Apostrofato dal collega avvocato con frasi ingiuriose: nessun risarcimento

Il difensore veniva a conoscenza di frasi ingiuriose mosse nei suoi confronti da un altro collega durante una conversazione intercettata, tuttavia non gli veniva riconosciuto alcun diritto al risarcimento in quanto la conversazione era privata e la sua intercettazione imprevedibile.

Il difensore V.A., nell'esaminare alcuni atti di indagine svolte a carico di un suo assistito, rinveniva alcune trascrizioni di un colloquio telefonico intercorso tra questi e il collega G.P., che con toni accesi disincentivava il cliente in questione a farsi difendere da V.A., mettendone in dubbio la conoscenza della materia e apostrofando il collega con termini ingiuriosi. Appreso del colloquio, V.A. ricorse al Tribunale affinché condannasse al risarcimento danni il collega. La domanda fu accolta in primo grado, ma rigettata in Appello, ove la Corte escluse alcuna responsabilità di G.P., sulla scorta che esso avesse agito senza dolo né colpa e nel corso di una conversazione privata che non poteva prevedere venisse registrata. L'imprevedibilità dell'intercettazione, a detta della Corte, avrebbe fatto venir meno qualunque nesso tra condotta e danno, mentre il contesto privato in cui le espressioni irriguardose furono scambiate avrebbe privato di antigiuridica al fatto. V.A. ricorre in Cassazione denunciando vizio di motivazione, lamentando come i giudizi negativi fossero stati mossi da G.P. al fine di acquisire un nuovo cliente a scapito del ricorrente, negando peraltro la natura privata della conversazione registrata, che non si svolgeva tra imputato e difensore, ma per fatti che vedevano lo stesso G.P. coimputato al cliente, circostanza non considerata, a detta di V.A., dal giudice di seconde cure. Nessuna mancanza di motivazione vi è stata, però, secondo la Suprema Corte e, pertanto, nessuna nullità della sentenza può essere invocata inammissibile è poi il motivo che lamenta l'omesso esame circa la natura del rapporto intercorrente tra G.P. e il cliente  infondata, infine, la doglianza riguardante la distrazione della clientela. Con riferimento alla mancanza della prova dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa, la motivazione esiste e una supposta erroneità in punto di diritto non la rende nulla, ma al più la renderebbe illegittima per error in iudicando, errore che in sede di legittimità dovrebbe essere censurato con la precisa indicazione della legge che si presuppone violata e non, come ha fatto V.A., invocando una generica nullità. Inoltre, le affermazioni con le quali V.A. ha voluto contrastare la mancanza di prova dell'elemento soggettivo hanno natura meramente fattuale, sono insindacabili in sede di legittimità e conoscibili solo dal Giudice di merito. Per i motivi sopra riportati, la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso presentato da V.A.

Presidente Amendola – Relatore Rossetti Fatti di causa 1. Nel 2012 A.V. , di professione avvocato, convenne dinanzi al Tribunale di Pescara il collega P.G. , esponendo che - uno dei suoi clienti, tale L.A. , gli aveva chiesto di essere difeso in sede penale - nell'esaminare gli atti delle indagini svolte a carico del proprio assistito, aveva rinvenuto la trascrizione di un colloquio telefonico intercorso fra quest'ultimo e l'avvocato P.G. - da tale conversazione emergeva che l'avvocato P.G. aveva consigliato ad L.A. di non farsi difendere da A.V. , dichiarando tra l'altro non capisce un ca di penale tecnicamente non sei tutelato la procedura non la conosce ti rovinerà la fedina penale non sa manco che cos'è un patteggiamento in continuazione è uno scaparo. Chiese pertanto la condanna del convenuto al risarcimento dei danni patiti in conseguenza dei fatti sopra descritti. 2. Con sentenza 8 gennaio 2015 numero 18 il Tribunale di Pescara accolse la domanda. La sentenza fu appellata dal soccombente. 3. Con sentenza 19 settembre 2019 numero 1469 la Corte d'appello de L'Aquila accolse il gravame e rigettò la domanda di risarcimento proposta da A.V. . A fondamento della propria decisione la Corte d'appello osservò che - non vi era prova che il convenuto avesse agito con dolo - non vi era prova che il convenuto avesse agito con colpa, dal momento che le espressioni che si assumevano ingiuriose erano state espresse nel corso di una conversazione privata, sicché non poteva prevedere che sarebbero divenute note anche a terzi - poiché il convenuto, allorché utilizzò le espressioni oggetto del contendere non poteva prevedere di essere intercettato, mancava il nesso di causalità tra condotta e danno - mancava, infine, l'antigiuridicità del danno, perché le espressioni adoperate dal convenuto, seppur irriguardose, erano state formulate sempre in un contesto privato e privilegiato sic . 4. La sentenza d'appello è stata impugnata per cassazione da A.V. con ricorso fondato tre motivi. Ha resistito con controricorso P.G. . Ragioni della decisione 1. Col primo motivo il ricorrente prospetta sia la nullità della sentenza per mancanza di motivazione, ai sensi dell'articolo 132 c.p.c., sia il vizio di omesso esame d'un fatto decisivo Nella illustrazione del motivo sostiene che erroneamente la Corte d'appello ha reputato che le espressioni offensive sopra trascritte vennero adottate da P.G. nell'ambito di un colloquio privato fra un avvocato ed il suo assistito deduce in contrario il ricorrente che L.A. non era affatto un cliente dell'avvocato P. , ma al contrario era insieme a lui coimputato in un procedimento penale per violazione delle norme in materia di stupefacenti. 1.1. Nella parte in cui lamenta la nullità della sentenza il motivo è manifestamente infondato, giacché una sentenza può dirsi nulla soltanto quando la motivazione manchi del tutto o sia totalmente incomprensibile, circostanze non ricorrenti nel nostro caso. Nella parte in cui lamenta l'omesso d'un fatto decisivo il motivo è invece inammissibile per difetto di rilevanza. Per stabilire, infatti, se la condotta del convenuto costituisse o non costituisse un fatto illecito era del tutto irrilevante accertare quali rapporti intercorressero tra l'autore delle dichiarazioni che si assumono offensive e il destinatario di esse. 2. Col secondo motivo il ricorrente dichiara di voler censurare ai sensi dell'articolo 132, comma 2, numero 4 scilicet, c.p.c. numero d.e. la sentenza d'appello nella parte in cui ha ritenuto che la condotta del convenuto non fosse nè dolosa, nè colposa. Nella illustrazione del motivo il ricorrente, dopo avere trascritto un passo della sentenza di primo grado, aggiunge che i giudizi espressi sul suo conto da P.G. erano offensivi e volgari che essi erano deontologicamente rilevanti che P.G. ben conosceva l'antigiuridicità del fatto che, infine, i suddetti giudizi sembravano mossi dall'intento di acquisire un nuovo cliente, sottraendolo al collega. 2.1. Il motivo è infondato. Se si ha riguardo alla sua intitolazione, esso è infondato per la ragione già esposta in precedenza una sentenza può dirsi nulla ai sensi dell'articolo 132 c.p.c., comma 2, numero 4, solo in due casi quando sia totalmente priva di motivazione, oppure quando poggi su una motivazione oggettivamente incomprensibile. Nel caso di specie, però, non ricorre nessuna di queste due condizioni la Corte d'appello, infatti, ha rigettato la domanda affermando che manca la prova dell'elemento soggettivo del dolo, della colpa , oltre che il nesso causale tra condotta e danno. La motivazione, dunque, esiste ed è ben chiara. Che poi quella affermazione sia stata o possa essere stata erronea in punto di diritto è circostanza che non rende nulla la sentenza per mancanza di motivazione la rende illegittima per un error in iudicando. Errore che, tuttavia, in sede di legittimità deve essere censurato prospettando in modo corretto quale legge sia stata violata dal giudice d'appello e perché, e non invocando genericamente la nullità della sentenza per mancanza di motivazione. 2.2. Se poi si avesse riguardo all'illustrazione del motivo, piuttosto che alla sua intitolazione, esso sarebbe addirittura inammissibile per mancanza del contenuto minimo essenziale che la norma appena ricordata esige dal ricorrente per cassazione ossia la chiara indicazione dell'errore di diritto in cui sarebbe incorso il giudice di merito. Infatti nel caso di specie il giudice di merito, investito da una domanda di risarcimento del danno aquiliano, l'ha rigettata affermando non esservi prova del dolo o della colpa . Ma rigettare una domanda di danno sul presupposto che manchi la prova dell'elemento soggettivo del fatto illecito è affermazione ovviamente di per sé corretta in punto di diritto. Tale affermazione il ricorrente ha inteso contrastare, a ben vedere, limitandosi a contrapporle tre semplici affermazioni a i giudizi espressi sul suo conto erano gravemente offensivi b la controparte conosceva l'antigiuridicità del fatto c la controparte era mossa dall'intento di sottrarre un cliente al collega. Si tratta con evidenza di tre affermazioni non solo non pertinenti rispetto alla ratio decidendi sottesa dalla sentenza impugnata cioè la mancanza della prova della colpa ma per di più concernenti questioni la gravità d'una offesa, la conoscenza di un fatto, gli intenti di una persona di puro fatto, riservate al giudice di merito ed insindacabili in sede di legittimità. 3. Col terzo motivo il ricorrente esordisce p. 14 del ricorso dichiarando di voler censurare l'affermnione sempre a pagina 4 della sentena d'appello a tale enunciazione seguono due pagine e mezzo dedicate alla illustrazione generale ed astratta dei limiti al diritto costituzionale di critica. 3.1. Il motivo è manifestamente inammissibile perché non contiene alcuna oggettiva censura avverso la sentenza impugnata, ma si limita ad una mera enunciazione di principi astratti, per di più estranei alla già ricordata ratio decidendi sottesa dalla sentenza impugnata, e cioè la mancanza di prova dell'elemento soggettivo del fatto illecito. 4. Le spese del presente giudizio di legittimità possono essere compensate interamente tra le parti, in considerazione dell'esito alterno dei giudizi di merito. P.Q.M. - dichiara inammissibile il ricorso - compensa integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità - ai sensi del D.P.R. numero 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.