvenute alla presenza del ricorrente F.F. sì che, valutando la cosa dal punto di vista del minacciato - in difetto perché non segnalati da alcuno di comportamenti di chiara dissociazione da parte del ricorrente rispetto a quelle minacce - è agevole ritenere che, quest'ultimo, non avesse percepito le minacce solo come provenienti da F.I. “singolarmente considerato, quanto dal centro di interessi che il medesimo F.I. , in un'ottica di inevitabile unitarietà con i fratelli, rappresenta”. In pratica, il Tribunale evidenzia bene come non fosse stato apportato dalla difesa alcun elemento di novità rispetto ad una situazione che era stata già valutata da quello stesso Tribunale in sede di riesame ed che era stata decisa con provvedimento ormai coperto da giudicato cautelare sicché, come costantemente affermato da questa S.C. fra le ultime, sez. i, 15.4.10, D'Agostino, rv. 247208 sez. i, 19.1.07, Petta, Rv. 236278 una volta formatosi il giudicato cautelare, solo la sopravvenienza di fatti nuovi può giustificare la rivalutazione di quelli già apprezzati e rendere possibile la revoca o la modifica della misura applicata. In altri termini, una istanza in tal senso deve essere fondata su circostanze sopravvenute rispetto alla valutazione fatta del giudice al momento della emanazione della misura, ovvero sulla valutazione di elementi che, pur preesistenti, non erano stati considerati. Di certo, perciò, la incensuratezza - su cui si richiama l'attenzione - non è un elemento nuovo e, comunque, anch'esso, come sopra detto è stato commentato analogamente, nessun rilievo può avere il comportamento carcerario dovendosi - come detto - valutare “ulteriori elementi” e valendo, altresì la considerazione che l'osservanza delle prescrizioni connesse al regime custodiale è, a ben vedere, il minimo che ci si possa attendere da parte di chi vi è sottoposto sì da non poter essere segnalato come se si trattasse di condotta eccezionale. Infine, è attento, puntuale e corretto è anche il ragionamento che il Tribunale sviluppa relativamente al fatto che la presente, più grave, misura determinerebbe una sorta di stato di abbandono della minore visto che anche la madre è spesso assente per esigenze lavorative. Pur con tutto il rispetto delle esigenze dei minori che sono le prime vittime delle condotte illecite dei genitori viene - giustamente - da osservare, però, con i giudici del merito che, nella specie l'assioma che si vuoi far passere è inaccettabile. Ciò vale, innanzitutto, come principio generale nel senso che è veramente eccessivo affermare che l'impegno lavorativo della madre determini una condizione di assoluto impedimento ad accudire il figlio “dovendosi altrimenti pervenire alla conclusione che nessuna madre di figli in tenera età possa lavorare”. Non a caso, lo stesso Tribunale cita plurime pronunzie di questa S.C. ove si pone l'accento sulla necessità che l'impossibilità per la madre di provvedere alle esigenze dei figli sia assoluta sì che la prova di tale condizione deve essere fornita in modo rigoroso “posto che la prestazione giornaliera di attività lavorativa è una condizione del tutto normale, che, di per sé, non impedisce di prendersi cura dei figli” sez. I, 4.12.08, Calderaro, Rv. 242082 Sez. I, 4.3.08, Chiovaro, Rv. 240029 . A maggior ragione, si rende necessaria una dimostrazione specifica del preteso stato di abbandono ove si verifichi una contestuale assenza dell'altro genitore posto che, a ben vedere, la condizione di affidamento di un minore ad uno solo dei genitori è ormai quasi fisiologica in una società come quella attuale ove sono molti i genitori separati o addirittura single - per non esservi stato mai, ab initio, per le più varie ragioni, il secondo genitore . Nello specifico, quindi, è del tutto assertiva la frase del ricorrente secondo cui, sussistendo l'impossibilità della madre di prestare assistenza al minore , conclusione inevitabile dovrebbe essere quella di trasformare l'attuale stato custodiale in carcere con quello agli arresti domiciliari. Alla presente declaratoria segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla Cassa delle Ammende della somma di 1000 Euro e la comunicazione, ex articolo 94, co. 1 ter, disp. att. c.p.p. alle autorità penitenziarie. P.Q.M. Visti gli articolo 615 e ss. c.p.p Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla Cassa delle Ammende della somma di 1000 Euro. Visto l'articolo 94 co. 1 ter disp. att. c.p.p Ordina che, a cura della cancelleria, sia trasmessa copia del presente provvedimento al direttore dell'istituto penitenziario competente per gli adempimenti di cui all'articolo 94 co. 1 bis disp. att. c.p.p