Fini a rischio attentato, ma il racconto è un falso. A rischio il giornalista: necessaria una verifica più attenta

A fine dicembre del 2010 l’editoriale del direttore di ‘Libero’, Maurizio Belpietro, che finisce sotto accusa per procurato allarme. Il Gip lo ‘salva’, ma ora la questione si riapre è doveroso fare un accertamento sulla attendibilità della fonte e sulla concretezza della notizia. Soprattutto se essa rischia di creare allarme nella popolazione e a livello di ordine pubblico.

Notizia non verificabile? Allora, non deve essere pubblicata, soprattutto se – chiariscono i giudici della Cassazione, con la sentenza numero 19367, Prima sezione Penale, depositata oggi – «idonea a suscitare allarme», innanzitutto «nella opinione pubblica». Pensiamo all’ipotesi che un’alta carica istituzionale dello Stato possa finire nel mirino della criminalità organizzata, oppure, ragionando sulla stretta attualità, all’ identikit ipotetico del presunto esecutore di un attentato Conseguenza logica è ‘pesare’, con grande attenzione, la responsabilità del giornalista. Stato sotto tiro, o no? Il ‘la’ alla vicenda è dato dalla pubblicazione, alla fine del 2010, sul quotidiano ‘Libero’, di un editoriale a firma del direttore Maurizio Belpietro, in cui quest’ultimo riporta le voci – così come riportategli, a sua volta, da una fonte, ossia Emanuele Catino – relative a un possibile attentato a Gianfranco Fini, quale presidente della Camera dei Deputati, ad opera della criminalità pugliese. Obiettivo, secondo la ricostruzione ipotizzata ma non confermata, «farne ricadere la responsabilità» sull’allora presidente del Consiglio dei Ministri, Silvio Berlusconi. Secondo la Procura della Repubblica di Milano, che si rivolge al Giudice per le indagini preliminari del locale Tribunale, ci sono tutte le premesse per un «decreto penale di condanna» per il reato di «procurato allarme» nei confronti di Catino «per avere rilasciato dichiarazioni false» nei confronti di Belpietro per avere ‘bucato’ la verifica sulla «veridicità» della notizia e sulla «attendibilità» della fonte, provocando reazioni a catena di organi di polizia giudiziaria e di autorità giudiziarie. In dubbio Ma l’enorme subbuglio venutosi a creare, dopo la pubblicazione in edicola, viene addebitato solo a Catino, quale fonte. Secondo il Gip, difatti, Belpietro andava assolto, perché, in «buona fede», era stato «strumentalizzato» da Catino, appunto, che voleva «dimostrare l’agevole manipolabilità dei mezzi di informazione». Comunque, al direttore di ‘Libero’ veniva riconosciuto, dal Gip, di aver effettuato un «controllo sulla fonte» e di avere ritenuto «il racconto astrattamente plausibile». E, ancora, a suo favore andavano collocati anche i «dubbi sulla veridicità» della notizia, espressi nell’editoriale. Complessivamente, poi, sempre secondo il Gip, andava comunque tutelato il «diritto di cronaca e di informazione», così come fissato dalla Costituzione. Verifica superficiale . Visione assolutamente non legittima, quella del Gip, secondo la Procura della Repubblica di Milano, che ricorre in Cassazione, chiedendo una rivisitazione della posizione del direttore Belpietro. Quest’ultimo, secondo la Procura, non aveva espresso concretamente la «convinzione di trovarsi dinanzi a una notizia vera», quindi era non comprensibile la presunzione della «buona fede». Piuttosto, pur di fronte a una indiscrezione che lo aveva lasciato «incredulo», aveva scelto di pubblicarla perché «utile alla linea del giornale». E, seguendo questa linea di pensiero, bisogna tener conto del criterio della «verità sostanziale» per la pubblicazione delle notizie difatti, sottolinea la Procura, «il diritto di cronaca e di informazione trova un limite quando non è possibile accertare la veridicità della notizia». Tale visione viene condivisa dai giudici della Cassazione, innanzitutto alla luce del contenuto dell’editoriale, in cui lo stesso Belpietro aveva espresso dubbi «sulla veridicità di quanto appreso» dalla fonte e aveva mostrato, così, di non essere «convinto di pubblicare una notizia vera». Di conseguenza, in questo caso, la «colpa» è «evidente», secondo i giudici – che annullano la pronuncia del Gip, a cui riaffidano gli atti –, perché «il giornalista, prima di pubblicare una notizia, ha l’obbligo di accertarne la veridicità», tanto più se «la notizia è di particolare gravità e idonea a suscitare allarme non solo nella pubblica opinione, ma anche nelle autorità preposte alla tutela dell’ordine pubblico». E tale colpa è resa ancor più grave da una semplice considerazione «una notizia non verificabile», e idonea a «suscitare allarme», «non deve essere pubblicata».

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 20 aprile – 22 maggio 2012, numero 19367 Presidente Giordano – Relatore Caiazzo Ritenuto in fatto La Procura della Repubblica di Milano esercitava l’azione penale nei confronti di C.E. e di B.M. - direttore del quotidiano LIBERO e autore dell’editoriale a propria firma pubblicato il 27.12.2010 con il titolo “SU GIANFRANCO INIZIANO A GIRARE STRANE VOCI” - chiedendo al GIP del locale Tribunale l’emissione di decreto penale di condanna in ordine al reato di cui all’articolo 5513 c.p., nei confronti dei predetti, per avere il C. rilasciato dichiarazioni false a B. in merito alla sua presunta conoscenza di un progetto di attentato che doveva essere compiuto da parte di persone collegate alla criminalità pugliese ai danni del Presidente della Camera de Deputati onorevole G.F., al fine di farne ricadere la responsabilità sul Presidente del Consiglio dei Ministri onorevole S.B., dichiarazioni rese al fine di determinarne la pubblicazione sul quotidiano suddetto, e per avere il B. effettivamente, pubblicato le notizie sopra specificate, omettendo di procedere ad alcun preventivo riscontro in ordine alla veridicità delle notizie ovvero all’attendibilità della persona che le aveva rese, e tanto meno di darne comunicazione all’autorità di pubblica sicurezza ovvero all’autorità giudiziaria, così concorrendo ad annunciare il pericolo inesistente del delitto di cui all’articolo 280 c.p. in danno di alte personalità istituzionali e politiche, così suscitando allarme presso gli organi di polizia giudiziaria e le autorità giudiziarie di Milano, Bari e Andria, le quali ultime iscrivevano procedimenti penali al fine di accertare eventuali responsabilità penali in merito al suddetto progetto di attentato, disponendo plurime attività di indagini anche al fine di prevenire il pericolo di gravissimi reati in danno delle istituzioni dello Stato. II GIP emetteva il richiesta decreto penale di condanna nei confronti di C.E. e, nei confronti di B.M., pronunciava in data 16.5.2011 sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato. Il giudice riteneva che dalle indagini fosse riemersa la buona fede del B., strumentalizzato dal C. il quale, adoperandosi per fare pubblicare la suddetta falsa notizia, aveva come scopo finale quello di dimostrare l’agevole manipolabilità dei mezzi di informazione. Il B., al fine di verificare la fondatezza della notizia di reato, aveva compiuto un controllo sulla fonte - della quale aveva preso le generalità e i recapiti - e aveva ritenuto il racconto astrattamente plausibile non si vedeva, peraltro, quali altre verifiche sarebbe stato in grado di compiere per accertare la veridicità della notizia. Inoltre, nel suo editoriale, aveva prudentemente espresso dubbi sulla veridicità o meno di quanto appreso, dicendo espressamente di non essere in grado di dire se la notizia avesse un fondamento o fosse stata inventata. La buona fede del B. risultava comprovata dall’atteggiamento ampiamente collaborativo con gli inquirenti che lo stesso aveva tenuto dopo la pubblicazione della notizia. D’altra parte, non esisteva alcun divieto di pubblicare la suddetta notizia e la pubblicazione della stessa rientrava nel diritto dì cronaca e di informazione tutelato dalla Carta costituzionale. In definitiva, il GIP riteneva che non fosse ravvisabile alcun profilo di colpa a carico dell’imputato e che lo stesso fosse incorso in errore sul fatto di reato determinato dal C., con la conseguenza che dell’illecito commesso doveva rispondere solo colui che con l’inganno aveva determinato l’imputato a diffondere la falsa notizia. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Procura della Repubblica di Milano, chiedendone l’annullamento per erronea applicazione della legge penale e mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Il ricorrente ha sostenuto che non appariva in alcun modo documentata né tanta meno certa l’asserita convinzione dell’imputato di trovarsi dinanzi a una notizia vera, e quindi non poteva ravvisarsi in lui la buona fede, intesa quale condotta determinata dall’altrui inganno. In realtà il B., tra l’alternativa di pubblicare o meno una notizia di fronte alla quale era incredulo, aveva scelto di pubblicarla essendo la stessa utile alla linea del suo giornale, accettando il rischio di commettere il reato di cui all’articolo 658 c.p Il B., tra l’altro, aveva contravvenuto alle regole contenute nell’ordinamento professionale che gli imponevano di pubblicare solo notizie nel rispetto della verità sostanziale. Il diritto di cronaca e di informazione trova un limite, quando non è possibile accertare la veridicità della notizia, altrimenti sarebbe lecito pubblicare notizie di gravi attentati in luoghi pubblici, determinando così un inutile dispiegamento delle forze di polizia. Considerato in diritto Il ricorso e fondato. Dallo stesso testo della sentenza impugnata emerge che il B. non è stato tratto in inganno dalla notizia riferitegli da C.E., essendosi interrogato, proprio all’inizio dell’editoriale incriminato, sulla veridicità o meno di quanto appreso dalla sua fonte “Girano strane voci a proposito di F., non so se abbiano fondamento se si tratti di invenzioni oppure, peggio, di trappole per trarci in inganno e poi riportata la notizia . Vero, falso? Non lo so. Chi mi ha spifferato il piano non pareva matto” cfr. pag. 6 della sentenza . Non si è messo in dubbio nel provvedimento impugnato che la notizia della preparazione di un attentato al Presidente della Camera dei Deputati fosse idonea a suscitare allarme presso l’autorità, tant’è che il richiesto decreto penale era stato emesso nei confronti del C., ma si è ritenuto che l’imputato fosse stato tratto in inganno, che non avesse alcuna possibilità di verificare la fondatezza della notizia e che, non apparendo la stessa manifestamente falsa, rientrasse nel diritto di cronaca e di informazione la facoltà di pubblicarla. La suddetta motivazione è giuridicamente errata. Come risulta dallo stesso editoriale, nella parte riportata in sentenza, l’imputato non era affatto convinto di pubblicare una notizia vera ma essendo il reato de quo una contravvenzione, anche se ne fosse stato convinto, l’errore non esclude la sussistenza dei reato se determinato per colpa. E nel caso in esame la colpa è del tutto evidente, poiché il giornalista, prima di pubblicare una notizia, ha l’obbligo professionale di accertare, la veridicità della stessa, tanto più se la notizia è di particolare gravità e idonea a suscitare allarme non solo nella pubblica opinione, ma anche nelle autorità preposte alla tutela dell’ordine pubblico. Del tutto illogica risulta la giustificazione che l’imputato non sarebbe stato in grado di compiere alcuna verifica circa la fondatezza della notizia ricevuta, poiché è di tutta evidenza che una notizia non verificabile - soprattutto se idonea a suscitare allarme presso l’autorità - non deve essere pubblicata. Pertanto, la sentenza deve essere annullata - senza rinvio per non obbligare il giudice a pronunciare una nuova sentenza - e geli atti devono essere restituiti al GIP del Tribunale di Milano per l’ulteriore corso. P. Q. M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata e dispone trasmettersi gli atti al GIP del Tribunale di Milano per l’ulteriore corso.