Meglio il carcere che la detenzione domiciliare per la condannata affetta da problemi mentali

Respinta l’istanza avanzata da una donna e mirata ad ottenere la proroga del differimento della pena con la detenzione domiciliare. Decisivi per i Giudici due elementi primo, l’inadeguatezza dell’abitazione indicata secondo, l’incapacità della donna di badare a sé stessa.

Meglio il ritorno in carcere che la detenzione domiciliare in una casa inadeguata, se la persona condannata ha gravi problemi mentali e non è in grado di badare a sé stessa. Sotto i riflettori, in Cassazione, la decisione del Tribunale di sorveglianza di Roma, decisione con cui è stata respinta «la richiesta», avanzata da una donna, «di proroga del differimento facoltativo della pena nelle forme della detenzione domiciliare ». A seguito di tale provvedimento la donna è destinata a tornare in carcere, e questa soluzione è ritenuta dal Tribunale di sorveglianza la cosa migliore per la donna che, viene sottolineato, presenta «un quadro sanitario cronico molto serio, soprattutto sotto il profilo psichiatrico , come certificato anche da una relazione sanitaria del carcere di Rebibbia». In aggiunta viene ricordato che «la donna è stata assolta per vizio totale di mente in ordine al reato di atti persecutori , posto in essere ai danni di una famiglia che abitava nell’immobile in cui era in esecuzione la misura alternativa alla detenzione». Infine, il giudice di merito ricorda che, precedentemente, «una medesima richiesta è stata rigettata dal magistrato di sorveglianza di Roma, che ha ritenuto inidonea l’abitazione », indicata dalla donna, poiché «presentava pessime condizioni igieniche ed era inagibile, in quanto non vi era la serratura alla porta, né fornitura di acqua e di corrente elettrica». In sostanza, «dagli elementi acquisti è emerso che la collocazione nell’immobile indicato non era adeguata alle cure della donna», soprattutto per le «condizioni di abbandono che ne sarebbero derivate, considerando che ella non è nemmeno in grado di prendersi cura di sé e tende a gestire l’assunzione di farmaci in modo improprio sotto il profilo delle esigenze e dei dosaggi». Inutile il ricorso in Cassazione proposto dal legale della donna. Anche per i Giudici di terzo grado, difatti, il ritorno in carcere è la soluzione migliore. In premessa, i Magistrati ribadiscono che «il differimento facoltativo della pena detentiva o la concessione della detenzione domiciliare per grave infermità fisica» sono mirati a «tutelare il diritto alla salute del condannato », a fronte del rischio che «l’esecuzione della pena in carcere possa trasformarsi in una condizione inumana e degradante». Questo ragionamento non si attaglia però alla vicenda in esame, poiché «il Tribunale di sorveglianza ha ritenuto» fondatamente «che il diritto alla salute della donna non potesse più essere garantito nell’abitazione in cui stava trovando esecuzione la misura alternativa alla detenzione». In particolare perché «dall’analisi della storia clinica della condannata è emerso un quadro clinico cronico e grave, soprattutto dal punto di vista psichiatrico», con l’aggiunta della «incapacità della donna – con un vizio totale di mente – di provvedere a sé stessa». A completare il quadro, infine, anche «l’inidoneità dell’abitazione in cui eseguire la misura alternativa alla detenzione», chiosano i Giudici. Doveroso, perciò, respingere «la richiesta di proroga del regime di detenzione domiciliare, ritenendo plausibile che la donna – ai fini di una corretta e sana gestione del suo quadro clinico – venga trasferita in un’idonea struttura di cura». E in questa ottica è giusto, concludono i Giudici di Cassazione, «ritenere, allo stato, che la detenzione nel carcere di Rebibbia costituisca la soluzione più adeguata ad assicurare una migliore assistenza complessiva alla donna».

Presidente Boni – Relatore Fiordalisi Ritenuto in fatto 1. P.S. ricorre avverso l'ordinanza del 17 febbraio 2022 del Tribunale di sorveglianza di Roma, che ha rigettato la richiesta di proroga del differimento facoltativo della pena nelle forme della detenzione domiciliare ai sensi degli articolo 47 ter, comma 1-ter, L. 26 luglio 1975, numero 354 e 147 c.p. Il Tribunale di sorveglianza ha evidenziato che il quadro sanitario cronico della condannata era serio, soprattutto sotto il profilo psichiatrico, come certificato anche dalla relazione sanitaria del carcere di […]. La stessa, inoltre, era stata assolta per vizio totale di mente in ordine al reato di atti persecutori, posto in essere ai danni di una famiglia che abitava nell'immobile nel quale era in esecuzione la misura alternativa alla detenzione. Il giudice di merito, per di più, ha rilevato che, prima di essere ammessa in via provvisoria dal Magistrato di sorveglianza di Napoli alla detenzione domiciliare presso l'abitazione in Roma, la medesima richiesta era stata rigettata dal Magistrato di sorveglianza di Roma, che aveva ritenuto inidonea l'abitazione per le pessime condizioni igieniche e per l'inagibilità della stessa, in quanto non vi era la serratura alla porta, né fornitura di acqua e di corrente elettrica. Dagli elementi acquisti, pertanto, era emerso che la collocazione nell'immobile indicato non era adeguata alle cure della condannata, per le condizioni di abbandono che ne sarebbero derivate, considerando che era emerso che la stessa non era nemmeno in grado di prendersi cura di sé e che tendeva a gestire l'assunzione di farmaci in modo improprio sotto il profilo delle esigenze e dei dosaggi. 2. La ricorrente denuncia inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, con riferimento all' articolo 147 c.p. , comma 1, numero 2, perché il Tribunale di sorveglianza avrebbe trascurato di attribuire la giusta rilevanza allo stato di salute della condannata e avrebbe omesso di considerare che l'immobile nel quale stava trovando esecuzione la misura alternativa alla detenzione era fornita di energia elettrica come dimostrato dalla bolletta relativa alla sua utenza ed era dotata di idonea struttura idrica, esistendo apposita conduttura. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile. Giova in diritto premettere che, in tema di differimento facoltativo della pena detentiva o di concessione della detenzione domiciliare per grave infermità fisica, è necessario che la malattia da cui è affetto il condannato sia grave, cioè tale da porre in pericolo la vita o da provocare rilevanti conseguenze dannose e, comunque, da esigere un trattamento che non si possa facilmente attuare nello stato di detenzione, operandosi un bilanciamento tra l'interesse del condannato ad essere adeguatamente curato e le esigenze di sicurezza della collettività Sez. 1, numero 2337 del 13/11/2020, dep. 2021, Furnari, Rv. 280352 . La ratio dell'istituto, pertanto, è quello della tutela del diritto di salute del condannato, che implica il fatto che l'esecuzione della pena in carcere non possa trasformarsi in una condizione inumana e degradante. Nel caso in esame, il Tribunale di sorveglianza, fornendo sul punto una motivazione chiara e lineare in modo ineccepibile, ha ritenuto che il diritto alla salute della condannata non potesse più essere garantito nell'abitazione nella quale stava trovando esecuzione la misura alternativa alla detenzione. Dall'analisi della storia clinica della condannata, infatti, era emerso un quadro clinico cronico e grave, soprattutto dal punto di vista psichiatrico. In particolare, preso atto dell'incapacità di P. di provvedere a se stessa come era stato già confermato dal giudice della cognizione, che aveva accertato un vizio totale di mente e dell'inidoneità dell'abitazione nella quale eseguire la misura alternativa alla detenzione, il Tribunale di sorveglianza ha rigettato la richiesta di proroga del regime di detenzione domiciliare, ritenendo plausibile - ai fini di una corretta e sana gestione del quadro clinico della condannata - che la stessa fosse trasferita in un'idonea struttura di cura. I giudici, pertanto, hanno correttamente ritenuto che, allo stato, la detenzione nel carcere di […] costituisse anche la soluzione più adeguata ad assicurare una migliore assistenza complessiva alla condannata, in assenza di altro luogo idoneo, avuto riguardo comunque ai profili inerenti la pericolosità sociale della condannata. 2. Ai sensi dell' articolo 616 c.p.p. , ne consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, nonché al versamento in favore della Cassa delle ammende di una somma determinata, equamente, in Euro 3.000,00, tenuto conto che non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità Corte Cost. numero 186 del 13/06/2000 . P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.