Il divieto del c.d “patto di quota lite”, disposto dall’articolo 2233, comma 3, c.c., si riferisce esclusivamente all’attività svolta da professionisti abilitati al patrocinio in sede giurisdizionale e non anche all’attività amministrativo - contabile svolta dal consulente del lavoro in ambito previdenziale e finalizzata al conseguimento di sgravi contributivi.
Questa è la precisazione della Corte di Cassazione con la sentenza numero 20839/2014, depositata il 2 ottobre 2014. Se ho ragione, ci guadagni anche tu. Una società conferiva incarico ad un consulente del lavoro per individuare soluzioni giuridiche o amministrative che le consentissero di godere dei benefici fiscali previsti per le aziende del Mezzogiorno. Nel caso in cui il consulente avesse accertato il diritto della società al godimento dei benefici, il professionista avrebbe dovuto quantificare i contributi versati in eccesso ed attivarsi per la ripetizione degli stessi. Il compenso per una simile attività sarebbe stato pari al 25% dei contributi già pagati e recuperati. Come ben sperava la società, l’INPS le riconosceva un quantum di contributi versati ma non dovuti. Tuttavia, venuto il momento di pagare il professionista, la società lo conveniva in giudizio per ottenere l’annullamento del contratto di prestazione d’opera, contenente un “patto di quota lite”, mal tollerato dal nostro ordinamento e punito con la nullità. La società usciva vittoriosa dai primi due gradi di giudizio, ove veniva riconosciuto un “patto di quota lite” nell’accordo per cui il compenso del consulente del lavoro sarebbe stato pari ad una quota di quanto riconosciuto al cliente. Da qui la nullità del patto e la nuova quantificazione del compenso. Alla Corte di Cassazione viene, quindi, chiesto se un simile accordo può essere qualificato come “patto di quota lite”, sebbene il professionista non sia un avvocato od un praticante abilitato, bensì un consulente del lavoro. Moralità della professioneforense. Il caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte riguarda l’interpretazione dell’articolo 2233, comma 3, c.c. nella formulazione precedente al d.l. numero 23/2006, convertito in l. numero 248/2006, vale a dire quando la norma disponeva che gli avvocati, i procuratori e i patrocinanti non potevano, nemmeno per interposta persona, stipulare con i loro clienti patti relativi a beni che formavano oggetto delle liti affidate al loro patrocinio, a pena di nullità e con risarcimento dei danni. Il dato letterale è chiaro il divieto non riguardava ogni tipo di attività professionale, bensì l’attività di patrocinio affidata ad un difensore in una controversia od in vista di una controversia. Negli anni, la giurisprudenza ha specificato che il fondamento del divieto risiede nell’esigenza di tutelare l’interesse del cliente e la moralità della professione forense quest’ultima, infatti, risulterebbe pregiudicata tutte le volte in cui nell’accordo sul compenso sia ravvisabile la partecipazione del professionista agli interessi economici finali ed esterni alla prestazione richiestagli. Di conseguenza, il “patto di quota lite” sussiste in almeno due casi il primo, che costituisce il massimo coinvolgimento del professionista, consiste nell’accordo per cui il compenso corrisponda a parte dei beni o dei crediti oggetto della lite il secondo, più sottile, è il caso in cui il compenso sia correlato al risultato pratico dell’attività svolta, comportando, quindi, un poco dignitoso coinvolgimento del professionista agli interessi esterni della prestazione. Chiarito cosa sia il “patto di quota lite” è opportuno verificare a quali categorie di professionisti sia riferibile. L’articolo 2233, comma 3, c.c. si riferisce solo al difensore e, integrando un’eccezione al principio generale della libertà negoziale, ha carattere speciale e tassativo, di conseguenza, non può essere oggetto di un’interpretazione estensiva. Solo un’eccezione il divieto di “patto di quota lite” è diretto anche ai ragionieri ed ai commercialisti nello svolgimento di attività di patrocinio avanti alle Commissioni tributarie. In questi casi, infatti, essi svolgono un’attività di difesa e di patrocinio in una controversia. Questa è la massima estensione analogica del divieto. Di conseguenza, esso non è applicabile al consulente del lavoro che presta un’attività di consulenza e di consiglio e non un’attività di rappresentanza ed assistenza in giudizio. Nel caso di specie, quindi, l’accordo sul compenso spettante al consulente del lavoro non è qualificabile come “patto di quota lite” ed è legittimo. Col senno di poi. La Corte di Cassazione avvalora il proprio ragionamento in considerazione dell’evoluzione dell’articolo 2233, comma 3, c.c., il quale, a seguito della novella del 2006, accentua il proprio carattere restrittivo individuando come categorie soggette al divieto solo gli avvocati ed i praticanti abilitati, intenzionalmente limitando l’ambito applicativo del comma 3, rispetto a quello dell’intero articolo, riferito genericamente ai professionisti intellettuali.
Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 10 aprile – 2 ottobre 2014, numero 20839 Presidente/Relatore Petitti Svolgimento del processo In data 2 giugno 21994 la C.T.F. s.r.l. conferiva al Dott. R.C. incarico professionale per la “individuazione di soluzioni giuridiche e/o amministrative, che consentano alla società C.T.F. s.r.l., di godere del beneficio delle agevolazioni previste per le aziende industriali del mezzogiorno, con particolare riferimento allo sgravio degli oneri sociali sui contributi INPS, previsti dalla normativa in vigore”, nonché, “ove mai venisse acquisito il diritto al godimento di tali agevolazioni, si conferisce ulteriore incarico professionale per la contabilizzazione dei contributi versati in eccesso [ ] nonché per l'eventuale ripetizione di tali contributi”. Quanto al compenso, veniva previsto che per tale incarico sarebbe stato corrisposto un compenso pari al 25% dei contributi già pagati e recuperati. Dopo che l'INPS riconobbe alla C.T.F. s.r.l., a titolo di contributi versati e non dovuti, una somma pari a lire 888.586.000, la società conveniva in giudizio, dinnanzi al Tribunale di Napoli, il R. per ottenere l'annullamento del contratto di prestazione d'opera professionale per effetto della nullità dell'accordo economico in esso contenuto, qualificandolo patto di quota lite e, in via subordinata, per ottenere la rideterminazione del compenso dovuto in applicazione delle tariffe professionali. Si costituiva in giudizio il R. contestando l'interpretazione fornita dalla società attrice in ordine all'ambito di applicazione dell'articolo 2233 cod. civ., ed evidenziando altresì che l'eventuale applicazione della tariffa professionale per i consulenti del lavoro avrebbe comportato la quantificazione di un compenso addirittura superiore a quello pattuito. Il R. proponeva poi domanda riconvenzionale chiedendo la condanna della società attrice al pagamento, in suo favore, della somma di Euro 128.799,12, quale onorario contabilizzato nella parcella professionale vistata dal Consiglio dell'Ordine dei Consulenti del lavoro di Napoli. Nel corso del giudizio di primo grado venivano raccolte prove documentali e testimoniali in ordine all'attività svolta dal R. , e veniva disposta altresì una consulenza tecnica d'ufficio. Con sentenza numero 1407 del 2007, il Tribunale di Napoli accoglieva la domanda della C.T.F. s.r.l. e dichiarava la nullità parziale del patto contenuto nell'accordo stipulato tra le parti, in quanto integrante violazione del divieto di patto di quota lite , di cui all'articolo 2233, terzo comma, cod. civ., e liquidava in favore del R. a titolo di compenso per l'attività professionale svolta, la somma di Euro 12.791,42. Il R. proponeva allora appello, lamentando la violazione e falsa applicazione della disposizione appena citata denunciando comunque la erroneità delle risultanze della c.t.u. riportate nella sentenza di primo grado. Resisteva al gravame la C.T.F. s.r.l., la quale proponeva anche appello incidentale per sentir annullare l'accordo intervenuto con il R. per vizi del consenso. La Corte d'appello di Napoli, con sentenza depositata il 12 marzo 2012, rigettava sia l'appello principale che quello incidentale. Avverso questa sentenza il R. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. La C.T.F. s.r.l. ha resistito con controricorso e ha altresì proposto ricorso incidentale. Il ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell'articolo 378 cod. proc. civ Motivi della decisione 1. Con il primo motivo del ricorso principale, R.C. denuncia violazione e falsa applicazione dell'articolo 2233, terzo comma, cod. civ., nella formulazione applicabile ratione tezaporis , rilevando che la sentenza impugnata ha erroneamente ricompreso l'attività del consulente del lavoro nell'ambito di applicazione della detta disposizione. 2. Con il secondo motivo il R. lamenta omessa e insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, in quanto la Corte d'appello non avrebbe rilevato gli errori commessi dal c.t.u. nel ricalcolo del compenso a lui spettante. 3. Con l'unico motivo del ricorso incidentale, la C.T.F. s.r.l. denuncia vizio di motivazione della sentenza impugnata, per avere la Corte d'appello ritenuto non adeguatamente evidenziata la domanda di annullamento dell'accordo intercorso tra le parti per vizi del consenso. 4. Il primo motivo del ricorso principale è fondato. L'articolo 2233, terzo comma, cod. civ., nel testo vigente prima della sostituzione operata dall'articolo 2, comma 2-Jbis, del decreto-legge numero 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge numero 248 del 2006 - applicabile ratione temporis nel presente giudizio - disponeva che “gli avvocati, i procuratori ed i patrocinanti non possono, neppure per interposta persona, stipulare con i loro clienti alcun patto relativo ai beni che formano oggetto delle controversie affidate al loro patrocinio sotto pena di nullità e dei danni”. Il dato letterale è in equivoco il divieto previsto dalla norma riguardava l'attività difensiva prestata nell'ambito di una controversia, e cioè, non ogni attività professionale, ma esclusivamente l'esercizio dell'attività di patrocinio affidata ad un difensore in una controversia o in vista di una controversia. Nella giurisprudenza di legittimità si è delineata la portata del divieto nei seguenti termini “il divieto del cosiddetto patto di quota lite tra l'avvocato ed il cliente, sancito dalla norma di cui all'articolo 2233 cod. civ., trova il suo fondamento nell'esigenza di assoggettare a disciplina il contenuto patrimoniale di un peculiare rapporto di opera intellettuale, al fine di tutelare l'interesse del cliente e la dignità e la moralità della professione forense, che risulterebbe pregiudicata tutte le volte in cui, nella convenzione concernente il compenso, sia, comunque, ravvisabile la partecipazione del professionista agli interessi economici finali ed esterni alla prestazione, giudiziale o stragiudiziale, richiestagli. Ne consegue che detto patto legittimamente ravvisabile anche sotto forma di promessa unilaterale, costituendo questa una fattispecie negoziale ove l'astrazione della causa risulta limitata all'ambito processuale va rinvenuto non soltanto nella ipotesi in cui il compenso del legale consista in parte dei beni o crediti litigiosi, secondo l'espressa previsione della norma che costituisce, in relazione alla ratio della tutela, soltanto la tipizzazione dell'ipotesi di massimo coinvolgimento del legale e che, pertanto, non esaurisce il divieto , ma anche qualora tale compenso sia stato, comunque, convenzionalmente correlato al risultato pratico dell'attività svolta, realizzandosi, cosi, quella non consentita partecipazione del professionista agli interessi pratici esterni della prestazione” Cass. numero 11485 del 1997 Cass. numero 1701 del 1976 . Ne consegue che la nullità di quel patto, sancita dall'articolo 2233 terzo comma cod. civ., prescinde dalla circostanza del verificarsi di un indebito lucro per il professionista, e può essere fatta valere da ciascuno dei contraenti, senza che si richieda la deduzione e dimostrazione di uno specifico interesse a rimuoverne gli effetti” Cass. numero 6073 del 1985 . In sostanza, le applicazioni giurisprudenziali della disposizione in esame si riferiscono esclusivamente all'attività del difensore. Si è infatti precisato che la nullità di cui si discute “riguarda il negozio bilaterale stipulato dal professionista investito del patrocinio legale con il cliente relativamente ai beni oggetto della controversia a lui affidata”, e integra una “eccezione al principio generale della libertà negoziale” Cass. numero 2455 del 1984 . 4.1. Solo perché questo era il contenuto effettivo della disposizione in esame è stato possibile ritenerla applicabile ai ragionieri e ai commercialisti nelle ipotesi in cui questi avessero svolto attività di patrocinio dinnanzi alle Commissioni tributarie Cass. numero 6203 del 1998 . In particolare, per i ragionieri, si è precisato che “l'articolo 38 della tariffa professionale per i ragionieri e periti commerciali approvata con il d.P.R. 25 gennaio 1959, numero 42 - prevedendo a compenso dell'opera di patrocinio prestata davanti alle commissioni tributarie un onorario determinato con riferimento al valore della pratica, computato sull'ammontare dell'imposta risparmiata per effetto della definizione, con applicazione di diverse percentuali di minimo e di massimo decrescenti per scaglioni di valori crescenti - non infrange il divieto del patto di quota lite sancito dall'articolo 2233, terzo comma, cod. civ., ma configura un'ipotesi di cosiddetto palmario, del tutto legittimo, in quanto l'operato riferimento al valore, in danaro, o tradotto in danaro, della controversia implica apprezzamento della importanza dell'opera, conformemente alla previsione del secondo comma dell'articolo 2233 citato, senza che l'assunzione a valore della controversia, per la determinazione dell'onorario, del valore del risultato utile per il cliente, anziché di quello della pretesa tributaria contestata, comporti l'attribuzione di una quota del bene formante oggetto della controversia medesima” Cass. numero 2709 del 1982 . 4.2. L'attività del R. , consulente del lavoro, è consistita in una prestazione di tipo amministrativo-contabile, volta ad ottenere dall'INPS il riconoscimento, in via amministrativa, del diritto della C.T.F. s.r.l. allo sgravio relativamente a contributi da quest'ultima già pagati, e certamente non in un'attività di assistenza e rappresentanza della società in un giudizio. Trattandosi, pertanto, di norma speciale a carattere tassativo, l'articolo 2233, terzo comma, cod. civ., nella richiamata formulazione, non poteva essere esteso, in via analogica, a fattispecie in esso originariamente non ricomprese. Il carattere restrittivo della disposizione trova altresì conferma nella nuova formulazione dell'articolo 2233 cod. civ., che individua le categorie soggette al particolare divieto in esso previsto in quella degli avvocati e dei praticanti abilitati, intenzionalmente limitando l'ambito applicativo dell'ultimo comma rispetto a quello dell'intero articolo, riferito genericamente agli esercenti professioni intellettuali. Ha dunque errato la Corte d'appello di Napoli nel ritenere nulla la clausola relativa alla commisurazione del compenso, apposta nell'accordo stipulato tra le parti, e nel ritenere applicabile l'articolo 2233, terzo comma, cod. civ., sulla base della considerazione che si trattava “di prestazione di opera intellettuale rispetto alla quale il professionista è sottoposto alla vigilanza del relativo ordine di appartenenza in attuazione del fine pubblicistico di tutela dell'interesse del cliente e della dignità e moralità del professionista”. Del resto, le pronunce di legittimità richiamate nella sentenza impugnata a fondamento della conclusione recepita dalla Corte d'appello si riferiscono all'attività professionale del difensore e non già a quella di altro professionista. 4.3. L'accoglimento del primo motivo del ricorso principale comporta l'assorbimento del secondo motivo. 5. L'unico motivo del ricorso incidentale è inammissibile per un duplice ordine di ragioni. Sotto un primo aspetto, occorre rilevare che, secondo un consolidato orientamento di questa Corte, “la parte che denunci in sede di legittimità la mancata valutazione, da parte del giudice di merito, di prove documentali o testimoniali ha l'onere di riprodurre nel ricorso il tenore esatto della risultanza processuale il cui omesso o inadeguato esame è censurato, e ciò al fine di rendere possibile alla Corte di cassazione, sulla base del solo ricorso e senza necessità di indagini integrative non consentite, di valutare la pertinenza e la decisività di quelle risultanze” Cass. numero 15751 del 2003 Cass. numero 4405 del 2006 Cass. numero 17915 del 2010 Cass. numero 48 del 2014 . E la ricorrente incidentale si è limitata a riportare nel proprio scritto difensivo la comparsa di discussione e la comparsa di replica senza documentare gli esiti dell'attività istruttoria, dal cui esame la Corte territoriale avrebbe dovuto desumere la sussistenza dei presupposti della domanda di annullamento dell'accordo formulata da essa ricorrente sin dall'atto introduttivo del presente giudizio. Sotto altro profilo, si deve evidenziare che la Corte d'appello, nel rigettare l'appello incidentale, ha rilevato che “se è vero che il giudice di prime cure, nell'accogliere parzialmente la domanda principale del R. , dichiarava la nullità della sola clausola del patto di quota lite e, nel contempo, riteneva valido ed efficace per la residua parte l'accordo stipulato dalle parti, è, altresì, vero che lo stesso sanciva l'insussistenza dei presupposti della domanda di annullamento per vizi del consenso formulata nel giudizio tanto in conseguenza della regolare e rituale pattuizione in oggetto” osservando, conclusivamente, che “la società non ha evidenziato nel proposto gravame compiutamente l'asserito vizio posto a sostegno della propria tesi”. Orbene, la Corte d'appello ha recepito la valutazione del giudice di primo grado in ordine alla “regolarità e al la ritualità della pattuizione”, sicché il ricorso incidentale, nel denunciare un'omessa e insufficiente motivazione circa un punto essenziale e decisivo della controversia, da un lato, non contiene argomentazioni congrue, essendo la censura rivolta a dimostrare la sussistenza di uno specifico motivo di impugnazione, e quindi una violazione dell'articolo 342 cod. proc. civ. censura, questa, che avrebbe dovuto essere veicolata nel presente giudizio attraverso un motivo formulato ai sensi dell'articolo 360, numero 4, cod. proc. civ. dall'altro, si articola nella ricognizione di atti di parte quali la comparsa di discussione depositata il 2 dicembre 2006 e la relativa comparsa di replica del successivo 22 dicembre 2006 , inidonei, in quanto tali, a introdurre in questa sede una denuncia di omesso esame di un fatto decisivo, trattandosi di elaborazioni delle risultanze istruttorie effettuate dalla parte e non della riproduzione delle risultanze istruttorie che quelle circostanze avrebbero dovuto indurre a ritenere provate. 6. In conclusione, accolto il primo motivo del ricorso principale, assorbito il secondo, e rigettato il ricorso incidentale, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio, per nuovo esame, ad altra sezione della Corte d'appello di Napoli, la quale si atterrà al seguente principio di diritto “la disposizione di cui all'articolo 2233, terzo comma, cod. civ. - nel testo in vigore prima della sostituzione ad opera dell'articolo 2, comma 2-bis, del decreto-legge numero 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge numero 248 del 2006 - nel prevedere la nullità del c.d. patto di quota lite si riferisce esclusivamente all'attività svolta da professionisti abilitati al patrocinio in sede giurisdizionale e non anche all'attività amministrativo-contabile svolta dal consulente del lavoro in ambito previdenziale e finalizzata al conseguimento di sgravi contributivi”. Al giudice di rinvio è demandata altresì la regolamentazione delle spese del giudizio di cassazione. P.Q.M. La Corte accoglie il primo motivo del ricorso principale, assorbito il secondo rigetta il ricorso incidentale cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della Corte d'appello di Napoli.