Rapporto burrascoso e liti violente, moglie costretta a fuggire: legittima la condanna dell’uomo

Lo scenario coniugale, richiamato dal marito per delegittimare le accuse mossegli, non può assumere rilevanza rispetto a una serie di episodi che evidenziano le vessazioni costanti nei confronti della donna, obbligata a lasciare casa. E neanche il riferimento agli atteggiamenti difensivi e di reazione della moglie può cambiare la valutazione

Rapporto conflittuale tra moglie e marito, con litigi anche violenti. Ma questo contesto non può minare le fondamenta dell’accusa di maltrattamenti in famiglia mossa all’uomo. Soprattutto considerando le conseguenze per la donna, costretta addirittura ad abbandonare l’abitazione familiare Cassazione, sentenza numero 19084, Terza sezione Penale, depositata oggi . Carcere. Nessun dubbio per i giudici, sia di primo che di secondo grado il comportamento tenuto da un uomo, nei confronti della moglie, all’interno delle mura domestiche, supera ogni limite. Tanto da arrivare all’attestazione del reato di maltrattamenti - comprensivi di ingiurie, minacce, percosse, lesioni e violenza sessuale - e alla relativa condanna a oltre due anni di reclusione, fissata in Appello e più mite rispetto a quanto deciso dal Tribunale. Amore-odio. Per l’uomo, però, la valutazione degli episodi raccontati dalla donna non è corretta, perché, piuttosto che portare avanti la tesi dei maltrattamenti, sarebbe stato necessario ‘leggere’ meglio il rapporto coniugale. Secondo il legale dell’uomo, la semplice – si fa per dire – condotta minacciosa «reiterata», da parte di un coniuge, non conduce, automaticamente, a delineare un regime oppressivo tale da rendere l’altro coniuge «succube». Ciò a maggior ragione se – e su questo si centra il ricorso per cassazione – il rapporto, come in questo caso, tra moglie e marito è «conflittuale» e caratterizzato anche da «frequenti e violenti litigi». Per giunta, viene ancora sottolineato, vanno tenuti in considerazione pure «gli atteggiamenti difensivi o di reazione» assunti dalla donna nei confronti dell’uomo, prima di considerare come certo un regime di sopraffazione. In fuga. Ma, per i giudici di Cassazione, i fatti, così come registrati sia in primo che in secondo grado, sono cristallini, e legittimano l’idea di una «situazione di sopraffazione sistematica e programmatica» nei confronti della donna, situazione tale «da rendere particolarmente dolorosa la convivenza». Di conseguenza, il riferimento al «rapporto burrascoso della coppia» non può rendere meno gravi gli episodi contestati all’uomo, episodi che «avevano costretto» la donna «ad abbandonare l’abitazione familiare per sottrarsi alle ripetute aggressioni, morali e fisiche». Lapalissiano il «disagio» vissuto dalla donna. E allora i singoli episodi, messi in fila, permettono di evidenziare un «comportamento abituale» finalizzato a «vessare» la coniuge. Ecco perché la condanna per il reato di maltrattamenti in famiglia è da confermare.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 19 aprile – 18 maggio 2012, numero 19084 Presidente Petti – Relatore Gazzara Ritenuto in fatto Il Tribunale di Milano, con sentenza del 15/11/2010, dichiarava C.R. colpevole dei reati di ingiuria, minaccia, percosse, lesioni e violenza sessuale, commessi in danno della convivente, E.G., e lo condannava alla pena di anni 4 di reclusione, con pene accessorie. La Corte di Appello di Milano, chiamata a pronunciarsi sull’appello interposto nell’interesse del prevenuto, con sentenza del 27/5/2011, in parziale riforma del decisum di prime cure, concessa l’attenuante di cui al co. 3 dell’articolo 609 bis cod. pen, ha ridotto la pena in anni 2 e mesi 6 di reclusione. Propone ricorso per cassazione la difesa del R., con il seguente motivo – il giudice di merito ha errato nel ritenere concretizzato il delitto di cui all’articolo 572 cod. penumero la cui insussistenza era del tutto rilevabile dalle emergenze istruttorie, in particolare dalle dichiarazioni della G., con netta evidenza travisate dal decidente. Considerato in diritto Il ricorso è inammissibile. La argomentazione motivazionale, adottata dal decidente a giustificazione della ritenuta sussistenza del reato di cui all’articolo 572 cod. penumero e della ascrivibilità dello stesso in capo al prevenuto, è del tutto logica e corretta. Con la censura mossa in impugnazione si eccepisce la erronea applicazione della legge penale, in quanto nella specie non può ritenersi concretizzato il delitto di maltrattamenti, per la cui configurabilità non è sufficiente una reiterata condotta lesiva, ingiuriosa o minacciosa di uno dei due coniugi nei confronti dell’altro, ma è richiesto un quid pluris, che consiste nel sottoporre la vittima ad un regime di continue violenze fisiche o psichiche tale da renderla succube delle altrui vessazioni. Non è sufficiente, ad integrazione del reato de quo, la esistenza del dato fattuale consistente in un rapporto conflittuale tra i coniugi con frequenti e anche violenti litigi, financo quando una delle due parti in contesa risulti il più delle volte soccombente. Ad avviso del decidente, dalla istruttoria dibattimentale è emersa, in maniera chiara, la piena sussistenza del reato di maltrattamenti, che ricorre quando vi siano plurime condotte dell’agente che, unitariamente considerate, abbiano procurato una situazione di sopraffazione sistematica e programmatica della persona offesa, tale da rendere particolarmente dolorosa la stessa convivenza né occorre alcun quid pluris, né, alcuna rilevanza assume, ai fini della concretizzazione del delitto il rapporto burrascoso del rapporto di coppia, visto che le condotte poste in essere dal R. andavano ben al di là di una litigiosità tra i coniugi e avevano costretto la G. ad abbandonare l’abitazione familiare per sottrarsi alle ripetute aggressioni, morali e fisiche aggressioni consistite in ripetute minacce pugni alle, gambe e al capo schiaffi e ginocchiate allo sterno e alle gambe. Va osservato che il bene tutelato dalla norma è l’integrità psicofisica di coloro che, per età o per rapporti di tipo familiare o di affidamento si trovino nelle condizioni di subire, proprio nei contesti in cui dovrebbero ricevere maggiore protezione, condotte di prevaricazione fisica o morale che la minino. Il reato, quindi, consiste nella sottoposizione dei familiari ad una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, che costituiscono fonte di un disagio incompatibile con normali condizioni di vita i singoli episodi, che costituiscono un comportamento abituale, rendono manifesta la esistenza di un programma criminoso relativo al complesso dei fatti, animato da una volontà unitaria di vessare il soggetto passivo Cass. 4/12/2003, numero 7192 . Del pari manifestamente infondata si rivela la ulteriore censura con cui si eccepisce il travisamento della prova in relazione alla deposizione della parte offesa, in quanto è evidente che il giudice di merito ha ritenuto inconferenti, ai fini della cristallizzazione del reato, sia il clima di conflittualità esistente tra le parti, nel rapporto more uxorio dalle stesse instaurato, che gli atteggiamenti difensivi o di reazione assunti dalla donna nel corso delle, aggressioni a cui la sottoponeva il R. Va, altresì, osservato che con il ricorso si tende ad una analisi rivalutativa delle emergenze istruttorie, sulle quali a giudice di legittimità è precluso procedere a nuovo esame estimativo. Tenuto conto, poi, della sentenza del 13/6/2000, numero 186, della Corte Costituzionale, e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che il R. abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, lo stesso, a norma dell’articolo 616 cod. proc. penumero , deve, altresì, essere condannato al versamento di una somma, in favore della Cassa delle Ammende, equitativamente fissata, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di euro 1.000,00. P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore delle Cassa delle Ammende.