Inutile l’azione giudiziaria proposta dalla società datrice di lavoro, che ora deve reintegrare il dipendente e versargli un risarcimento quantificato in cinque mensilità di retribuzione. Per i Magistrati gli accertati comportamenti del lavoratore non sono catalogabili come insubordinazione grave.
Niente licenziamento per il lavoratore che si sottrae, per ragioni connesse al suo stato di salute, al compito affidatogli e che accompagna questa palese ribellione con un linguaggio scurrile. Per i Giudici non ci sono dubbi il lavoratore si è reso colpevole di una insubordinazione non grave , cioè non così forte da giustificare l’allontanamento deciso dall’azienda. E su quest’ultimo punto a rilevare è, aggiungono i Giudici, anche la constatazione che il licenziamento avrebbe privato dei mezzi di sostentamento non solo il lavoratore ma anche la sua famiglia. A salvare il lavoratore a rischio sono già i giudici di merito. Sia in primo che in secondo grado, difatti, viene sancita «l’ illegittimità del licenziamento » deciso dalla società datrice di lavoro, che si ritrova obbligata a reintegrare il dipendente e a versargli cinque mensilità di retribuzione come risarcimento. In Appello, in particolare, viene « esclusa la recidiva» ipotizzata dalla società. Ciò perché «in epoca antecedente il recesso, le due sospensioni» decise nei confronti del lavoratore «erano state l’una revocata e l’altra annullata in sede giudiziaria», e poi perché «le varie contestazioni allegate attenevano a violazioni diverse tra loro ed erano perciò irrilevanti ai fini della contestazione della recidiva» in merito all’ultimo episodio contestato al lavoratore. E proprio prendendo in esame il comportamento tenuto dal dipendente i giudici d’appello ritengono impossibile ipotizzare «una grave insubordinazione» del lavoratore «verso i superiori». A confermare l’illegittimità del licenziamento provvedono infine i Giudici della Cassazione, soffermandosi soprattutto sul peso specifico da riconoscere alle condotte del lavoratore. Su questo fronte l’avvocato che ha rappresentato la società ha parlato di errore compiuto inquadrando «i fatti accertati in giudizio» come «una insubordinazione punibile con una sanzione conservativa» laddove, invece, «la condotta contestata ed accertata integrava una giusta causa o, quantomeno, un giustificato motivo soggettivo di licenziamento», soprattutto «avuto riguardo alle espressioni ingiuriose utilizzate dal lavoratore nei confronti di superiori gerarchici e al linguaggio scurrile da lui utilizzato davanti a numerosi colleghi per giustificare il rifiuto di portare fuori dei carrelli, come richiesto a tutti i lavoratori addetti al suo servizio», e senza dimenticare, infine, secondo il legale, «il rifiuto di conferire col superiore gerarchico che aveva convocato il lavoratore per chiarimenti sui suoi comportamenti». A queste obiezioni, però, i Giudici di terzo grado ribattono condividendo la valutazione compiuta in Appello. In sostanza, «in esito alla ricostruzione del fatto addebitato al lavoratore attraverso le risultanze dell’istruttoria svolta» sono stati valutati « il fatto e le modalità con le quali la condotta era stata posta in essere, anche sotto il profilo dell’impatto nell’ambiente di lavoro circostante e senza trascurare l’inopportunità e la sgradevolezza del comportamento», ma, tuttavia, si è ritenuto che «nel suo complesso il fatto» contestato al lavoratore «non potesse essere ricondotto alla grave insubordinazione verso i superiori che deve connotare la condotta che può essere sanzionata con il licenziamento». I Magistrati precisano che «se è vero che la nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma ricomprende qualsiasi comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione e il corretto svolgimento delle suddette disposizioni nel quadro dell’organizzazione aziendale, tuttavia ove la contrattazione collettiva ancori, come in questo caso, l’irrogazione della massima sanzione alla gravità della condotta nei confronti dei superiori, all’esistenza di minacce o di vie di fatto, al rifiuto di obbedienza ad ordini», allora « non qualunque comportamento può essere causa di licenziamento ma solo quello che, per le sue caratteristiche proprie, si palesi ingiustificatamente in netto contrasto con gli ordini impartiti». Ragionando in questa ottica, quindi, e coerentemente con i fatti accertati, «pur confermata la ingiustificatezza della condotta tenuta» dal lavoratore, essa «va valutata come una insubordinazione che non è, per il contesto complessivo in cui si è verificata, talmente grave da non poter essere sanzionata altrimenti». In sostanza, «va ricondotto all’ insubordinazione, ma non grave, l’essersi il lavoratore sottratto ad uno dei compiti richiesti – cioè spostare i carrelli a fine turno – per ragioni connesse al suo stato di salute, seppur utilizzando un linguaggio molto volgare». E, tirando le somme, «il comportamento accertato, seppur illecito, va considerato non punibile con la più grave delle sanzioni disciplinari – per la considerazione che si trattava di episodi delimitati – tale da privare dei mezzi di sostentamento il lavoratore e la sua famiglia», concludono i Magistrati.
Presidente Raimondi – Relatore Garri Il testo integrale dell'ordinanza sarà disponibile a breve. Rilevato che 1. Con ricorso ex L. numero 92 del 2012, articolo 1 comma 48 B.M. convenne in giudizio davanti al Tribunale di Benevento la C.A.M. s.r.l. per sentire annullare il licenziamento per giusta causa intimatogli dalla società il omissis deducendone la illegittimità per insussistenza dei fatti contestati e per difetto di proporzionalità della sanzione, potendosi, se del caso, irrogarne solo una conservativa. 2. Il Tribunale all'esito della fase sommaria accertava l'illegittimità del licenziamento ed ordinava la reintegrazione nel posto di lavoro condannando la convenuta a risarcire il danno liquidato in cinque mensilità di retribuzione. 3. Investito dell'opposizione, poi, lo stesso Tribunale confermava l'ordinanza impugnata. 4. La Corte di appello di Napoli, quindi, rigettava il reclamo della società osservando che correttamente il Tribunale aveva escluso la recidiva contestata sul rilievo che in epoca antecedente il recesso le due sospensioni erano state l'una revocata e l'altra annullata in sede giudiziaria e che, comunque, le varie contestazioni allegate attenevano a violazioni diverse tra loro ed erano perciò irrilevanti ai fini della contestazione della recidiva. 4.1. Aggiungeva che si era formato il giudicato sulla statuizione che i precedenti richiamati si riferivano a violazioni diverse non avendo la reclamante specificatamente impugnato la decisione sul punto. 4.2. Confermava la decisione che aveva escluso che le condotte contestate fossero riconducibili alla fattispecie dell'insubordinazione verso i superiori, sanzionata con la sospensione dall' articolo 69 del c.c.numero l. Laddove invece il licenziamento può essere irrogato nel caso di grave insubordinazione, minacce o vie di fatto o ancora per rifiuti di obbedienza ad ordini, fattispecie che nella specie non erano ravvisabili. 5. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la C.A.M. s.r.l. Compositi Avanzati Meridionali affidato due motivi. B.M. ha resistito con tempestivo controricorso. Considerato che 6. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione degli articolo 2119 c.c. , della L. numero 604 del 15 giugno 1966, articolo 3, della L. 20 maggio 1970 numero 300 articolo 7 e 18 come modificato della L. numero 92 del 28 giugno 2012, articolo 1 . 6.1. Sostiene la ricorrente che erroneamente la Corte di appello avrebbe ritenuto che i comportamenti richiamati, di cui due sanzionati con la sospensione pur annullata, non potessero costituire un criterio per valutare la gravità del comportamento contestato al dipendente e sanzionato con il licenziamento. Sostiene che in tal modo la Corte avrebbe confuso la recidiva, deve far parte dell'addebito contestato, con comportamenti 1, disciplinarmente rilevanti che vengono in rilievo per valutare la gravità della condotta addebitata al lavoratore. 7. Il motivo è inammissibile. 7.1. La censura non coglie il senso della decisione che ha accertato che con l'appello si era reiterata la doglianza relativa alla gravità delle condotte nel tempo tenute dal lavoratore e tuttavia non si era impugnata la statuizione con la quale era stato accertato che, ai fini della recidiva che consente di punire con il licenziamento una condotta normalmente sanzionabile con una misura conservativa, era necessario seguire un procedimento che nella specie non era stato osservato. 7.2. Con il ricorso in Cassazione la società ritiene che le condotte pregresse avrebbero dovuto essere comunque prese in esame per valutare in un quadro complessivo la condotta tenuta nel tempo. Tuttavia, la Corte territoriale ha fondato la sua decisione su un duplice rilievo che nello specifico era stata esclusa in fatto l'esistenza di una recidiva, posto che nessuna sospensione era stata validamente irrogata le due sanzioni richiamate nella contestazione di addebito erano state l'una revocata e l'altra annullata che si era formato il giudicato sull'accertata mancata adozione della procedura da seguire in caso di recidiva e sulla circostanza che i precedenti richiamati dalla società si riferivano a violazioni diverse. 7.3. La ricorrente tenta di superare tale affermazione rammentando che in assoluto la reiterazione di una condotta ne connota la gravità. Tuttavia la Corte di merito al riguardo ha escluso proprio che si trattasse di comportamenti che attenevano alle medesime violazioni mostrando così di aver preso in esame anche tale profilo. 8. Il secondo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli articolo 2119 c.c. , della L. numero 604 del 15 giugno 1966, articolo 3, della L. 20 maggio 1970 numero 300, articolo 7 e 18 come modificato della L. numero 92 del 28 giugno 2012, articolo 1, dell' articolo 69 del c.c.numero l. per i metalmeccanici del 29.7.2013. Deduce la ricorrente che la sentenza sarebbe incorsa nel vizio denunciato per aver erroneamente sussunto i fatti accertati in giudizio in una insubordinazione punibile con una sanzione conservativa laddove invece la condotta contestata ed accertata integrava una giusta causa o, quantomeno, un giustificato motivo soggettivo di licenziamento avuto riguardo alle espressioni ingiuriose utilizzate dal B. nei confronti di superiori gerarchici al linguaggio scurrile utilizzato davanti a numerosi colleghi per giustificare il rifiuto di portare fuori dei carrelli come era stato richiesto a tutti i lavoratori addetti al suo servizio e al rifiuto di conferire col superiore gerarchico che lo aveva convocato per chiarimenti sui suoi comportamenti. 9. Anche questa censura deve essere dichiarata inammissibile. 9.1. La Corte di appello, in esito alla ricostruzione del fatto addebitato al lavoratore attraverso le risultanze dell'istruttoria svolta, ha espressamente valutato il fatto e le modalità con le quali la condotta era stata posta in essere anche sotto il profilo dell'impatto nell'ambiente di lavoro circostante e, senza trascurare l'inopportunità e sgradevolezza del comportamento, ha tuttavia ritenuto che nel suo complesso non potesse essere ricondotto alla grave insubordinazione verso i superiori che deve connotare la condotta che può essere sanzionata con il licenziamento. In tale procedimento di sussunzione la Corte territoriale è rimasta aderente ai principi dettati da questa Corte. Se è vero che la nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma ricomprende qualsiasi comportamento atto a pregiudicare l'esecuzione e il corretto svolgimento delle suddette disposizioni nel quadro dell'organizzazione aziendale, tuttavia ove la contrattazione collettiva, come nel caso in esame, ancori l'irrogazione della massima sanzione alla gravità della condotta nei confronti dei superiori, all'esistenza di minacce o di vie di fatto, al rifiuto di obbedienza ad ordini, allora non qualunque comportamento può essere causa di licenziamento ma solo quello che, per le sue caratteristiche proprie, si palesi ingiustificatamente in netto contrasto con gli ordini impartiti. 9.2. Orbene, il giudice di appello, ha espressamente tenuto conto delle indicazioni provenienti dalla disciplina collettiva e, coerentemente con i fatti accertati, pur confermata la ingiustificatezza della condotta tenuta, l'ha valutata come una insubordinazione che non era, per il contesto complessivo in cui si era verificata, talmente grave da non poter essere altrimenti sanzionata. 9.3. Non è qui in discussione la possibilità di sottoporre a sindacato di legittimità la sussunzione, da parte dei giudici di merito, di una fattispecie concreta sotto l'astratta previsione legale, quand'anche formulata con una clausola generale. Tuttavia, non è ravvisabile alcun errore di diritto nel giudizio che riconduce all'insubordinazione, ma non grave, l'essersi sottratto ad uno dei compiti richiesti spostare i carrelli a fine turno per ragioni connesse al suo stato di salute seppur utilizzando un linguaggio molto volgare tenuto conto anche del fatto che questo era rimasto l'unico addebito, di quelli contestati, ad essere risultato oggettivamente dimostrato. 9.4. Ciò posto la decisione della Corte di merito, che ha ritenuto che il comportamento accertato, pur illecito, non fosse punibile con la più grave delle sanzioni disciplinari - per la considerazione che si trattava di episodi delimitati ed essendo state escluse le altre condotte pure contestate - tale da privare dei mezzi di sostentamento il lavoratore e la sua famiglia, è rispettoso del principio di proporzione e la censura, in disparte la sua rubrica, non si confronta con il tenore delle norme collettive applicabili e si risolve, piuttosto, in una inammissibile richiesta di rivalutazione dell'istruttoria svolta pretendendo da questa Corte un diverso, e non consentito, apprezzamento delle dichiarazioni dei testi escussi per addivenire ad una differente ricostruzione dei fatti e ad una qualificazione del comportamento accertato tale da sussumerlo nella fattispecie di insubordinazione grave punibile con la massima sanzione espulsiva. 10. Per la ragioni esposte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura indicata nel dispositivo. Ai sensi del D.P.R. numero 115 del 2002, articolo 13 comma 1 quater va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del citato D.P.R. numero 115 del 2002, articolo 13 comma 1 bis, se dovuto. P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 4.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge. Ai sensi del D.P.R. numero 115 del 2002, articolo 13 , comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del D.P.R. numero 115 del 2002, articolo 13 comma 1 bis , se dovuto.