La questione, oggetto della presente controversia, attiene alla decorrenza, nel lavoro pubblico contrattualizzato, della prescrizione del diritto al pagamento dei crediti retributivi dei lavoratori, al fine della ricostruzione dell’anzianità di servizio in caso di stabilizzazione.
Il punto focale oggetto di lite attiene alle conseguenze economiche del riconoscimento dell'anzianità di servizio maturata dal dipendente pubblico contrattualizzato, in quanto la modalità di computo della prescrizione dei crediti retributivi, prospettata dalla PA ricorrente, svuoterebbe in gran parte di contenuto il diritto del lavoratore, nonostante la sua formale attribuzione e l'esito positivo per il lavoratore dei due gradi di merito. Data l'importanza della questione, il Collegio ritiene opportuno rimettere all'attenzione delle SS.UU. i seguenti quesiti Se la prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato debba decorrere dalla fine del rapporto di lavoro, a termine o a tempo indeterminato o, in caso di successione di rapporti, dalla cessazione dell'ultimo, come accade nel lavoro privato Se, nell'eventualità di abuso nella reiterazione di contratti a termine, seguita dalla stabilizzazione presso la stessa PA datrice di lavoro, la prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato debba decorrere dal momento di tale stabilizzazione Se la prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato, nell'ipotesi sub b , sia comunque preclusa, interrotta o sospesa ove la PA neghi il riconoscimento del servizio pregresso dei dipendenti.
Presidente Tria – Relatore Cavallari Svolgimento del processo G.O. ha esposto che era stato assunto, nella qualità di ricercatore di III livello, presso I'ISPESL, poi incorporato nell'INAIL, con contratto a tempo determinato dal 16 dicembre 1993 al 16 dicembre 1998 in seguito, era stato di nuovo assunto a tempo determinato presso il medesimo ente dal 1 luglio 1999 al 30 giugno 2000, e destinato al Dipartimento di Omissis aveva prestato ancora servizio nello stesso Dipartimento di Omissis con contratto a tempo determinato dal 29 settembre 2004 al 28 settembre 2005 e dal 5 gennaio 2006 al 4 gennaio 2007 successivamente, dal 15 febbraio 2007 al 31 dicembre 2007, era stato assegnato al Dipartimento Omissis del medesimo ente nelle more della procedura di stabilizzazione e dell'approvazione del piano triennale 2008/2010, il suo incarico a tempo determinato era stato prorogato dal 1 gennaio 2008 al 31 dicembre 2008 dal 18 febbraio 2008 era stato assunto con contratto a tempo indeterminato nel profilo di Ricercatore III livello professionale. G.O., con ricorso depositato il 20 luglio 2011 presso il Tribunale di Roma, ha chiesto che fosse accertato il suo diritto all'inquadramento nella fascia stipendiale superiore a quella di assunzione che avrebbe maturato considerando, per intero, il periodo di lavoro a tempo determinato precedente la stabilizzazione disposta ex L. numero 296 del 2006, articolo 1, comma 519, con condanna dell'INAIL a ricostruire l'anzianità di servizio ed a corrispondere le conseguenti differenze retributive maturate e maturande. In via subordinata, il ricorrente ha domandato che fosse dichiarato il suo diritto al riconoscimento della II fascia stipendiale dal 16 dicembre 1997, della III fascia dal 1 luglio 2003 e della IV fascia dal 16 dicembre 2007, con condanna dell'INAIL a pagare le differenze retributive maturate. Si rileva che l'assunzione a tempo indeterminato del ricorrente è avvenuta ai sensi della L. numero 296 del 2006, articolo 1, commi 519 e 520, che ha consentito la stabilizzazione a domanda, fra l'altro, dei ricercatori, tecnologi, tecnici e personale impiegato in attività di ricerca che fossero in servizio a tempo determinato da almeno tre anni, anche non continuativi, o che avessero conseguito tale requisito in virtù di contratti stipulati anteriormente alla data del 29 settembre 2006 o che fossero stati in servizio per almeno tre anni, anche non continuativi, nel quinquennio anteriore alla data di entrata in vigore della legge, che ne facessero istanza, purché fossero stati assunti mediante procedure selettive di natura concorsuale o previste da norme legislative. Il Tribunale di Roma, nel contraddittorio delle parti, con sentenza numero 3811-2013, ha accolto il ricorso, rigettando l'eccezione di prescrizione sul presupposto che il relativo dies a quo non potesse che decorrere dal momento della stabilizzazione del rapporto di lavoro in quanto durante la pendenza dei rapporti di lavoro a termine il dipendente non ha la certezza della loro continuazione e si trova in una condizione di metus nei confronti del datore di lavoro, tipica dei rapporti senza stabilità. In particolare, ha dichiarato il diritto del ricorrente a vedersi considerato, ai fini dell'anzianità lavorativa e della maturazione dei conseguenti aumenti stipendiali, l'intero periodo di lavoro prestato come dipendente a tempo determinato, prima della stabilizzazione del rapporto di lavoro, con condanna dell'INAIL alla ricostruzione della carriera di G.O. e al pagamento, in favore del dipendente, degli aumenti stipendiali maturati in conseguenza del richiamato riconoscimento dell'anzianità lavorativa pregressa . L'INAIL ha proposto appello che la Corte d'appello di Roma, nel contraddittorio delle parti, con sentenza numero 2850-2016, ha rigettato, confermando così il dispositivo di I grado, che aveva deciso in ordine ai crediti retributivi vantati dal ricorrente in seguito al riconoscimento dell'anzianità lavorativa maturata prima della stabilizzazione del rapporto di lavoro e, quindi, in relazione pure a quelli inerenti al periodo di lavoro prestato come dipendente a tempo determinato . Con riguardo all'eccezione di prescrizione sollevata dalla P.A., la corte territoriale ha dato importanza non al metus del lavoratore, come il Tribunale di Roma, ma, al contrario, alla sua stabilizzazione, rilevando che il diritto azionato da G.O. avrebbe potuto essere esercitato solo dal 18 febbraio 2008, data di tale stabilizzazione, poiché l'inadempimento lamentato era l'omesso riconoscimento all'atto della detta stabilizzazione dell'anzianità pregressa, con la conseguenza che la dedotta prescrizione quinquennale non era ancora decorsa al momento dell'instaurazione del giudizio 2011 . L'INAIL ha proposto ricorso per cassazione sulla base di un motivo concernente l'individuazione del giorno di decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi vantati da G.O., chiedendo che detta prescrizione fosse dichiarata con riferimento ai crediti retributivi maturati dal Dott. G., nel corso dei rapporti di lavoro a termine instaurati con l'ISPESL e dotati di stabilità reale, anteriori alla data del 17.09.2006 od, in subordine, alla data del 20 luglio 2006 . G.O. si è difeso con controricorso. Parte ricorrente ha depositato memorie. Motivi della decisione 1 La controversia. Con un unico motivo parte ricorrente lamenta la violazione degli articolo 2941,2942 e 2948, numero 4, c.c. in quanto la corte territoriale avrebbe errato nell'affermare che il lavoratore non avrebbe potuto esercitare il diritto alle differenze retributive prima della stabilizzazione. Infatti, dalla documentazione agli atti emergeva che fra le parti erano intercorsi dei rapporti di lavoro a tempo determinato del tutto regolari, dotati di stabilità reale, con la conseguenza che la prescrizione del diritto menzionato sarebbe iniziata a decorrere da prima della regolarizzazione. L'INAIL ha criticato l'affermazione della Corte d'appello di Roma secondo cui l'eccezione di prescrizione de qua sarebbe infondata perché ciò che lamenterebbe il Dott. G. sarebbe l'azzeramento dell'anzianità maturata con i contratti a tempo determinato all'atto dell'assunzione intervenuta nel febbraio 2008 in conseguenza del processo di stabilizzazione , in quanto, al contrario, tale domanda, di mero accertamento, era chiaramente diretta alla condanna della medesima INAIL a corrispondere le differenze retributive maturate nel corso dei rapporti a tempo determinato, a seguito della ricostruzione della carriera, come espressamente richiesto nelle conclusioni nel ricorso di I grado . La questione oggetto della presente controversia attiene alla decorrenza, nel lavoro pubblico contrattualizzato, della prescrizione del diritto al pagamento dei crediti retributivi dei lavoratori al fine della ricostruzione dell'anzianità di servizio in caso di stabilizzazione. Al contrario, non è in discussione, perché ormai coperto dal giudicato interno, il diritto del lavoratore al riconoscimento dell'anzianità di servizio maturata prima della stabilizzazione. Siffatta anzianità, come affermato dalla giurisprudenza consolidata della S.C. Cass., Sez. L, numero 33226 del 10 novembre 2022 Cass., Sez. L, numero 28271 del 28 settembre 2022 non è uno status o un elemento costitutivo di uno status del lavoratore subordinato, né un distinto bene della vita oggetto di un autonomo diritto, rappresentando piuttosto la dimensione temporale del rapporto di lavoro di cui integra il presupposto di fatto di specifici diritti quali quelli all'indennità di fine rapporto, alla retribuzione, al risarcimento del danno per omissione contributiva, agli scatti di anzianità essa, pertanto, non può essere oggetto di atti di disposizione, traslativi o abdicativi, ed è insuscettibile di autonoma prescrizione distinta, come tale, da quella dei diritti, a contenuto patrimoniale. Il regime della detta prescrizione è stato interessato, in via generale, nel settore del pubblico impiego, dal 1942 ad oggi, da alcune modifiche di derivazione tanto giurisprudenziale quanto legislativa. 2 L'oggetto del contendere. Il punto focale oggetto di lite attiene alle conseguenze economiche del riconoscimento dell'anzianità di servizio maturata dal dipendente pubblico contrattualizzato, in quanto la modalità di computo della prescrizione dei crediti retributivi, prospettata dalla P.A. ricorrente, svuoterebbe in gran parte di contenuto il diritto del lavoratore, nonostante la sua formale attribuzione e l'esito positivo per il lavoratore dei due gradi di merito. 3 La giurisprudenza della Corte costituzionale. a La Corte costituzionale si è occupata della questione in esame con delle importanti sentenze, che qui vengono in rilievo, in un periodo antecedente alle riforme le quali, a partire dal D.Lgs. numero 29 del 1993, hanno caratterizzato il pubblico impiego, all'epoca ancora inteso solo come rapporto non contrattuale di servizio sotto l'autorità della P.A In primis, la pronuncia numero 63 del 10 giugno 1966 della Corte costituzionale che, esclusa l'imprescrittibilità ex Cost., articolo 36, comma 1, del diritto del lavoratore alla retribuzione con l'eccezione del diritto alla retribuzione sufficiente, imprescrittibile ex lege , ha affermato che il diritto alle prestazioni salariali dovute dal datore di lavoro ha natura patrimoniale e, pur se disponibile, non è rinunciabile dal lavoratore, come quello al riposo settimanale e alle ferie, irrinunciabili in base alla Cost., articolo 36, comma 3, E' così preclusa la decorrenza della prescrizione durante il rapporto di lavoro atteso che, quando questo rapporto non ha la resistenza tipica del pubblico impiego , il timore del licenziamento può spingere il lavoratore a rinunciare a parte dei suoi diritti. Pertanto, visto che la prescrizione, ove non mascheri una rinuncia, ne produce lo stesso effetto abdicativo escluso dalla Cost., articolo 36, comma 3 , la Corte costituzionale ha dichiarato, in relazione alla Cost., articolo 36 e 2113 c.c., l'illegittimità costituzionale degli articolo 2948, numero 4, 2955, numero 2, 2956, numero 1, del Codice civile limitatamente alla parte in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro . La decisione valorizza la situazione psicologica del dipendente, che va tutelato perché contraente più debole contro la sua propria debolezza di soggetto interessato alla conservazione del rapporto . I due profili, la situazione di debolezza e il timore del licenziamento, qualificano l'inerzia del lavoratore come una temporanea incapacità a disporre, cui consegue una imprescrittibilità temporanea del diritto alla retribuzione, ricondotta al principio della irrinunciabilità del diritto alla retribuzione ed alla funzione di sostentamento della retribuzione proporzionata e sufficiente. b Successivamente, la sentenza della Corte costituzionale numero 143 del 20 novembre 1969, riprendendo la motivazione della numero 63 del 1966, ha riaffermato che la forza di resistenza del rapporto di impiego pubblico esclude il collegamento tra il timore del licenziamento e l'effetto abdicativo implicito nel decorso della prescrizione. La sentenza aggiunge, però, che spetta al giudice di merito stabilire, nei singoli casi, se è stato posto in essere un rapporto di pubblico impiego, o se lo Stato o l'ente pubblico si è assoggettato alla disciplina di diritto comune del rapporto di lavoro . La sentenza numero 143 del 1969 ha definito i caratteri della c.d. resistenza inerente ai rapporti di pubblico impiego, la quale e' data da una disciplina che normalmente assicura la stabilità del rapporto o delle garanzie di rimedi giurisdizionali contro la illegittima risoluzione di esso, che escludono che il timore del licenziamento possa indurre l'impiegato a rinunciare . La decisione ha ritenuto questa caratteristica presente pure nei rapporti di pubblico impiego temporanei quali all'epoca ipotizzabili , essendo previsti anche qui rimedi giurisdizionali contro l'arbitraria risoluzione anticipata, mentre la non rinnovazione del rapporto si configura quale evento con carattere di normalità. c La stessa ratio è alla base della sentenza numero 86 del 29 aprile 1971 della Corte costituzionale che, con pronuncia di inammissibilità per difetto di rilevanza della questione sollevata, ha negato l'applicabilità della norma sulla non decorrenza della prescrizione durante il rapporto di lavoro anche a quello con gli enti pubblici economici, benché tali rapporti siano regolati, ex articolo 2093 c.c., dalla disciplina civilistica del rapporto di lavoro nell'impresa ossia dagli articolo 2948, numero 4, 2955, numero 2, e 2956, numero 1, c.c. dichiarati illegittimi dalla sentenza numero 63 del 1966 , dovendosi dare rilievo alla natura pubblica del datore di lavoro. d La sentenza della Corte costituzionale numero 174 del 21 dicembre 1972 ha esteso, poi, richiamando la motivazione della decisione numero 63 del 1966 e, quindi, il principio della non decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi durante il rapporto, l'ambito dei rapporti caratterizzati dalla c.d. resistenza al timore del licenziamento non solo quelli di impiego pubblico o con enti pubblici economici, ma tutti i rapporti privati di lavoro, regolati dalla L. numero 604 del 15 luglio 1966 e dalla L. numero 300 del 1970, articolo 18, perché caratterizzati da una disciplina che assicuri normalmente la stabilità del rapporto e fornisca le garanzie di appositi rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione in quanto una vera stabilità non si assicura se all'annullamento dell'avvenuto licenziamento non si faccia seguire la completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare . La sentenza numero 174 del 1972 ha affermato che, dopo le citate innovazioni legislative, e' venuto meno il fondamento giuridico su cui poggiava la parziale invalidazione statuita con la sentenza numero 63 del 1966 , producendo una norma che, sul presupposto dell'analogia tra rapporti di impiego pubblico e privato, dopo la stabilizzazione introdotta dalla L. numero 300 del 1970, sicché sulla base del collegamento tra decorrenza immediata della prescrizione e forza di resistenza al potere di licenziamento, ha dichiarato non applicabile alla categoria dei rapporti stabili la norma che differisce la prescrizione breve e presuntiva alla cessazione del rapporto. e In seguito, la Corte costituzionale, investita della questione di legittimità dell'articolo 2948 numero 4 c.c. sotto il profilo della compatibilità del dispositivo della sentenza numero 63 del 1966 con l'interpretazione restrittiva enunciata nella pronuncia numero 174 del 1972, con la sentenza numero 40 del 1 giugno 1979 ed altre decisioni del 1979 ha dichiarato inammissibile detta questione perché non era suo compito la interpretazione con autorità vincolante per gli altri giudici della sentenza numero 63-1966 e delle successive sentenze , rimettendo il compito di tale interpretazione, in relazione alle disposizioni codicistiche dichiarate parzialmente illegittime, agli operatori pratici , che a vari livelli erano chiamati ad intenderla e ad applicarla , alla stregua dei criteri dettati nell'articolo 12 preleggi nello stesso senso la sentenza numero 13 del 29 gennaio 1981 . 4 La giurisprudenza della Corte di cassazione in materia di prescrizione dei crediti retributivi. La problematica della non decorrenza nel corso del rapporto del termine di prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori è divenuta, quindi, appannaggio esclusivo della giurisprudenza della Suprema Corte, che ha recepito l'integrazione della norma introdotta dalla decisione numero 63 del 1966 operata dalla pronuncia numero 174 del 1972 della Corte costituzionale, rendendola diritto vivente. La S.C. ha chiarito che la stabilità o resistenza del rapporto di lavoro capace di giustificare la decorrenza immediata della prescrizione si ha in presenza di una disciplina che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato del datore di lavoro, sul piano sostanziale, subordini la legittimità e la efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo. Il che, se per la generalità dei casi, coincide attualmente con l'ambito di operatività della L. 20 maggio 1970, n 300 dati gli effetti attribuiti, all'epoca, dall'articolo 18 all'ordine di riassunzione, ben più incisivi di quelli previsti dalla L. 15 luglio 1966, n 604, articolo 8 , può anche realizzarsi ogni qual volta siano applicabili le norme del pubblico impiego o leggi speciali o specifiche pattuizioni che diano al prestatore d'opera una tutela di pari intensità Cass., Sez. 2, numero 1256 dell'11. maggio 1973 e, soprattutto, Cass., SU, numero 1268 del 12 aprile 1976 . La Corte di cassazione ha pure affermato che il principio della non decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro durante lo svolgimento del rapporto di lavoro opera con riferimento alla durata di un unico rapporto esso, pertanto, non è applicabile rispetto ad un arco di tempo comprendente rapporti plurimi stagionali intercorsi tra le stesse parti, ciascuno dei quali si sia esaurito col compimento dell'attività lavorativa per la quale era stato instaurato, con la conseguenza che, durante lo svolgimento di ognuno di tali rapporti decorre la prescrizione relativa ai diritti derivanti dai precedenti e già cessati rapporti di lavoro Cass., Sez. L, numero 3530 del 12 luglio 1978 . In seguito, Cass., SU, numero 575 del 16 gennaio 2003 ha definitivamente sancito il principio così massimato Nel caso che tra le stesse parti si succedano due o più contratti di lavoro a termine, ciascuno dei quali legittimo ed efficace, il termine prescrizionale dei crediti retributivi, di cui agli articolo 2948, numero 4, 2955, numero 2, e 2956, numero 1, c.c., inizia a decorrere, per i crediti che sorgono nel corso del rapporto lavorativo dal giorno della loro insorgenza e, per quelli che si maturano alla cessazione del rapporto, a partire da tale momento, dovendo - ai fini della decorrenza della prescrizione - i crediti scaturenti da ciascun contratto considerarsi autonomamente e distintamente da quelli derivanti dagli altri e non potendo assumere alcuna efficacia sospensiva della prescrizione gli intervalli di tempo correnti tra un rapporto lavorativo e quello successivo, stante la tassatività della elencazione delle cause sospensive previste dagli articolo 2941 e 2942 c.c., e la conseguente impossibilità di estendere tali cause al di là delle fattispecie da quest'ultime norme espressamente previste . Cass., SU, numero 575 del 16 gennaio 2003, si fonda, innanzitutto, sulla condivisione della motivazione della decisione della Corte costituzionale numero 143 del 1969, la quale ha escluso l'applicabilità dei principi di cui alla sua sentenza numero 63 del 1966 al rapporto di pubblico impiego per la particolare forza di resistenza che lo caratterizza, e perché, avendo le assunzioni temporanee carattere precario, la rinnovazione del relativo rapporto non presenta carattere di normalità , con l'effetto che, nel contratto a termine, posto che il lavoratore ha diritto solo a che il rapporto sia mantenuto in vita sino alla scadenza concordata, non è configurabile un metus del lavoratore che giustifichi una decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi come quella prevista per il lavoro a tempo indeterminato non assistito dal regime di stabilità reale. Le Sezioni Unite del 2003 hanno precisato, però, come al quadro ricostruttivo esposto siano estranee le fattispecie nelle quali i singoli negozi a termine in sé e per sé siano illegittimi nonché quelle ove i contratti, pur singolarmente legittimi .vengano a risultare collegati, nella loro pluralità, dall'intento di eludere le disposizioni di legge sul contratto a termine . In questi casi si verificano, seppure per una fictio iuris, i presupposti esistenza di un unico rapporto lavorativo a tempo indeterminato e metus che portano ad escludere la decorrenza della prescrizione sino alla cessazione del rapporto lavorativo, dovendo la situazione psicologica del lavoratore essere valutata in concreto sulla base, cioè, della realtà di fatto che ha influenzato le sua determinazioni e che ha determinato uno stato di costante soggezione nei confronti del datore di lavoro per il perdurante metus di vedere interrotta la continuazione della serie dei rapporti di lavoro . Questo indirizzo giurisprudenziale è stato poi costantemente seguito dalla giurisprudenza di legittimità. Di recente, Cass., Sez. L, numero 10219 del 28 maggio 2020, ha stabilito che, nell'impiego pubblico contrattualizzato, la domanda con cui il dipendente assunto a tempo determinato, invocando il principio di non discriminazione nelle condizioni di impiego, rivendica il medesimo trattamento retributivo previsto per l'assunto a tempo indeterminato soggiace al termine quinquennale di prescrizione previsto dall'articolo 2948, nnumero 4 e 5, c.c., il quale decorre, anche in caso di illegittimità del termine apposto ai contratti, per i crediti che sorgono nel corso del rapporto lavorativo dal giorno della loro insorgenza, e per quelli che si maturano alla cessazione del rapporto a partire da tale momento. E' una decisione che, in primo luogo, esclude l'applicabilità al pubblico impiego contrattualizzato della disciplina speciale dettata dal R.D.L. numero 295 del 1939, articolo 2, nel testo modificato dalla L. numero 428 del 1985, articolo 2 e tuttora vigente per il personale in regime di diritto pubblico, proprio in ragione della natura speciale della norma. Quindi, rinviene la sua ratio decidendi nella sentenza delle Sezioni Unite numero 575 del 2003 e nell'affermazione che, nell'ambito dell'impiego pubblico contrattualizzato, nel quale opera il divieto posto dal D.Lgs. numero 165 del 2001, articolo 36, anche nell'ipotesi di contratti a termine affetti da nullità debba valere la medesima regola fissata per i contratti validi ed efficaci, perché, essendo impedita per legge la conversione in un unico rapporto a tempo indeterminato, non è riscontrabile la condizione, valorizzata dalla Corte costituzionale ai fini della parziale dichiarazione di incostituzionalità e ritenuta imprescindibile dalle Sezioni Unite, ossia il timore del recesso, cioè del licenziamento, che spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinunzia a una parte dei propri diritti . Nella stessa direzione si è mossa Cass., Sez. L, numero 35676 del 19 novembre 2021, per la quale, in tema di pubblico impiego contrattualizzato, nell'ipotesi di contratto di lavoro formalmente autonomo, del quale sia successivamente accertata la natura subordinata, la prescrizione dei crediti retributivi decorre durante il rapporto, attesa la mancanza di ogni aspettativa del lavoratore alla stabilità dell'impiego e la conseguente inconfigurabilità di un metus in ordine alla mancata continuazione del rapporto suscettibile di tutela. La ratio decidendi di questa pronuncia è da rinvenire nella sentenza della Corte costituzionale numero 143 del 20 novembre 1969 e nella considerazione che La privatizzazione non ha comportato una totale identificazione tra lavoro pubblico privatizzato e lavoro privato. In particolare, permangono nel lavoro pubblico privatizzato quelle peculiarità individuate dalla Corte Costituzionale, in relazione al previgente regime dell'impiego pubblico, come giustificative di un differente regime della prescrizione sia in punto di stabilità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato D.Lgs. numero 165 del 2001, articolo 51, comma 2 e, alla attualità, D.Lgs. numero 165 del 2001, articolo 63, comma 2 , che in punto di eccezionalità del lavoro a termine secondo la disciplina speciale del D.Lgs. numero 165 del 2001, articolo 36 . In precedenza, Cass., Sez. L, numero 20918 del 5 agosto 2019, richiamando Cass., Sez. 6-L, numero 8996 dell'11 aprile 2018, aveva confermato il principio affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza numero 575 del 2003, facendo riferimento alla motivazione della stessa con analoghi esito e ratio decidendi cfr. Cass., Sez. 6-L, numero 12161 del 16 maggio 2017 . 5 I profili problematici. L'orientamento tradizionale espresso dalla giurisprudenza menzionata, per il quale la prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori il cui rapporto sia assistito dalla c.d. stabilità reale quale originariamente prevista e dei lavoratori a tempo determinato nel pubblico impiego decorre in costanza di rapporto, merita di essere approfondito. Infatti, esso si è formato principalmente negli anni ‘60 e ‘70, in seguito soprattutto alle sentenze della Corte costituzionale numero 63 del 1966, numero 143 del 1969 e numero 174 del 1972, ed è stato sviluppato dalla Corte di cassazione in particolare con le decisioni delle Sezioni Unite numero 1268 del 1976 e numero 575 del 2003. Il tempo ha influito, però, sui presupposti di tali decisioni. Innanzitutto, deve tenersi conto della notevole evoluzione del contesto socioeconomico, che ha reso il lavoro sempre più precario e meno garantito, persino nel settore del pubblico impiego. Le decisioni della Corte costituzionale numero 143 del 1969 e delle Sezioni Unite numero 575 del 2003 si fondano espressamente, per affermare la decorrenza della prescrizione de qua in costanza di rapporto, sull'assunto che, nei contratti a termine, la non rinnovazione del rapporto si configura quale evento avente carattere di normalità , il che escluderebbe il metus. Oggi, al contrario, tale rinnovazione è la prassi, nell'impiego sia privato sia pubblico, e rappresenta spesso l'unico canale per giungere, dopo anni, ad un rapporto a tempo indeterminato con lo stesso datore. Ne consegue che è impensabile escludere ormai, nei contratti a tempo determinato, l'esistenza di un metus del lavoratore sull'assunto che egli non ha aspettative in ordine alla conclusione di un contratto a tempo indeterminato. Lo stesso pubblico impiego è cambiato. Il lavoro pubblico del quale parla la Corte costituzionale nei precedenti citati è un impiego inteso quale rapporto non contrattuale di servizio sotto l'autorità della P.A. in un'epoca nella quale le assunzioni temporanee nel pubblico impiego erano, in linea di principio, escluse . La maggior parte del pubblico impiego e', però, da anni contrattualizzato, ma le decisioni della Corte costituzionale non potevano tenere conto di ciò. Allo stesso modo, le Sezioni Unite nella sentenza numero 575 del 2003 si limitano a reiterare le affermazioni della Corte costituzionale, senza affrontare le conseguenze della modifica della regolamentazione del pubblico impiego ragionevolmente perché all'epoca troppo recente , e identico atteggiamento è palesato da quasi tutte le decisioni successive. Praticamente nessuna affronta la questione posta dal disposto del D.Lgs. numero 165 del 2001, articolo 2, comma 2, per il quale I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto . In linea di principio, quindi, il rapporto di pubblico impiego contrattualizzato è regolato in maniera paritaria rispetto al lavoro privato per tutto quel che non è previsto nel suddetto D.Lgs. numero 165 del 2001 e le eccezioni a tale principio devono essere poste specificamente per legge e, coerentemente, vanno interpretate in senso formale. Il rilievo di siffatta questione è suffragato dalla sentenza numero 150 del 14 luglio 2015 della Corte costituzionale che ha precisato, richiamando la sentenza numero 359 del 30 luglio 1993, che la riforma del lavoro pubblico, introdotta con il D.Lgs. numero 29 del 1993, ha profondamente innovato la disciplina in precedenza posta dalla legge quadro sul pubblico impiego L. 29 marzo 1983, numero 93 , ricostruendo l'intera materia intorno ai nuovi principi della privatizzazione e della contrattualizzazione enunciati nella L. numero 421 del 1992, articolo 2, comma 1, lett. a , e attuati, nel decreto numero 29 del 1993, mediante l'inquadramento dei rapporti d'impiego pubblico nella cornice del diritto civile e nella contrattazione collettiva e individuale sentenza numero 359 del 1993 . Da ciò si evince che non vi sono principi costituzionali che direttamente impediscono di equiparare il regime della prescrizione tra lavoro privato e pubblico contrattualizzato, rilevando sempre, in entrambi i settori, i principi di uguaglianza da leggere alla luce anche della giurisprudenza UE e quelli di imparzialità e buon andamento della P.A. che, per giurisprudenza consolidata, nel lavoro pubblico contrattualizzato, è tenuta al rispetto dei criteri generali di correttezza e buona fede articolo 1175 e 1375 c.c. , applicabili ex Cost., articolo 97 fra le tante, Cass., SU, numero 21671 del 23 settembre 2013 . Al riguardo, va considerata la recente pronuncia della Sez. L della S.C., numero 26246 del 6 settembre 2022, per la quale, nel lavoro privato, il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, come modulato per effetto della L. numero 92 del 2012 e del D.Lgs. numero 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità, sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. numero 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli articolo 2948, numero 4, e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro. Pertanto, la duplice sopravvenienza normativa rappresentata dall'emanazione prima della L. numero 92 del 2012 c.d. Legge Fornero e poi del D.Lgs. numero 23 del 2015 c.d. riforma del Jobs Act ha di fatto inciso anche sul tema di cui trattasi, portando ormai ad escludere, per i lavoratori privati, il regime della stabilità reale, con l'effetto che il termine di prescrizione oggetto di causa torna a decorrere per loro dalla fine del rapporto, essendo venuta meno la tutela fornita dalla L. numero 300 del 1970, in termini di stabilità reale generalizzata. In questo modo, è caduto un altro dei presupposti sui quali erano state fondate le decisioni della Corte costituzionale del 1969 e del 1972 e, quindi, le pronunce delle Sezioni Unite numero 1268 del 1976 e numero 575 del 2003. Diviene così sempre più problematico giustificare un sistema che individua una differente decorrenza della prescrizione degli identici crediti retributivi di diversi lavoratori che svolgano le stesse mansioni e il cui rapporto di lavoro sia egualmente costituito con la stipula di un contratto individuale e non attraverso un atto di nomina, a seconda semplicemente della loro dipendenza da un datore privato piuttosto che pubblico, tanto più alla luce di un sistema normativo che, ai sensi del D.Lgs. numero 165 del 2001, articolo 2, comma 2, stabilisce che il c.d. pubblico impiego privatizzato sia regolato dalla disciplina di diritto comune salve le eccezioni espresse. Come si è detto, questo profilo è affrontato da Cass., Sez. L, numero 35676 del 19 novembre 2021, per la quale permangono nel lavoro pubblico privatizzato quelle peculiarità individuate dalla Corte Costituzionale, in relazione al previgente regime dell'impiego pubblico, come giustificative di un differente regime della prescrizione sia in punto di stabilità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato D.Lgs. numero 165 del 2001, articolo 51, comma 2, e, alla attualità, D.Lgs. numero 165 del 2001, articolo 63, comma 2 , che in punto di eccezionalità del lavoro a termine secondo la disciplina speciale del D.Lgs. numero 165 del 2001, articolo 36 . Ma si tratta di una decisione che, oltre a scontare lo stretto collegamento con la pronuncia della Corte costituzionale numero 143 del 20 novembre 1969 e, quindi, i limiti della stessa, non tiene adeguatamente conto, per ragioni temporali, delle modifiche apportate alla normativa citata nel 2017 sopravvenuta rispetto all'instaurazione del giudizio . Infatti, il regime sanzionatorio introdotto dal D.Lgs. numero 27 del 2017 all'atto della interpolazione del D.Lgs. numero 165 del 2001, articolo 63, comma 2, prevede che alla declaratoria giudiziale di invalidità del licenziamento segua la reintegrazione nel posto di lavoro e il pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, e comunque non superiore alle ventiquattro mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative. E' una disposizione che omette qualunque richiamo all'applicabilità della L. numero 300 del 1970, articolo 18, sia pure nella sua originaria formulazione, rendendolo del tutto estraneo al rapporto di lavoro, e introduce una disciplina che pare non più idonea a garantire il completo ripristino della posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare, stante l'imposizione di un massimale in luogo del risarcimento in misura piena del danno. Non può ignorarsi come l'intera ricostruzione teorica delle decisioni della Corte costituzionale almeno dal 1972 in poi e delle Sezioni Unite fino al 2003 si fondi sull'assunto che sia la c.d. stabilità reale del rapporto di lavoro, sia pubblico sia privato, a giustificare un decorso immediato della prescrizione dei crediti retributivi. La sentenza della Corte costituzionale numero 174 del 1972 è esplicita nel sostenere che una vera stabilità non si assicura se all'annullamento dell'avvenuto licenziamento non si faccia seguire la completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare . Dopo la riforma del 2017 anche nel lavoro pubblico tale reintegrazione non ha più applicazione generale. Inoltre, dal 22 giugno 2017 ha subito rilevanti modifiche anche il D.Lgs. numero 165 del 2001, articolo 36, concernente la possibilità per le Amministrazioni pubbliche di stipulare contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, contratti di formazione e lavoro e contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato, nonché di avvalersi delle forme contrattuali flessibili previste dal codice civile e dalle altre leggi sui rapporti di lavoro nell'impresa. Pertanto, sono state innovate proprio le disposizioni del D.Lgs. numero 165 del 2001 riportate nella motivazione della citata Cass., Sez. L, numero 35676 del 19 novembre 2021 a sostegno delle proprie conclusioni ed indicate come prova del fatto che la privatizzazione non abbia comportato una totale identificazione tra lavoro pubblico privatizzato e lavoro privato e, addirittura, della permanenza nel lavoro pubblico privatizzato delle peculiarità individuate dalla Corte costituzionale, in relazione al previgente regime dell'impiego pubblico, oltre 50 anni prima. Non può sottovalutarsi, poi, che la semplice c.d. stabilità reale non costituisce valido strumento di difesa contro la pluralità di strumenti ritorsivi nella disponibilità del datore di lavoro si pensi alle fattispecie di mobbing e straining . Merita riflessioni anche la citata Cass., Sez. L, numero 10219 del 28 maggio 2020. Innanzitutto, essa si fonda pur sempre sulla decisione delle Sezioni Unite numero 575 del 2003 e, quindi, risente dei limiti della stessa. Inoltre, non sembra decisiva l'affermazione che, nell'ambito dell'impiego pubblico contrattualizzato, l'operatività del divieto posto dal D.Lgs. numero 165 del 2001, articolo 36, impedendo la conversione in un rapporto a tempo indeterminato dei contratti a termine illegittimi, escluda il timore del recesso, cioè del licenziamento, che spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinunzia a una parte dei propri diritti . Infatti, seguendo questo ragionamento, il D.Lgs. numero 165 del 2001, articolo 36, comma 5, accentuerebbe, nell'ambito della tripartizione esistente fra pubblico impiego non contrattualizzato tuttora disciplinato dal R.D.L. numero 295 del 1939, articolo 2, nel testo modificato dalla L. numero 428 del 1985, articolo 2, come richiamato da Cass., Sez. L, numero 10219 del 28 maggio 2020 , pubblico impiego contrattualizzato e lavoro privato, la differenziazione della disciplina della prescrizione fra l'ambito del lavoro pubblico contrattualizzato e quello del lavoro privato del quale si è di recente occupata la già menzionata decisione della Sez. L della S.C., numero 26246 del 6 settembre 2022, che ha negato il decorso della prescrizione dei crediti retributivi in costanza di un rapporto a tempo indeterminato . Le conclusioni di Cass., Sez. L, numero 10219 del 28 maggio 2020, andrebbero forse riesaminate anche alla luce di quanto deciso dall'importante sentenza Cass., SU, numero 5072 del 15 marzo 2016, che, non a caso, si è occupata dell'abusiva reiterazione di contratti a termine nel pubblico impiego privatizzato e, pur sul presupposto della legittimità del divieto di conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato, ha definito la misura del c.d. danno comunitario risarcibile in questi casi ad opera della P.A., in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE ordinanza 12 dicembre 2013, C-50/13, Papalia ma anche sentenza 26 novembre 2014, C-22/13 ss., Mascolo sentenza 7 settembre 2006, C-53/04, Marrosu e Sardino . Le Sezioni Unite nel 2016 hanno affermato che la compatibilità comunitaria del regime differenziato per i dipendenti a termine delle pubbliche amministrazioni quanto alla preclusione che non consente la citata conversione deve rispettare il principio dell'equivalenza, dell'effettività e della dissuasività della reazione dell'ordinamento interno a situazioni di abuso nel ricorso al contratto a termine e della tutela approntata in favore del dipendente pubblico. Nella sentenza è stato sottolineato che, dalla lettura delle decisioni della Corte di Giustizia menzionate, si desume che il disposto del D.Lgs. numero 165 del 2001, articolo 36, comma 5, per il quale la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni non possa generare conseguenze ulteriori rispetto a quello che è il suo contenuto, ovvero semplicemente precludere la costituzione di un rapporto a tempo indeterminato, senza, però, eliminare o rendere di difficile tutela le ulteriori pretese del lavoratore a termine ma queste riflessioni possono estendersi a tutte le ipotesi di contratti di lavoro flessibili con la P.A. , fra cui non possono non considerarsi i suoi crediti retributivi cfr. CGUE, sentenza 7 settembre 2006, C-53/04, Marrosu e Sardino . La situazione diventa ancora più complessa nei casi di rapporti a termine con la P.A., abusivamente reiterati nel tempo, che si traducano nell'instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato a seguito di una procedura di stabilizzazione, come nella controversia de qua. Infatti, Cass., SU, numero 575 del 2003, come si è detto, ha chiaramente affermato che la decorrenza delle prescrizione dei crediti retribuitivi in costanza di rapporto non è predicabile in quelle fattispecie nella quali i contratti, pur singolarmente legittimi nella loro regolamentazione formale nonché nella enunciazione dei motivi sottesi alle singole stipulazioni , vengano a risultare collegati, nella loro pluralità, dall'intento di eludere le disposizioni di legge sul contratto a termine perché in questi casi si opera una conversione dei diversi contratti in un unico rapporto a tempo indeterminato sicché la natura dichiarativa della sentenza instaura una situazione in virtù della quale le parti si trovano reciprocamente vincolate da un rapporto lavorativo senza limiti di tempo. Ne consegue che, seppure per una fictio iuris, anche previo accertamento incidentale dell'unicità del rapporto lavorativo attraverso la conversione dei contratti a termine, si presentano tutti i presupposti esistenza di un unico rapporto lavorativo a tempo indeterminato e metus che portano ad escludere - alla stregua dei pronunziati della Corte costituzionale - la decorrenza della prescrizione sino alla cessazione del rapporto lavorativo, dovendo la situazione psicologica del lavoratore essere valutata in concreto sulla base, cioè, della realtà di fatto che ha influenzato le sue determinazioni e che ha determinato uno stato di costante soggezione nei confronti del datore di lavoro per il perdurante metus di vedere interrotta la continuazione della serie dei rapporti di lavoro. Pur dovendosi riconoscere alcune differenze strutturali, questa situazione è del tutto analoga, da un punto di vista socioeconomico, a quella del dipendente a tempo determinato di una P.A. con rapporto di diritto pubblico privatizzato in ipotesi di successione di una serie di contratti a termine seguiti da una regolarizzazione, tramite concorso o per legge, presso la medesima P.A. La reiterazione dei rapporti, oltre che frequente, è spesso illegittima e pone il lavoratore, in base ad una valutazione ex ante, in uno stato di soggezione assoluta, perché egli ben sa che solo accettando tale reiterazione da ultimo potrà eventualmente essere assunto dalla P.A. Il rapporto è sostanzialmente, anche se non formalmente, unitario, e la stabilizzazione, quando avviene, certifica una condizione che in fatto esisteva da tempo. Il limite rappresentato dall'articolo 36, comma 5, citato, non e', poi, più operativo, in quanto legalmente rimosso proprio per regolarizzare i dipendenti precari. Il legame fra i contratti a termine è accertato, come una sorta di fictio furis, essendo il presupposto della stabilizzazione, ed è pure particolarmente qualificato e funzionalmente diretto all'instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato, alla quale è legato ex ante, come chiarito dalla giurisprudenza, per la quale, in tema di pubblico impiego privatizzato, nell'ipotesi di illegittima reiterazione di contratti a termine, la successiva immissione in ruolo del lavoratore costituisce misura sanzionatoria idonea a reintegrare le conseguenze pregiudizievoli dell'illecito a condizione che essa avvenga nei ruoli dell'ente che ha commesso l'abuso e che si ponga con esso in rapporto di diretta derivazione causale, non essendo sufficiente che l'assunzione sia stata semplicemente agevolata dalla successione dei contratti a termine, ma occorrendo che sia stata da essa determinata, costituendo l'esito di misure specificamente volte a superare il precariato, che offrano già ex ante una ragionevole certezza di stabilizzazione, sia pure attraverso blande procedure selettive Cass., Sez. L, numero 14815 del 27 maggio 2021 . In simili casi, di norma più lavoratori, assunti con rapporti di lavoro a tempo determinato sulla base di diversi provvedimenti di nomina, vengono ad occupare il medesimo posto di lavoro ininterrottamente per vari anni e svolgono, in modo costante e continuativo, le medesime funzioni. Il mantenimento continuato di tali lavoratori su detti posti vacanti è conseguenza del mancato rispetto, da parte del datore di lavoro, dell'obbligo di legge ad esso incombente di organizzare entro il termine impartito un procedimento di selezione al fine di coprire i posti vacanti in via definitiva e per effetto di tale situazione i rapporti di lavoro dei citati lavoratori sono, in questo modo, rinnovati come temporanei o implicitamente prorogati di anno in anno. In particolare, in queste situazioni, come chiarito dalla giurisprudenza unionale si veda CGUE, 19 marzo 2020, C-103/18 e C-429/18, Sanchez Ruiz e Fernandez Alvarez, con riferimento alla clausola 5 dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato il rinnovo di rapporti di lavoro a tempo determinato in successione non può essere considerato giustificato da ragioni obiettive per la sola circostanza che esso risponda ai motivi di assunzione previsti dalla normativa nazionale, ossia motivi di necessità, di urgenza o relativi allo svolgimento di programmi di natura temporanea, congiunturale o straordinaria, nei limiti in cui siffatta normativa e la relativa giurisprudenza nazionale non vieta al datore di lavoro interessato di utilizzare i rinnovi per soddisfare, in pratica , esigenze permanenti e durevoli in materia di personale. Occorre accertare in concreto, allora, se, benché la normativa e giurisprudenza nazionali non prevedano un'autorizzazione generale e astratta a ricorrere a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, ma limitino la conclusione di tali contratti o relazioni alla necessità di fare fronte, in sostanza, ad esigenze provvisorie, le nomine successive dei lavoratori interessati rispondano non a semplici esigenze provvisorie della P.A., ma a bisogni permanenti e durevoli in tema di personale da utilizzare per normali compiti istituzionali. La reiterazione dei contratti a termine con le modalità esposte, sia ove seguita dalla stabilizzazione, sia qualora superi le tempistiche di legge, non può, dunque, essere compatibile, in base ad una valutazione ex ante, con il decorso della prescrizione dei crediti retributivi in costanza di rapporto ma queste riflessioni possono estendersi a tutti contratti di lavoro flessibili con la P.A. . Ciò in quanto, in primo luogo, essa comporta ab initio o, almeno, dal tempo della sua illegittimità, la nascita di un metus oggettivo del lavoratore in ordine all'esercizio di siffatti crediti, atteso che la detta reiterazione crea, un assoggettamento del dipendente dalla P.A., che ben potrebbe cessare di confermarlo legittimamente senza regolarizzarlo. Inoltre, poiché, in questa maniera, è istituzionalizzata una condizione di strutturale inferiorità del medesimo lavoratore, che esegue la sua prestazione sperando di beneficiare di una procedura di stabilizzazione, rispetto al datore di lavoro, condizione che va ben oltre il metus ed è incompatibile con l'applicazione ai contratti de quibus delle comuni regole civilistiche, anche sulla prescrizione, basate sulla parità fra le parti negoziali. Non è obiettivamente ragionevole che lavoratori, consapevoli da anni di dipendere dalla volontà della P.A. di impiegarli per un ulteriore periodo limitato e di non avere di fatto valide tutele, considerato che già la loro reiterata conferma avviene spesso in violazione della vigente normativa, agiscano contro la propria Pubblica amministrazione per domandare differenze retributive potendo, così, rischiare di trovarsi privi della loro unica fonte di reddito . L'affermazione ad es. di Cass., Sez. L, numero 10219 del 28 maggio 2020, per la quale, avendo il datore di lavoro pubblico una discrezionalità vincolata dalla legge e dalla contrattazione collettiva, egli può operare sui dipendenti una pressione decisamente ridotta rispetto a quella del datore privato, perde di significato se la P.A. non rispetta la legge per i rapporti di lavoro flessibile, reiterandoli di fatto senza limiti, e se non si valuta la pluralità di strumenti nella sostanza ritorsivi oggi nella disponibilità del datore di lavoro, che vanno oltre il mero licenziamento o la non conferma del contratto a termine. Ad analoghe conclusioni quanto all'incidenza della reiterazione illegittima sulla struttura del rapporto di lavoro a termine con la P.A. è giunta Cass., Sez. L, numero 10999 del 9 giugno 2020, per la quale, in materia di pubblico impiego privatizzato, detta reiterazione, con il medesimo lavoratore, produce una situazione di incertezza sulla stabilità occupazionale, definita danno c.d. da precarizzazione, che lede la dignità della persona, quale diritto inviolabile, di cui è proiezione anche il diritto al lavoro come tale, riconosciuto nel diritto interno dalla Cost, articolo 2 e 4 e nel diritto Eurounitario dagli articolo 1 e 15 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, c.d. Carta di Nizza nello stesso senso, fra le molte, Cass., Sez. L, numero 36851 del 15 dicembre 2022 Cass., Sez. L, numero 25594 del 21 settembre 2021 . D'altronde, la decorrenza della prescrizione in pendenza di rapporto porterebbe alla singolare situazione per la quale la procedura di regolarizzazione in deroga al disposto del D.Lgs. numero 165 del 2001, articolo 36, comma 5, qualora ritenuta satisfattiva con riferimento al bene della vita richiesto, priverebbe il lavoratore pubblico del diritto al risarcimento del c.d. danno comunitario e, in fatto, lo spingerebbe anche a ritardare la richiesta di riscossione dei crediti retributivi e, così, a perderli. In questo modo, però, vi è il rischio che, in una situazione storica con bassi salari ed alta disoccupazione, ad essere compromesso sia, per ragioni non dipendenti dalla volontà del lavoratore, non il diritto ad una qualsiasi retribuzione, ma quello ad una retribuzione che garantisca un'esistenza libera e dignitosa secondo la Cost., articolo 36 Questo appare l'esito di un sistema incoerente, in ragione della presenza di tre regimi differenti della prescrizione in ambito lavorativo, quello privato, quello pubblico contrattualizzato e quello pubblico stricto sensu, ed iniquo ex Cost., articolo 3 e 36, che di fatto favorisce, con una differente decorrenza del termine di prescrizione, il lavoratore privato rispetto a quello pubblico, quantomeno se rientrante fra quelli sottoposti ad illegittima reiterazione dei contratti in previsione di una stabilizzazione. Ulteriori considerazioni inducono a porre in dubbio l'orientamento attualmente seguito, a prescindere dal fatto che la privatizzazione abbia comportato o meno una maggiore o minore identificazione tra lavoro pubblico privatizzato e lavoro privato. Infatti, la dottrina più recente ha rivisitato la categoria giuridica della prescrizione, vedendo con disfavore le tesi che individuano il termine di inizio della stessa in maniera uniforme per tutte le situazioni giuridiche, senza distinguere i singoli rapporti e diritti. Si tende ormai a dare rilievo ad un criterio soggettivo, legato al parametro della conoscenza effettiva o della conoscibilità, secondo il parametro della normale diligenza, da parte del debitore. Soprattutto, si mira a posticipare, nei limiti del possibile, con un approccio tipico dell'esperienza del diritto comune e canonico, detto inizio quando il debitore beneficiario è in mala fede e, quindi, consapevole di ledere il diritto altrui. Questa lettura, inoltre, prospetta la possibilità di superare la distinzione fra impedimenti giuridici e di fatto qualora sussistano ostacoli di ordine economico-sociale idonei ad impedire la possibilità effettiva di agire in giudizio per la tutela delle situazioni soggettive sostanziali ex Cost., articolo 3 e 24 In quest'ottica si spiegano alcune innovazioni legislative come quella introdotta con dal D.P.R. numero 224 del 1988, articolo 13, in tema di danni da prodotti difettosi e giurisprudenziali ad esempio, le decisioni delle SSUU dal numero 576 al numero 585 dell'11 gennaio 2008, concernenti malattie contratte in seguito a trasfusioni di sangue infetto, o Cass., SU, numero 24418 del 2 dicembre 2010, relativa alla prescrizione del diritto alla ripetizione degli interessi anatocistici che posticipano il decorso della prescrizione al momento nel quale il danneggiato abbia acquisito consapevolezza del suo diritto al risarcimento del danno, percepito come ingiusto e causalmente derivante da un certo autore dell'illecito. Questa tendenza si pensi, altresì, alle ricostruzioni teoriche che si ricollegano alla Verwirkung tedesca , che porta a dare rilievo ad esigenze di giustizia sostanziale, si va diffondendo anche in altri sistemi giuridici Europei. Occorre valutare le particolarità del caso di specie, applicando ad esso i principi generali alla luce dei cambiamenti avvenuti nel tempo, in modo da tenere conto dei motivi del ritardo nella proposizione delle pretese giudiziali che, anche ai sensi dell'articolo 6 CEDU, non devono trovare irragionevoli ostacoli nell'istituto della prescrizione, ma possono essere limitate solo in conseguenza di un'inerzia colpevole. I tradizionali istituti del codice civile vanno interpretati, alla luce della Costituzione, del diritto UE, della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo e della correlata giurisprudenza, in modo da non favorire, anche nell'esercizio di diritti riconosciuti dall'ordinamento interno, condotte non conformi ai principi di correttezza, soprattutto se tenute da soggetti particolarmente qualificati, come una P.A., nei confronti del dipendente di quest'ultima, nel quale sia stato ingenerato un legittimo affidamento in ordine all'esistenza o meno di pretese giuridiche. Nella presente controversia, la singolarità da valorizzare è rappresentata dalla condotta della P.A. la quale, pur essendo a conoscenza della pregressa attività come ricercatore a tempo determinato del suo dipendente, poi assunto in seguito ad una procedura di stabilizzazione a tempo indeterminato, aveva omesso il riconoscimento della relativa anzianità di servizio, così azzerando completamente l'anzianità relativa al servizio prestato con reiterati contratti a termine, in consapevole violazione della clausola 4 dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, sul rispetto della quale ad opera di un ente pubblico il lavoratore poteva fondare un legittimo affidamento. L'affermazione della decorrenza in costanza di rapporto della prescrizione, quindi, agevolerebbe oltremodo un soggetto, come la P.A., che, invece di riconoscere il servizio pregresso in base ad una normativa, anche unionale, che è tenuta ad applicare, ha consapevolmente negato i diritti del suo dipendente, nonostante la stabilizzazione, rendendone più difficile l'esercizio. Pertanto, sarebbe preferibile un'interpretazione della normativa vigente che individuasse il momento a partire dal quale i diritti de quibus sono divenuti esercitabili in quello della regolarizzazione, in risposta alla mancanza di correttezza del datore di lavoro, o che consentisse di fare emergere la condotta non conforme a buona fede della Pubblica amministrazione, che non adempia ai suoi obblighi, paralizzando l'eccezione in esame od integrando le ipotesi di interruzione della prescrizione previste dal codice civile o come già avviene ai sensi dell'articolo 2941, numero 8, c.c., che prescrive la sospensione della stessa prescrizione nelle ipotesi di dolo del debitore che occulti il debito. Tale impostazione sarebbe anche rispettosa della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'Uomo che, con decisione dell'11 febbraio 2021, caso Casarin c/ Italia, ha tutelato il legittimo affidamento di un dipendente pubblico formatosi in seguito ad una condotta significativa posta in essere da un soggetto particolarmente qualificato, come una P.A. in quest'ottica, cfr. pure Cass., Sez. L, numero 40004 del 14 dicembre 2021, sempre in tema di legittimo affidamento del dipendente pubblico . Queste considerazioni si ricollegano alla giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione Europea, la quale ha affermato che la prescrizione non decorre, pendente il rapporto, ogniqualvolta il datore di lavoro non abbia assicurato al dipendente la possibilità di esercitare il suo diritto nella specie alle ferie . Infatti, la sentenza della CGUE del 22 settembre 2022, in causa C-120/21, ha affermato che L'articolo 7 della direttiva 2003/88/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, e l'articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale in forza della quale il diritto alle ferie annuali retribuite maturato da un lavoratore in un periodo di riferimento si prescrive alla scadenza di un termine di tre anni che comincia a decorrere alla fine dell'anno in cui tale diritto è sorto, qualora il datore di lavoro non abbia effettivamente posto il lavoratore in grado di esercitare il diritto summenzionato . Infatti, ammettere che il datore di lavoro possa invocare la prescrizione dei diritti del lavoratore, senza averlo effettivamente posto in grado di esercitarli, equivarrebbe a legittimare un comportamento che causa un arricchimento illegittimo del datore di lavoro medesimo a danno dell'obiettivo stesso del rispetto della salute del lavoratore di cui all'articolo 31, par. 2, della Carta. Si tratta di conclusioni che concernono il diritto alle ferie, ma che ben potrebbero estendersi alla materia dei crediti retributivi, atteso che la ratio decidendi della pronuncia citata è che il termine di prescrizione non può decorrere se il lavoratore non ha potuto adeguatamente avvalersi del diritto a lui spettante, per ragioni riconducibili alla condotta del datore di lavoro, che, così agendo, si è procurato un arricchimento illegittimo. Questa situazione non è troppo dissimile da quella in esame, siccome il diritto alla retribuzione gode, per la giurisprudenza costituzionale già menzionata, della protezione garantita al diritto alle ferie dalla Cost., articolo 36 inoltre, viene in questione, nella presente sede, un'azione posta in essere da un soggetto particolarmente qualificato come la P.A. che, non retribuendo adeguatamente la prestazione lavorativa resa, trae un indebito vantaggio, negando consapevolmente, in violazione pure degli obblighi imposti dal diritto unionale e dei precetti di correttezza e buona fede sulla stessa gravanti e sul rispetto dei quali era legittimo prestare affidamento, il diritto del suo dipendente, nonostante la regolarizzazione di quest'ultimo trovi fondamento proprio nei pregressi rapporti a tempo determinato. Affermare, quindi, che la Pubblica amministrazione, in circostanze come quelle in esame, può beneficiare della decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto, rischierebbe di consentire un vero e proprio abuso del diritto, che si traduce in una violazione non solo della nostra Costituzione in particolare, degli articolo 3 e 97 Cost. e dei canoni civilistici di correttezza e buona fede che la Pubblica Amministrazione deve rispettare nel suo ruolo di datore di lavoro, ma anche della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo e, soprattutto, del diritto UE in materia di contratti di lavoro a termine e delle relative sentenze della CGUE. A tale ultimo riguardo, va sottolineato che, così come per il c.d. danno comunitario e per il relativo regime dell'onere probatorio esaminati da Cass., SU, numero 5072 del 2016, anche nel presente caso si pone un problema di compatibilità comunitaria di un regime differenziato pubblico/privato che e' un punto fermo, che si aggiunge alla compatibilità interna con il canone costituzionale del principio di eguaglianza Corte Cost. numero 89-2003, cit. , secondo quanto specificato dalla citata Cass., SU, numero 5072 del 2016. 6 La CGUE e la clausola 4 dell'Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato. Le problematiche sinora esposte nascono dalla circostanza che il differente regime della decorrenza della prescrizione nel settore del pubblico impiego dipende ormai da un orientamento giurisprudenziale certo consolidato, ma di origini remote. Situazione non dissimile si è già verificata in passato con la giurisprudenza della S.C. che poneva a carico del lavoratore, che agisse per ottenere il riconoscimento del diritto al risarcimento da reiterazione abusiva di contratti a termine, l'onere di provare di avere dovuto rinunciare a migliori opportunità di impiego. Quest'ultimo orientamento è stato superato in seguito all'ordinanza 12 dicembre 2013, C-50/13, Papalia, della CGUE, in quanto aveva come effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio, da parte del citato lavoratore, dei diritti conferiti dall'ordinamento UE, atteso che obiettivo principale della direttiva 1999-70 e dell'accluso Accordo Quadro era di evitare il mantenimento di situazioni di lavoro svantaggiose per i lavoratori a tempo determinato CGUE, 4 luglio 2006, Adeneler, C212/04, punto 105 la citata Marrosu e Sardino, punto 49 CGUE, 7 settembre 2006, C-180/04, Vassallo, punto 34 . Allo stesso modo -- sulla base di un orientamento giurisprudenziale nato più di cinquanta anni fa - la differenza di regime della prescrizione dei crediti retributivi tra lavoro privato e lavoro pubblico propria dell'ordinamento italiano viene ad incidere, nei fatti, sul diritto al riconoscimento dell'anzianità di servizio, come ricostruito in ambito UE. Come già evidenziato, nell'impiego pubblico contrattualizzato l'anzianità di servizio dei lavoratori a termine viene svuotata di contenuto, fino ad essere azzerata, con pesanti conseguenze anche sulla progressione stipendiale e, quindi, in contrasto con la giurisprudenza della CGUE per cui le maggiorazioni retributive che derivano dall'anzianità di servizio del lavoratore costituiscono condizioni di impiego ai sensi della clausola 4, con l'effetto che le stesse possono essere negate agli assunti a tempo determinato solo in presenza di una giustificazione oggettiva CGUE, 9 luglio 2015, C-177/14, Regojo Dans, punto 44, e precedenti richiamati . Per la giurisprudenza Eurounitaria, la clausola 4 del citato Accordo Quadro deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale, la quale escluda totalmente che i periodi di servizio compiuti da un lavoratore a tempo determinato alle dipendenze di un'autorità pubblica siano presi in considerazione per determinare l'anzianità del lavoratore stesso al momento della sua assunzione a tempo indeterminato, da parte di questa medesima autorità, come dipendente di ruolo nell'ambito di una specifica procedura di stabilizzazione del suo rapporto di lavoro , non potendo il semplice fatto che il lavoratore a tempo determinato abbia prestato detti periodi di servizio in base a un contratto o a un rapporto di lavoro a tempo determinato configurare una ragione oggettiva valida per giustificare la suddetta disciplina CGUE, 18 ottobre 2012, Valenza e a., da C-302/11 a C-305/11, punto 71 CGUE, 20 settembre 2018, C-466/17, Motter . La S.C. ha dato seguito a queste sentenze fra le molte, Cass., Sez. L, numero 2924 del 7 febbraio 2020 , affermando che, anche nel pubblico impiego contrattualizzato, l'anzianità di servizio va riconosciuta ad ogni effetto pure ai lavoratori assunti a tempo determinato, poi immessi in ruolo non ha, però, mai modificato il criterio di computo della prescrizione dei crediti retributivi sui quali si basa la stessa anzianità di servizio al fine della progressione economica. Se, però, l'anzianità di servizio va riconosciuta anche per consentire al lavoratore di reclamare le dovute maggiorazioni retributive, di cui integra il presupposto di fatto come sopra evidenziato, l'anzianità di servizio non è un distinto bene della vita oggetto di un autonomo diritto, ma la dimensione temporale del rapporto di lavoro , allora la decorrenza della prescrizione non può operare in maniera da consentire che, al momento del suo accertamento da parte del giudice, i crediti de quibus siano già estinti. In effetti, da un lato, si afferma che l'anzianità di servizio, nel pubblico impiego privatizzato, può essere oggetto di verifica giudiziale senza termine di tempo, purché sussista nel ricorrente un interesse ad agire dall'altro, si propone di valutare l'interesse de quo alla luce dell'azionabilità dei singoli diritti di cui la detta anzianità è il presupposto di fatto. Peraltro, così facendo, si cade in contraddizione, perché si esclude siffatto interesse ad agire in ragione dell'avvenuta decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi, benché il diritto all'anzianità possa essere esercitato. Nella medesima ottica, diviene irrazionale un sistema nel quale la P.A. può, al momento della stabilizzazione, con il semplice diniego dell'esistenza del servizio prestato in passato, nonostante l'obbligo di riconoscerlo sulla stessa gravante in virtù del diritto Eurounitario, privare di valenza tale servizio e la prestazione pregressa del dipendente, il quale finisce con l'avere eseguito un'attività solo in parte retribuita in conseguenza di un mero atto di volontà del datore di lavoro pubblico. Ne deriva che, paradossalmente, in base ad una valutazione ex ante, quanto più dura la situazione di precarietà, in mancanza di contestazioni da parte del lavoratore - che ha la priorità di mantenere il lavoro che rappresenta la sua unica fonte di reddito - tanto più si svuota di contenuto, dal punto di vista retributivo, la pur riconosciuta anzianità di servizio. Al contrario, questo non si verifica nel lavoro privato precario, dato il diverso modo di calcolare la prescrizione dei crediti retributivi. 7 La questione di massima di particolare importanza. Alla luce delle considerazioni che precedono, tenuto conto dei rilevanti cambiamenti normativi e giurisprudenziali e della notevole modifica delle condizioni economico-sociali che hanno interessato il diritto del lavoro dopo le decisioni sopra elencate della Corte costituzionale e delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, nonché della esposta evoluzione della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'Uomo e della Corte di giustizia dell'Unione Europea nonché dei progressi della dottrina in materia di prescrizione, anche per assicurare la compatibilità comunitaria della disciplina nazionale, venendo in rilievo una diversità di regime tra lavoro a termine nel settore privato e lavoro a termine nel settore pubblico contrattualizzato che quando è nata nel 1966 rispecchiava il quadro normativo e giurisprudenziale all'epoca vigente ma che oggi non trova più giustificazione e risulta anzi lesiva non solo del diritto UE ma soprattutto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza Cost., articolo 3 e del diritto al lavoro Cost., articolo 4 e 35 diritto, quest'ultimo, che è fondante per il nostro ordinamento Cost., articolo 1 ed è tutelato dalla Costituzione in tutte le sue forme e applicazioni vedi, per tutte Corte Cost., sentenza numero 150 del 2020 - il Collegio ritiene opportuno rimettere all'attenzione delle Sezioni Unite i seguenti quesiti a se la prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato debba decorrere dalla fine del rapporto di lavoro, a termine o a tempo indeterminato, o, in caso di successione di rapporti, dalla cessazione dell'ultimo, come accade nel lavoro privato b se, nell'eventualità di abuso nella reiterazione di contratti a termine, seguita dalla stabilizzazione presso la stessa P.A. datrice di lavoro, la prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato debba decorrere dal momento di tale stabilizzazione c se la prescrizione dei crediti retribuitivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato, nell'ipotesi sub b , sia comunque preclusa, interrotta o sospesa ove la P.A. neghi il riconoscimento del servizio pregresso dei dipendenti. Trattandosi di questione di massima di particolare importanza , ai sensi del comma 2 dell'articolo 374 c.p.c., sussistono, ad avviso del Collegio, le condizioni per la rimessione degli atti al Primo Presidente, affinché valuti l'opportunità di assegnare la trattazione e la decisione del ricorso alle Sezioni Unite. P.Q.M. La Corte, dispone la trasmissione del procedimento al Primo Presidente, per l'eventuale rimessione alle Sezioni Unite.