Il lavoratore avrà quindi diritto al trattamento di fine rapporto se il contratto di collaborazione coordinata e continuativa con la P.A. viene accertato giudizialmente avere la sostanza di un contratto di lavoro subordinato. Non rileva, quindi, il divieto di conversione previsto dall’articolo 36, comma 5, d. lgs. numero 165/2001.
Con riferimento all'impiego pubblico, non esiste una disposizione generale come l'articolo 69, d. lgs. numero 276/2003 in base alla quale, qualora il giudice accerti che un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa sia venuto a configurare un rapporto di lavoro subordinato, esso sia da considerarsi come lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto. Al contrario, l'articolo 36, comma 5, d. lgs. numero 165/2001 prescrive che la violazione delle disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle P.A., non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime. Quindi nessuna conversione. A ciò però non può far seguito la non spettanza del trattamento di fine rapporto, che compete all'interessato per il fatto stesso di aver ricevuto un compenso corrispondente al valore delle mansioni svolte, a condizione che siano riconducibili a un rapporto di natura subordinata e a prescindere dalla qualificazione formale dello stesso ad opera delle parti contraenti. Se non conta l'originaria denominazione del rapporto come subordinato, quindi, non può a maggior ragione rilevare che detta denominazione venga assunta in un secondo momento o che, in seguito all'accertamento del giudice, il medesimo rapporto diventi formalmente subordinato. Ciò è accaduto nella vicenda giunta fino ai Supremi Giudici, quella di un uomo che aveva lavorato con una P.A. in forza di quattro contratti di collaborazione coordinata e continuativa. In giudizio egli chiedeva venisse accertata la natura subordinata del rapporto di lavoro, con il conseguente obbligo di applicare il CCNL per i dipendenti degli enti pubblici non economici e che venisse condannata l'Amministrazione a versare differenze retributive, indennità di preavviso e TFR. A fronte dell'accoglimento della richiesta del lavoratore, l'INPS ricorreva in Cassazione sostenendo che il giudice di seconde cure avrebbe errato nel riconoscere il trattamento di fine rapporto senza considerare che il relativo importo spetta solo in caso di cessazione del lavoro subordinato, nella specie insussistente. Il ricorso è stato tuttavia rigettato sulla base delle considerazioni sopra riportare, in conclusione delle quali, la Corte di Cassazione ha affermato il principio di diritto per il quale «in tema di pubblico impiego privatizzato, in caso di stipulazione di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa che, in seguito ad accertamento giudiziario, risulti avere la sostanza di contratto di lavoro subordinato, il lavoratore non può conseguire la conversione del rapporto in uno di lavoro subordinato a tempo indeterminato con la P.A., ma ha diritto ad una tutela risarcitoria, nei limiti di cui all'articolo 2126 c.c., nonché alla ricostruzione della posizione contributiva previdenziale ed alla corresponsione del trattamento di fine rapporto per il periodo pregresso».
Presidente Manna – Relatore Cavallari Svolgimento del processo Con ricorso depositato il 2 dicembre 2009 presso il Tribunale di Roma G.E. ha esposto che aveva lavorato in qualità di responsabile referente dello Omissis in forza di quattro contratti di collaborazione coordinata e continuativa stipulati con l'ENAM, senza sostanziale soluzione di continuità aveva fornito le sue prestazioni con le modalità tipiche del lavoro subordinato. Il ricorrente ha chiesto che fosse accertata la natura subordinata del rapporto di lavoro, con il conseguente obbligo di applicare il CCNL per i dipendenti degli enti pubblici non economici, e che la parte pubblica fosse condannata al pagamento di Euro 50.319,21 a titolo di differenze retributive, indennità di preavviso, TFR, nonché al risarcimento del danno e alla regolarizzazione della posizione contributiva. Il Tribunale di Roma, nel contraddittorio delle parti, con sentenza numero 8055/12, ha accertato che il rapporto di lavoro intercorso tra le parti dal 6 settembre 2004 al 31 luglio 2008 si era svolto con le modalità del lavoro subordinato e ha condannato la P.A. a pagare un'indennità risarcitoria commisurata a sei mensilità della retribuzione, oltre interessi, rigettando ogni altra domanda. L'INPS ha presentato appello. G.E. ha proposto appello incidentale, insistendo sul pagamento delle differenze retributive, dell'indennità di preavviso e del TFR. La Corte d'appello di Roma, con sentenza numero 3506 del 2016, ha respinto l'appello principale e accolto quello incidentale limitatamente alla richiesta del TFR. L'INPS ha proposto ricorso per cassazione sulla base di un motivo. G.E. ha resistito con controricorso. Il solo G.E. ha depositato memorie. Motivi della decisione 1 Con un unico motivo l'INPS lamenta la violazione e falsa applicazione degli articolo 36 D.Lgs. numero 165 del 2001, 32 L. numero 183 del 2010 e 2120 c.c. in relazione all'articolo 111 Cost. ed all'articolo 6 CEDU in quanto la corte territoriale avrebbe errato nel riconoscere ad G.E. il TFR senza considerare che il relativo importo spetta in caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato, nella specie insussistente. Inoltre, parte ricorrente contesta l'applicazione dell'articolo 2110 c.c. e la poca chiarezza delle modalità di quantificazione di detto TFR. La doglianza non merita accoglimento. Il Trattamento di fine rapporto c.d. TFR è un elemento della retribuzione il cui pagamento viene differito al momento della cessazione del rapporto di lavoro. Si tratta, quindi, della prestazione economica che compete al lavoratore subordinato all'atto della cessazione del rapporto di lavoro per qualsiasi motivo licenziamento, dimissioni, o raggiungimento dell'età della pensione . Esso matura durante lo svolgimento del rapporto ed è costituito dalla somma di accantonamenti annui di una quota di retribuzione rivalutata periodicamente e', allora, un compenso con corresponsione differita al momento della cessazione del rapporto di lavoro, ovvero un salario posticipato calcolato per quote annuali. Coerentemente, la giurisprudenza afferma che il diritto al TFR sorge al momento della cessazione del rapporto di lavoro, tanto che solo da questa data decorrono il termine di prescrizione Cass., Sez. L, numero 11579 del 23 maggio 2014 , nonché gli interessi e la rivalutazione, che presuppongono l'avvenuta maturazione del credito Cass., Sez. L, numero 4222 del 25 marzo 2002 , e che non è possibile la rinunzia preventiva a tale trattamento proprio perché il relativo diritto non può essere considerato come ancora entrato nel patrimonio del lavoratore anteriormente alla fine del detto rapporto, con la conseguenza che, trattandosi di un diritto futuro, siffatta rinunzia sarebbe nulla per mancanza dell'oggetto ai sensi dell'articolo 1418, comma 2, c.c. e dell'articolo 1325 c.c. Cass., Sez. L, numero 23087 dell'11 novembre 2015 . Infatti, il diritto al trattamento di fine rapporto sorge, a norma dell'articolo 2120 c.c., al momento della cessazione del rapporto ed in seguito ad essa, essendo irrilevante, al fine di ipotizzare una diversa decorrenza, l'accantonamento annuale della quota del trattamento, che costituisce una mera modalità di calcolo dell'unico diritto che matura nel momento anzidetto, ovvero l'anticipazione sul trattamento medesimo, che è corresponsione di somme provvisoriamente quantificate e prive del requisito della certezza, atteso che il diritto all'integrale prestazione matura, per l'appunto, solo alla fine del rapporto lavorativo. Ne deriva che la prescrizione del diritto al TFR decorre soltanto dalla cessazione del rapporto lavorativo Cass., Sez. L, numero 3894 del 18 febbraio 2010 . Al riguardo, il citato articolo 2120, commi da 1 a 3, c.c. dispone, per la parte che qui interessa, che In ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato, il prestatore di lavoro ha diritto a un trattamento di fine rapporto. Tale trattamento si calcola sommando per ciascun anno di servizio una quota pari e comunque non superiore all'importo della retribuzione dovuta per l'anno stesso divisa per 13,5. La quota è proporzionalmente ridotta per le frazioni di anno, computandosi come mese intero le frazioni di mese uguali o superiori a 15 giorni. Salvo diversa previsione dei contratti collettivi la retribuzione annua, ai fini del comma precedente, comprende tutte le somme, compreso l'equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese. . Da quanto esposto emerge la stretta correlazione fra lo svolgimento di un rapporto di lavoro subordinato e l'accumulo della somma destinata a costituire il TFR, da un lato, e la cessazione del medesimo rapporto di lavoro e la nascita del diritto alla corresponsione del trattamento di fine rapporto, dall'altro. L'articolo 2120 c.c. evidenzia, poi, il chiaro legame fra il TFR e la retribuzione percepita, essendo il medesimo TFR una forma differita della stessa. Occorre stabilire, allora, cosa debba intendersi per retribuzione percepita . Al riguardo, la giurisprudenza ha chiarito che il concetto di retribuzione recepito dagli articolo 2118, comma 2, c.c. ai fini del calcolo dell'indennità di preavviso in caso di licenziamento e 2120 c.c. ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto è ispirato al criterio dell'onnicomprensività, nel senso che in detti calcoli vanno compresi tutti gli emolumenti che trovano la loro causa tipica e normale nel rapporto di lavoro cui sono istituzionalmente connessi, anche se non strettamente correlati alla effettiva prestazione lavorativa, mentre ne vanno escluse solo quelle somme rispetto alle quali il rapporto di lavoro costituisce una mera occasione contingente per la relativa fruizione, quand'anche essa trovi la sua radice in un rapporto obbligatorio diverso ancorché collaterale e collegato al rapporto di lavoro. Più precisamente, ha specificato che nella nozione di retribuzione deve farsi rientrare qualsiasi utilità corrisposta al lavoratore dipendente che proviene dal datore di lavoro se causalmente collegata al rapporto di lavoro, anche ove si tratti di somme materialmente erogate da un soggetto diverso dal datore di lavoro, e pure se l'attribuzione patrimoniale costituisca la prestazione di un contratto diverso da quello di lavoro, ove tale contratto costituisca lo strumento per conseguire il risultato pratico di arricchire il patrimonio del lavoratore in correlazione con lo svolgimento del rapporto di lavoro subordinato Cass., Sez. L, numero 16636 del 1 ottobre 2012 . Pertanto, affinché un compenso sia incluso nella base di calcolo della indennità di anzianità ex articolo 2121 c.c. o del trattamento di fine rapporto ex articolo 1 L. numero 297 del 1982 , non è necessario il carattere di definitività del compenso stesso, ma è sufficiente che di esso nella specie indennità di servizio estero il dipendente abbia goduto in modo normale nel corso ed a causa del rapporto di lavoro, non avendo rilievo l'elemento temporale di percezione del compenso stesso, ove questo sia da considerare come corrispettivo della prestazione normale perché inerente al valore professionale delle mansioni espletate Cass., Sez. L, numero 24875 del 25 novembre 2005 . Dalla giurisprudenza appena citata emerge che alla base del calcolo del TFR è un concetto di retribuzione intesa come corrispettivo della prestazione normale perché inerente al valore professionale delle mansioni espletate e che, affinché detto corrispettivo assuma rilievo, basta che sussista un collegamento causale con il rapporto di lavoro, ovvero che il dipendente ne abbia goduto in modo normale nel corso ed a causa del medesimo rapporto di lavoro, non avendo rilievo né l'elemento temporale di percezione del compenso né l'identità del soggetto che materialmente eroghi le somme, che ben potrebbe non essere il datore di lavoro, né il contratto dal quale formalmente dipenda l'attribuzione patrimoniale, che potrebbe essere diverso da quello di lavoro. Ciò che conta è il risultato pratico conseguito, vale a dire l'arricchimento del patrimonio del lavoratore in correlazione con lo svolgimento del rapporto di lavoro subordinato. Da quanto esposto si ricava che al centro del regime del TFR non è la percezione di una regolare retribuzione nell'ambito di un rapporto formalmente qualificato ab initio dalle parti come subordinato, ma l'effetto economico dell'incremento del patrimonio del lavoratore , il quale rappresenti il corrispettivo di una prestazione qualificata come normale perché inerente al valore professionale delle mansioni espletate . Il diritto al TFR sorge, allora, per il semplice fatto della percezione di importi, principalmente in denaro, che compensino il valore professionale delle mansioni espletate . Non rileva, invece, il dato formale dell'esistenza, al momento della cessazione del rapporto, di una esplicita qualificazione dello stesso come subordinato, assumendo valore solo la sostanza della prestazione resa con il lavoro, definibile in concreto come subordinata. Indubbiamente, come sostiene l'INPS, non esiste nel pubblico impiego una disposizione generale come l'articolo 69, D.Lgs. numero 276 del 2003, in base alla quale, qualora il giudice accerti che un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa sia venuto a configurare un rapporto di lavoro subordinato , esso è considerato come lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto . Al contrario, l'articolo 36, comma 5, del D.Lgs. numero 165 del 2001 prescrive che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni . Risulta coerente con questa normativa l'orientamento giurisprudenziale per il quale, in caso di stipulazione di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa con una P.A., al di fuori dei presupposti di legge, il lavoratore non può mai conseguire la conversione del rapporto in uno di lavoro subordinato a tempo indeterminato, ma solo una tutela risarcitoria, nei limiti di cui all'articolo 2126 c.c., qualora il contratto di collaborazione abbia la sostanza di rapporto di lavoro subordinato, con conseguente diritto anche alla ricostruzione della posizione contributiva previdenziale Cass., Sez. L, numero 9591 del 18 aprile 2018 Cass., Sez. L, numero 3384 dell'8 febbraio 2017 . Più precisamente, in tema di pubblico impiego privatizzato, qualora si accerti che la prestazione lavorativa resa in favore di un ente pubblico non economico, in forza di un contratto formalmente qualificato di collaborazione autonoma del D.Lgs. numero 165 del 2001 ex articolo 7, ha di fatto assunto i caratteri della subordinazione, sulla base di indici sintomatici quali la continuità della prestazione lavorativa, l'inserimento del lavoratore nell'organizzazione datoriale e l'assenza dei presupposti di legittimità richiesti dallo stesso articolo 7, sussiste a carico dell'ente l'obbligo di versamento della contribuzione previdenziale e assistenziale, che trova fondamento nell'articolo 2126 c.c. Cass., Sez. L, numero 3314 del 5 febbraio 2019 . Infatti, il rapporto di lavoro subordinato instaurato da un ente pubblico non economico, affetto da nullità perché non assistito da regolare atto di nomina o addirittura vietato da norma imperativa, come quella che impone il concorso pubblico per l'accesso all'impiego pubblico, rientra nella sfera di applicazione dell'articolo 2126 c.c., con conseguente diritto del lavoratore al trattamento retributivo per il tempo in cui il rapporto stesso ha avuto materiale esecuzione Cass., Sez. L, numero 23645 del 21 novembre 2016 . Inoltre, si è affermato che, nel pubblico impiego privatizzato, alla violazione di disposizioni imperative che riguardino l'assunzione, sia a seguito di pubblico concorso sia attingendo alle liste di collocamento, non può mai fare seguito la costituzione di un rapporto di pubblico impiego a tempo indeterminato, atteso che la ratio del D.Lgs. numero 165 del 2001 articolo 36, comma 5, , che prevede il divieto di trasformazione del rapporto di lavoro a termine in rapporto a tempo indeterminato, non risiede esclusivamente nel rispetto delle regole del pubblico concorso, ma anche, più in generale, nel rispetto del principio cardine del buon andamento della P.A., che sarebbe pregiudicato qualora si addivenisse all'immissione in ruolo senza alcuna valutazione dei fabbisogni di personale e senza seguire le linee di programmazione nelle assunzioni, che sono indispensabili per garantire l'efficienza dell'amministrazione pubblica ed il rispetto delle esigenze di contenimento, controllo e razionalizzazione della spesa pubblica Cass., Sez. L, numero 42004 del 30 dicembre 2021 . A queste considerazioni del tutto condivisibili e suffragate dalla giurisprudenza citata non può conseguire, però, l'effetto auspicato dall'INPS, ovvero la non spettanza del TFR al lavoratore. Infatti, come sopra evidenziato, il TFR compete all'interessato per il fatto stesso di avere ricevuto un compenso corrispondente al valore delle mansioni lavorative svolte, a condizione che tali mansioni siano riconducibili ad un rapporto di natura subordinata ed a prescindere dalla qualificazione formale dello stesso ad opera delle parti contraenti. Se non conta l'originaria denominazione del rapporto come subordinato, non può, a maggior ragione, rilevare che detta denominazione venga assunta in un secondo momento o che, in seguito all'accertamento del giudice, il medesimo rapporto diventi formalmente subordinato. Il fatto che l'articolo 2120 c.c. riconosca il diritto al TFR in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato non implica, quindi, una sua formalizzazione come tale anteriormente alla sua risoluzione, atteso che questa disposizione si limita ad individuare il momento a partire dal quale siffatto diritto può essere esercitato, collocandolo alla fine del rapporto, ma non impone di riconoscere il TFR solo in presenza di un contratto espressamente qualificato come di lavoro subordinato, ben potendo il giudice limitarsi a riconoscerne l'esistenza ex post e solo dopo la sua cessazione, ricorrendo ad una sorta di fictio iuris. Se ne ricava, quindi, il principio per il quale, nel pubblico impiego privatizzato, la violazione delle disposizioni in tema di assunzione del dipendente e, nello specifico, di quelle sulla stipulazione dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa, non può tradursi nella costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, ma non preclude la maturazione del diritto del lavoratore al TFR, qualora il giudice accerti che, in fatto, il collaboratore coordinato e continuativo ha eseguito prestazioni di natura subordinata. D'altronde, l'accoglimento della tesi dell'INPS condurrebbe ad un esito singolare. Infatti, il lavoratore che, dopo avere stipulato un contratto di collaborazione coordinata e continuativa con un datore privato, si vedesse riconosciuto giudizialmente lo status di subordinato, avrebbe diritto al pagamento del TFR, una volta cessato il rapporto di lavoro. Al contrario, ove identico contratto fosse stato concluso con la P.A., egli non potrebbe ricevere, nelle stesse circostanze, il TFR, pur avendo espletato le medesime mansioni. Siffatto esito, però, sarebbe palesemente discriminatorio e in contrasto con l'articolo 3 Cost., non essendo fondato su differenze oggettive fra le prestazioni lavorative rese, ma solo sulla natura, pubblica o privata, del datore di lavoro. Neppure questo risultato potrebbe essere giustificato alla luce del disposto dell'articolo 97 Cost., in base al quale, nel pubblico impiego privatizzato, alla violazione di disposizioni imperative che riguardino l'assunzione, sia per pubblico concorso sia attingendo alle liste di collocamento, non può mai fare seguito la costituzione di un rapporto di pubblico impiego a tempo indeterminato. Indubbiamente, la ratio dell'articolo 36, comma 5, del D.Lgs. numero 165 del 2001, che prevede il divieto di trasformazione del rapporto di lavoro a termine in rapporto a tempo indeterminato, non risiede esclusivamente nel rispetto delle regole del pubblico concorso, ma anche, più in generale, nell'ossequio al principio cardine del buon andamento della P.A., che sarebbe pregiudicato qualora si addivenisse all'immissione in ruolo senza alcuna valutazione dei fabbisogni di personale e senza seguire le linee di programmazione nelle assunzioni, che sono indispensabili per garantire l'efficienza dell'amministrazione pubblica e le esigenze di contenimento, controllo e razionalizzazione della spesa pubblica Cass., Sez. L, numero 42004 del 30 dicembre 2021 . Il divieto in questione, peraltro, non può estendersi al diritto a percepire gli importi, di qualunque genere, maturati a titolo retributivo e ricollegati allo svolgimento effettivo dell'attività lavorativa, nonostante il diritto alla loro riscossione si collochi alla fine di un rapporto lavorativo sorto in violazione di disposizioni imperative che riguardino l'assunzione. Ne deriva la necessità di un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'articolo 2120 c.c. e della normativa rilevante in materia, che eviti distinzioni immotivate fra dipendente pubblico e privato. Afferma ancora l'INPS che, comunque, il lavoratore ha diritto a chiedere il risarcimento del danno ex articolo 36 del D.Lgs. numero 165 del 2001 e 32 della L. numero 183 del 2010 e che l'indennità così percepita avrebbe carattere omnicomprensivo perché ristorerebbe per intero il danno subito dal medesimo lavoratore, come previsto dalla L. numero 92 del 2012. Questa considerazione non ha, però, pregio, considerato che l'indennità economica riconosciuta al dipendente si sostituisce esclusivamente alle normali conseguenze risarcitorie che derivano dall'accertamento della natura subordinata del rapporto, assicurando al lavoratore un indennizzo che copre, in via forfetaria, i danni derivanti dall'illegittima condotta datoriale Cass., Sez. L, numero 24778 del 3 ottobre 2019 . In particolare, l'indennità di cui all'articolo 32, comma 5, della L. numero 183 del 2010, come autenticamente interpretato dall'articolo 1, comma 13, della L. numero 92 del 2012, ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore relativamente al periodo compreso fra la scadenza del termine apposto al contratto e la pronuncia del provvedimento contenente l'ordine giudiziale di ricostituzione del rapporto, con la conseguenza che il risarcimento del danno secondo gli ordinari criteri, che presuppone il persistente inadempimento del datore all'obbligo di ripristino del rapporto a seguito dell'ordine in questione, spetta al lavoratore solo dal momento di emanazione di detta pronuncia, la quale elimina ogni incertezza circa la sussistenza dell'obbligo datoriale di riammissione del lavoratore medesimo in servizio Cass., Sez. L, numero 702 del 18 gennaio 2021 . Ne deriva che l'indennità menzionata dall'INPS si riferisce al danno patito dal lavoratore per il periodo nel quale non ha svolto la sua prestazione e che, quindi, non può concernere il TFR, il quale matura al momento della cessazione del rapporto di lavoro, ma si ricollega alle mansioni svolte in costanza del rapporto medesimo. Venendo all'esame della controversia, si deve ritenere che la corte territoriale abbia fatto corretta applicazione dei principi sinora esposti. Infatti, nella specie, è incontestato che G.E. aveva stipulato con la P.A. quattro contratti di collaborazione coordinata e continuativa e che non era mai stato assunto con contratto di lavoro subordinato. I giudici del merito hanno ritenuto che, nella sostanza, il rapporto fra G.E. e l'INPS avesse avuto il carattere della subordinazione e, per questo motivo, il Tribunale di Roma, in primo grado, ha condannato la P.A. a pagare un'indennità risarcitoria commisurata a sei mensilità della retribuzione, oltre interessi, rigettando ogni altra domanda. La Corte d'appello di Roma ha, poi, riconosciuto il diritto del lavoratore a percepire la somma dovuta a titolo di TFR. Non risulta che l'INPS abbia mai eccepito, come pure sarebbe stato suo onere per l'ipotesi di eventuale riconoscimento, da parte dell'autorità giudiziaria, della natura subordinata del rapporto con il controricorrente, di avere comunque corrisposto tale somma ad G.E Pertanto, in applicazione dell'articolo 2120 c.c., la corte territoriale ha legittimamente accolto l'appello incidentale di G.E. in ordine al TFR. Deve quindi affermarsi il seguente principio di diritto In tema di pubblico impiego privatizzato, in caso di stipulazione di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa che, in seguito ad accertamento giudiziario, risulti avere la sostanza di contratto di lavoro subordinato, il lavoratore non può conseguire la conversione del rapporto in uno di lavoro subordinato a tempo indeterminato con la P.A., ma ha diritto ad una tutela risarcitoria, nei limiti di cui all'articolo 2126 c.c., nonché alla ricostruzione della posizione contributiva previdenziale ed alla corresponsione del trattamento di fine rapporto per il periodo pregresso . 2 Il ricorso è rigettato. Le spese di lite seguono la soccombenza ex articolo 91 c.p.c. e sono liquidate come in dispositivo, con distrazione in favore del procuratore dichiaratosi antistatario. Ricorrono i presupposti indicati dall'articolo 13, comma 1 quater, del D.P.R. numero 115 del 2002, modificato dalla L. numero 228 del 2012, per il c.d. raddoppio del contributo unificato a carico di parte ricorrente, se dovuto. P.Q.M. La Corte - rigetta il ricorso - condanna l'INPS a rifondere le spese del giudizio legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 2.500,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%, da distrarsi in favore del procuratore dichiaratosi antistatario - dichiara che sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi dell'articolo 1, comma 17, L. numero 228 del 2012, che ha aggiunto il comma 1 quater all'articolo 13 del D.P.R. numero 115 del 2002, dell'obbligo, per parte ricorrente, di versare l'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l'impugnazione integralmente rigettata, se dovuto.