Il consulente fiscale che si appropria indebitamente delle somme affidategli per il pagamento delle imposte e che patteggia la pena non deve risarcire il cliente dei danni morali.
Il consulente fiscale che si appropria indebitamente delle somme affidategli per il pagamento delle imposte e che patteggia la pena non deve risarcire il cliente dei danni morali il patteggiamento non è ontologicamente qualificabile come sentenza di condanna. A stabilirlo è la Terza sezione Civile della Corte di Cassazione, con l'ordinanza numero 8421 del 12 aprile 2011.La fattispecie. Un consulente fiscale veniva accusato di appropriazione indebita invece di pagare al Fisco gli oltre 31mila euro, ricevuti da un cliente per il pagamento delle tasse, se li intascava. Proprio per questo, il professionista veniva denunciato e in sede penale finiva per patteggiare la pena. Ma il cliente non ci sta e lo cita in giudizio perché sia condannato al risarcimento dei danni patrimoniali e morali sofferti. Nei due gradi di merito, i giudici gli riconoscono un ristoro, negato poi dalla Corte di Cassazione, adita dal consulente.Il patteggiamento non è ontologicamente qualificabile come sentenza di condanna. In particolare, la S.C. precisano che non esiste alcun automatismo nella liquidazione del danno non patrimoniale posto che il patteggiamento non equivale ad una sentenza di condanna la sentenza, con cui il giudice applica all'imputato la pena da lui richiesta e concordata con il P.M., pur essendo equiparata a una pronuncia di condanna ai sensi e per gli effetti di cui all'articolo 445, comma 1, c.p.p., non è tuttavia ontologicamente qualificabile come tale, traendo origine essenzialmente da un accordo delle parti, caratterizzato, per quanto attiene l'imputato, dalla rinuncia di costui a contestare la propria responsabilità. Il patteggiamento non prova la responsabilità del consulente. Conseguentemente, non può farsi discendere dalla sentenza di patteggiamento la prova dell'ammissione di responsabilità da parte dell'imputato e ritenere che tale prova sia utilizzabile nel procedimento civile tale sentenza può solo costituire un elemento che va valutato dal giudice, ai fini del suo convincimento in merito all'esistenza del reato. Ma non è tutto.Sì alla presunzione per provare il danno non patrimoniale. Gli Ermellini precisano che il danno risarcibile ex articolo 2059 c.c. è sempre un danno conseguenza, per cui va provato, non essendo ammissibile la ritenuta esistenza di tale danno, anche se conseguente a reato, come danno in re ipsa. Ovviamente nell'ambito delle prove per l'esistenza di tale danno non patrimoniale il giudice potrà avvalersi anche della prova presuntiva.
Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza 3 marzo - 12 aprile 2011, numero 8421Presidente Finocchiaro - Relatore SegretoConsideratoche è stata depositata in cancelleria la seguente relazione, regolarmente comunicata al P.G, e notificata ai difensori Il relatore, cons. Antonio Segreto, letti gli atti depositati, osserva 1. Bonavera Luigi conveniva davanti al tribunale di Savona, sede distaccata di Albenga, Roberto Risso, in proprio e quale legale rappresentante della s.a.s. EL.DA di Risso Roberto e C., per sentirlo condannare alla restituzione della somma di Euro 31.053,164, oltre interessi e rivalutazione, assumendo che tale somma era stata indebitamente percepita dal convenuto nello svolgimento dell'attività di consulente fiscale dell'attore, mediante illecita appropriazione degli importi ricevuti per il pagamento di oneri tributari.Il Risso si costituiva nella duplice qualità, resisteva alla domanda e chiamava in causa in manleva il socio Anfosso Francesco, quale incaricato alla riscossione dai clienti.L'Anfosso chiedeva il rigetto della domanda avanzata nei suoi confronti.Il tribunale accoglieva la domanda.Proponeva appello principale Risso Roberto, in proprio e nella qualità, ed appello incidentale l'attore.La corte di appello di Genova, con sentenza depositata il 4.6.2008, in parziale accoglimento dell'appello principale e di quello incidentale, condannava il convenuto nella duplice qualità, al pagamento della somma di Euro 13.386,05, oltre Euro 2500,00 a titolo di danno morale.Riteneva la corte territoriale, per quello che ancora interessa, che la somma ricevuta in sede penale dall'attore a titolo risarcitorio non estingueva il suo credito, essendo stata ricevuta solo a titolo di acconto nel processo penale terminato con sentenza di patteggiamento che non poteva essere accolta la domanda nei confronti dell'Anfosso per la sua ingerenza nella gestione sociale, essendo ciò irrilevante nei confronti dell'attore che la rilevanza penale del fatto comportava il risarcimento del danno morale.Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione il convenuto nella duplice qualità.Resiste con controricorso la parte attrice.2.1. Con il primo motivo di ricorso la parte ricorrente lamenta l'omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio e nella specie circa la natura interamente satisfattiva del pagamento effettuato dal ricorrente in sede penale.Assume il ricorrente che erroneamente la sentenza impugnata non ha ritenuto completamente satisfattivo il pagamento effettuato in sede penale, in quanto lo era stato non a titolo parziale, ma definitivo e che la pretesa quietanza in acconto era stata rilasciata dalle parti civili al loro difensore quale esecutore della ripartizione delle somme versate dal Risso.2.2. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell'articolo 100 c.p.c, in relazione all'articolo 1965 c.c. articolo 360 numero 3 c.p.c. in ordine alla carenza di interesse ad agire in sede civile da parte del resistente in riferimento alle domande di natura risarcitoria per intervenuta transazione. Assume il ricorrente che la parte attrice aveva ricevuto senza riserve la somma offerta a titolo transattivo, con conseguente carenza di interesse all'attuale domanda.3. Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente lamenta l'omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo relativo all'asserita sussistenza della prova del credito.Assume il ricorrente che non sarebbe stata provata l'entità delle somme versate dalla parte attrice, che non risultava prenditrice degli assegni.4. I suddetti tre motivi, essendo strettamente connessi, vanno esaminati congiuntamente.Essi sono in parte manifestamente infondati ed in parte inammissibili.La corte territoriale con valutazione di merito, rientrante nei suoi esclusi poteri, e con motivazione immune da insufficienza o contraddittorietà, ha rilevato che l'assunto dell'avvenuta transazione in sede penale dell'intero danno, confligge da un lato con il raffronto aritmetico tra quanto esigibile e quanto corrisposto e che in ogni caso mancava qualsiasi manifestazione di volontà della parte attrice, creditrice, di rinunziare al residuo, avendo rilasciato solo una quietanza di acconto . Le censure mosse dal ricorrente in merito all'interpretazione letterale di tale quietanza sono inammissibili, in quanto sul punto non risulta rispettato il principio di autosufficienza del ricorso, non essendo stata trascritta la quietanza in questione.5. Qualora, con il ricorso per Cassazione, venga dedotta l'omessa od insufficiente motivazione della sentenza impugnata per l'asserita errata valutazione di risultanze processuali un documento, deposizioni testimoniali, dichiarazioni di parti, accertamenti del c.t., ecc. , è necessario, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività della risultanza non valutata o insufficientemente valutata , che il ricorrente precisi - ove occorra, mediante integrale trascrizione della medesima nel ricorso - la risultanza che egli asserisce decisiva ed erroneamente valutata o insufficientemente valutata, dato che, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, il controllo deve essere consentito alla corte di cassazione sulla base delle deduzioni contenute nell'atto, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative Cass. 23.3.2005, numero 6225 Cass. 23.1.2004, numero 1170 .6. Manifestamente infondata è anche la censura, secondo cui non risulterebbe provato il preteso credito dell'attore.La sentenza impugnata ha infatti accertato sulla base delle risultanze processuali, e segnatamente della prova testimoniale, che la parte attrice aveva effettivamente fatto i versamenti, attraverso assegni, i quali, tuttavia, non risultavano girati in favore del Risso, poiché per un accordo con la banca, dovevano apparire come incassati dai clienti stessi, senza firma di girata dei responsabili dello studio.Trattasi di accertamento fattuale che rientra negli esclusivi poteri del giudice di merito e che è immune da vizi motivazionali nei limiti rilevabili in questa sede di sindacato di legittimità. Va, infatti, osservato che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico - formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti salvo i casi tassativamente previsti dalla legge .Ne deriva, pertanto, che alla cassazione della sentenza, per vizi della motivazione, si può giungere solo quando tale vizio emerga dall'esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, che si riveli incompleto, incoerente e illogico, e non già quando il giudice del merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore e un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte Cass. 15/04/2004, numero 7201 Cass. S.U. 27/12/1997, numero 13045, Cass. 14/02/2003, numero 2222 Cass. 25.8.2003, numero 12467 Cass. 15.4.2000, numero 4916 .Nella fattispecie non si ravvisa detto vizio motivazionale.7. Con il quarto motivo di ricorso il ricorrente lamenta l'insufficiente motivazione su un punto controverso e decisivo in ordine alla responsabilità esclusiva di Francesco Anfosso, ai sensi dell'articolo 360 numero 5 c.p.c Lamenta il ricorrente che erroneamente la sentenza impugnata ha escluso la responsabilità dell'Anfosso, quale socio accomandante ex articolo 2320 c.c., mentre lo stesso andava condannato, avendo questi sottratto illecitamente denaro ai clienti della s.a.s. El.da al di fuori di ogni rapporto societario ed agendo di propria iniziativa ed a proprio vantaggio.8.11 motivo, così come proposto, è inammissibile.Per quanto apparentemente formulato sotto il profilo del vizio di motivazione a norma dell'articolo 360 numero 5 c.p.c., in effetti con tale motivo il ricorrente lamenta l'errata applicazione dell'articolo 2320 c.c. e la mancata applicazione dell'articolo 2043 c.c., dovendosi ravvisare nella fattispecie non un'ipotesi di responsabilità del socio accomandante nella gestione sociale, ma un'ipotesi di responsabilità aquiliana a carico dell'Anfosso, con conseguente sua condanna a manlevare il ricorrente per i danni risarciti ai clienti.In effetti, quindi, si tratta di un vizio rientrante nell'ipotesi di cui all'articolo 360 numero 3 c.p.c Ciò comporta che, a norma dell'articolo 366 bis c.p.c., applicabile alla specie ratione temporis, non essendo ancora in vigore la L. numero 89/2009, alla data del deposito della sentenza , il motivo doveva concludersi con un quesito di diritto, la cui mancanza nella fattispecie ne determina l'inammissibilità.9. Con il quinto motivo di ricorso il ricorrente lamenta l'omessa motivazione in ordine al risarcimento del danno non patrimoniale.Assume il ricorrente che erroneamente la sentenza impugnata l'ha condannato al risarcimento del danno non patrimoniale sul solo rilievo che esisteva un procedimento penale a carico del Risso, conclusosi con sentenza di patteggiamento ex articolo 444 c.p.p 10. Il motivo è manifestamente fondato e va accolto. Osserva questa Corte che la sentenza, con la quale il giudice applica all'imputato la pena da lui richiesta e concordata con il pubblico ministero, pur essendo equiparata a una pronuncia di condanna ai sensi e per gli effetti di cui all'articolo 445, comma primo, cod. proc. penumero , non è tuttavia ontologicamente qualificabile come tale, traendo essa origine essenzialmente da un accordo delle parti, caratterizzato, per quanto attiene l'imputato, dalla rinuncia di costui a contestare la propria responsabilità. Ne consegue che non può farsi discendere dalla sentenza di cui all'articolo 444 cod. proc. penumero la prova della ammissione di responsabilità da parte dell'imputato e ritenere che tale prova sia utilizzabile nel procedimento civile Cass. numero 6047 del 2003 . La sentenza di patteggiamento può solo costituire un elemento che va valutato dal giudice, ai fini del suo convincimento in merito all'esistenza del reato Cass. numero 23906/2007 Cass. numero 2724 del 2001 .Ne consegue che nella fattispecie va accolta la censura secondo cui non risulta motivata la ritenuta esistenza di una responsabilità penale del Risso.11. Inoltre il danno risarcibile ex articolo 2059 c.c. è sempre un danno conseguenza.Ciò comporta che esso vada provato, non essendo ammissibile la ritenuta esistenza di tale danno, anche se conseguente a reato, come danno in re ipsa. Ovviamente nell'ambito delle prove per l'esistenza di tale danno non patrimoniale il giudice potrà avvalersi anche della prova presuntiva Cass. numero 20143 del 2009 Cass. numero 7695 del 2008 . Né può farsi ricorso alla liquidazione equitativa, inidonea a surrogare l'assolvimento dell'onere della prova in ordine all'esistenza del concreto pregiudizio .Ritenutoche il Collegio condivide i motivi in fatto e diritto esposti nella relazione, che non sono superati dalle contrarie osservazioni mosse dalle parti nelle rispettive memorie in relazione ai primi 4 motivi dai ricorrenti ed in relazione al quinto dal resistente che, perciò, devono essere rigettati i primi quattro motivi di ricorso ed accolto il quinto e che va cassata, in relazione al motivo accolto, l'impugnata sentenza, con rinvio della causa, anche per le spese di questo giudizio di cassazione, alla corte di appello di Genova, in diversa composizione, che si uniformerà ai principi di diritto sopra esposti visti gli articolo 375 e 380 bis c.p.c P.Q.M.Rigetta i primi quattro motivi di ricorso ed accoglie il quinto. Cassa in relazione l'impugnata sentenza e rinvia la causa, anche per le spese di questo giudizio di cassazione, alla corte di appello di Genova in diversa composizione.